2024-03-20
Schillaci: «No al green pass globale. E non vogliamo
cedere più poteri all’Oms»
Orazio Schillaci (Imagoeconomica)
Il ministro della Salute: «Il fascicolo elettronico è uno strumento a vantaggio dei pazienti. Troppi fondi privati all’agenzia Onu, che però non compromette la nostra sovranità».Lei ha dovuto smentire che l’Italia aderirà al cosiddetto green pass globale dell’Oms, aggiungendo però che dobbiamo assicurare «piena operatività del fascicolo sanitario elettronico». Qual è la differenza?«Il fascicolo sanitario elettronico è prima di tutto uno strumento a vantaggio del cittadino che può disporre della sua storia clinica attraverso un unico punto di accesso digitale. La digitalizzazione semplifica e consente al proprio medico e agli specialisti di potersi interfacciare più facilmente. E aiuta anche l’appropriatezza prescrittiva. Il Fascicolo è di aiuto anche ai farmacisti che seguono i pazienti nel seguire correttamente una terapia. Ci stiamo lavorando in stretto raccordo con il Garante della privacy, perché sappiamo bene che è essenziale un trattamento sicuro dei dati. Riguardo al green pass globale dell’Oms, gli Stati europei non hanno l’obbligo di adesione e l’Italia non aderirà». Molti passaggi controversi del Trattato pandemico sono stati soppressi, per poi rientrare dalla finestra attraverso gli emendamenti al Regolamento sanitario internazionale, che conferisce poteri assoluti al dg dell’Oms (può imporre lockdown, vaccinazioni obbligatorie, quarantene, blocco delle merci, chiusura delle frontiere...). Lei ha dichiarato che «saranno preservati gli interessi nazionali»: è giusto conferire tutti questi poteri a un ente sovranazionale finanziato da privati?«L’Italia ha sempre sostenuto che la parte maggioritaria dei fondi debba essere di provenienza degli Stati. Ciò aumenterebbe il peso specifico degli Stati stessi. Confermo quello che ho detto, la posizione di questo governo è di salvaguardare gli interessi dell’Italia contro qualsiasi logica di potere assoluto e lo faremo utilizzando gli strumenti a disposizione». Il governo ha sposato l’approccio One Health, che intende armonizzare i protocolli sanitari mondiali, concentrando i servizi nella formula Vtd (vaccini, terapie, diagnostica). Non si rischia di perdere sovranità sanitaria?«L’approccio One Health non compromette in alcun modo la sovranità sanitaria e non ha lo scopo di armonizzare i protocolli sanitari mondiali. È una strategia che guarda all’innegabile interconnessione tra salute umana, animale e dell’ambiente. Ambiti, dunque, che richiedono un intervento integrato di tutela della salute. In Europa siamo l’unico ministero della Salute che ha la sanità veterinaria tra le sue competenze insieme alla prevenzione della salute pubblica. Possiamo dire che nel 1958 il legislatore, quando ha istituito questo ministero, è stato un precursore dell’approccio One Health.Lei è il primo ministro di area di centrodestra dopo un decennio di ministri di centrosinistra. In quali condizioni ha trovato la sanità italiana?«Ingolfata da anni di scarsa attenzione, poche risorse e modelli organizzativi che hanno bisogno di essere adeguati ai nuovi bisogni di salute. Abbiamo professionisti di elevata qualità, le classifiche Ocse ci vedono in posizioni molto performanti in diverse prestazioni, ma ci sono criticità, che non nascono oggi, che devono essere affrontate. Prima non è stato fatto, ora lo stiamo facendo ma è evidente che ciò richiede tempo».Prima di lei, i tagli alla sanità pubblica sono stati di 37 miliardi: cosa ha fatto il governo per invertire la rotta?«Abbiamo aumentato le risorse del fondo sanitario: sul triennio 2024-2026 sono 11,2 miliardi in più. Tre miliardi alla sanità nel 2024 non sono pochi. Dal 2014 al 2019 il finanziamento del Fondo si è progressivamente ridotto. Si può fare di più? Certo. Abbiamo fatto poco? Non direi. La verità è che la salute aveva perso centralità nell’agenda di governo, ora è tornata protagonista».L’opposizione accusa il governo di voler privatizzare la sanità. Come risponde?