2024-06-20
Scattano Patto e infrazione per deficit. 10 miliardi l’anno di tagli per sette anni
Arriva il conto del nuovo Patto di stabilità: procedura di infrazione contro l’Italia. Non solo dovremo fare riduzioni pari allo 0,5% del Pil, ma la Commissione va all’arrembaggio su balneari e sulla riforma delle imposte immobiliari. Cresceranno le tasse dirette. Con il nuovo Patto di stabilità la procedura d’infrazione contro l’Italia era attesa. Anzi telefonata. Arrivata ieri. Ci costerà più o meno 10 miliardi all’anno di tagli per sette anni. E una serie di spine nel fianco che si possono sintetizzare in due richieste. La Commissione ha infatti ricordato che dovremo avviare le gare europee delle spiagge e, soprattutto, mettere a terra la terribile riforma del Catasto, la stessa avviata da Mario Draghi e per fortuna mai autorizzata dal Parlamento. Purtroppo nulla di nuovo, ma stavolta (rispetto al vecchio Patto di stabilità) vale la pena ricordare che la morsa sarà