«Su questo voglio essere chiaro: nessuno vuole privatizzare la sanità. Le misure che abbiamo adottato ad esempio per smaltire le liste d’attesa, anche con il coinvolgimento del privato convenzionato, hanno l’unico obiettivo di dare riposte al cittadino per il quale pagare il ticket in una struttura pubblica o in una privata convenzionata non fa differenza. E ricordo, come faccio sempre, che il privato convenzionato in Italia è parte integrante del servizio pubblico e deve fare la sua parte mettendo a disposizione tutta l’offerta di prestazioni, non solo quelle più remunerative. Su questo sono stato molto chiaro anche con le Regioni. Detto ciò, stiamo lavorando su più fronti per rafforzare la risposta del servizio pubblico. In questa direzione vanno gli investimenti sull’assistenza territoriale, l’aumento delle tariffe orarie per le prestazioni aggiuntive, i 2,4 miliardi per i nuovi rinnovi contrattuali. E i prossimi obiettivi sono l’aumento dell’indennità di specificità per gli operatori sanitari e il superamento dei tetti di spesa per le assunzioni di personale. Vedo che c’è tanta disponibilità di gettonisti, questo significa che i medici ci sono, dobbiamo riportarli nel pubblico. Riduzione dei tempi di attesa, più ospedali, più personale nei Pronto soccorsi, medicina di prossimità. In che ordine rimetterebbe queste esigenze dovendole inserire nella lista delle priorità del ministero?«Scambierei la medicina di prossimità con più ospedali nell’ordine di priorità. Perché la sanità territoriale è la chiave per dare risposta anche a parte delle altre criticità. Oggi vediamo Pronto soccorsi affollati, con conseguente aggravio di lavoro per il personale, perché c’è un eccesso di codici bianchi e verdi che dovrebbero trovare riposte in altri setting assistenziali. Non a caso gli investimenti del Pnrr sono concentrati sull’assistenza territoriale e domiciliare: casa come primo luogo di cura, case e ospedali di comunità. Superare questo vulnus significa anche ridurre i tempi di attesa, portare l’assistenza anche nelle aree più in difficoltà, come i piccoli Comuni o i Comuni montani, e alleggerire la pressione sulla rete ospedaliera. Riguardo le liste d’attesa, ricordo che abbiamo rifinanziato i piani operativi regionali per il recupero dei ritardi e più volte ho sollecitato le Regioni a garantire la piena integrazione delle agende di prenotazione con tutta l’offerta di prestazioni disponibile, pubblica e privata convenzionata. Al ministero stiamo aggiornando il Piano di governo delle liste d’attesa e ho istituito una commissione per avere i tempi reali d’attesa e individuare le prestazioni che presentano maggiori criticità in modo da sapere dove occorre intervenire. A oggi questi dati non esistono». Abbiamo parlato per anni dell’emergenza Covid, eppure nei nostri ospedali ce n’è una di cui si parla poco: le infezioni ospedaliere. In Italia ogni anno muoiono migliaia di persone. Cosa si sta facendo per invertire la rotta?«Abbiamo approvato e finanziato il nuovo piano di contrasto all’antimicrobico resistenza che è in corso di attuazione e pone tra i suoi cardini la sorveglianza anche attraverso l’istituzione di nuove sorveglianze e il rafforzamento e l’ampliamento di quelle esistenti. L’antimicrobicoresistenza è una delle minacce più pericolose per il futuro della salute pubblica e per la tenuta dei sistemi assistenziali a livello globale. E l’antibioticoresistenza è senz’altro il fenomeno di maggior impatto. Gli antibiotici restano infatti una formidabile arma, di cui però dobbiamo avere grande cura, riservandola ai soli casi per cui sono indicati e necessari. Per questo è essenziale incentivare le migliori pratiche e l’appropriatezza prescrittiva, per ridurre la diffusione di infezioni resistenti a questi farmaci. Un utilizzo eccessivo e inappropriato, sia per uso umano che veterinario, insieme alla diffusione di Infezioni correlate all’assistenza, alimenta l’antimicrobicoresistenza. I dati del Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ecdc) stimano 35.000 morti l’anno in Europa per infezioni ospedaliere, di cui un terzo in Italia. Tra gli investimenti del Pnrr è previsto uno specifico Piano straordinario di formazione sulle infezioni ospedaliere per gli operatori sanitari. Ricordo che le infezioni ospedaliere si combattono in primo luogo seguendo le buone pratiche riconosciute a livello internazionale, in primis il lavaggio delle mani. Che può sembrare una banalità ma non lo è. Gli ultimi dati dell’Istituto superiore di sanità dicono che, finita l’emergenza Covid, è diminuito il consumo ospedaliero di soluzione idroalcolica rispetto all’aumento nei due anni di pandemia. È importante si parli di antibioticoresistenza e di infezioni ospedaliere perché è un’emergenza e possiamo arginarla.Modifica dello scudo penale dei medici: i cittadini la percepiscono come una «deresponsabilizzazione» e assenza di accountability… Come risponde?«Non è così e la ringrazio per la domanda. Gli interventi sulla colpa medica non intendono in alcun modo ledere il diritto dei cittadini. Depenalizzare la colpa medica non significa sollevare il medico dalle responsabilità e non inficia il diritto in sede civile dei cittadini a essere risarciti. Oggi abbiamo un numero elevatissimo di denunce nei confronti di medici con oltre il 90 per cento di cause che finiscono in nulla di fatto. Tutto questo alimenta la medicina difensiva con troppe prescrizioni inappropriate. È un circolo vizioso che va interrotto. L’obiettivo è garantire più serenità al medico senza intaccare i diritti dei cittadini. Attendiamo l’esito dei lavori della Commissione Nordio che saranno propedeutici a una riforma strutturale in materia di responsabilità professionale sanitaria. Durante la pandemia si diceva che chi non era vaccinato «occupava le terapie intensive». Ora, affinché il sistema sanitario possa definirsi «pubblico», tutti devono aver diritto ad accedervi. Se iniziamo a dire che alcuni contribuenti non lo «meritano», il concetto di «sanità pubblica» non perde significato, rischiando di portare a derive da Stato etico? «Non ci sono cittadini che “non meritano” di accedere al servizio pubblico. Tutti vi accedono. Durante la fase acuta del Covid, quando ancora non c’era la disponibilità del vaccino, tutti i casi gravi finivano in terapia intensiva tanto che è stato necessario aumentare i posti in tutta Italia. Superata quella fase terribile, i monitoraggi sui posti letto di terapia intensiva indicavano che era più frequente l’ingresso in terapia intensiva delle persone non vaccinate che avevano sviluppato la forma grave della malattia. C’è anche chi non si è vaccinato e non ha contratto il Covid. Il tasso di occupazione è una definizione tecnica, non è un’accusa. Riguardo alla prevenzione, prevenire non è “condizione” per l’accesso ai servizi sanitari, ma ribadisco che sono fermamente convinto che sia un dovere verso se stessi e verso la collettività. Ferma restando la libertà individuale, lo Stato ha il dovere di informare su quali siano le scelte migliori per evitare di ammalarsi. Non possiamo pensare che i sistemi sanitari in futuro possano essere sostenibili se non si investe in prevenzione. Dobbiamo poter disporre di un sistema che cura ma anche che previene, perché la nostra è una popolazione che invecchia e credo sia un bene che si viva più a lungo e ancora di più se in salute. Meno malati in futuro significa più salute individuale e collettiva e risparmi per il servizio sanitario che possono essere investiti, ad esempio, nella ricerca e negli screening oncologici». La scienza contemporanea punta a tutelare la salute pubblica attraverso cure preventive: si parla molto delle nuove terapie mRna. Il cittadino secondo lei ha il diritto di dire che non vuole avvalersene?«Io credo nella scienza e nei progressi che in tutti questi anni ci hanno permesso di trattare malattie, anche gravi, un tempo considerate incurabili. La Costituzione prevede che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. Mi sembra che sia una tutela chiara».
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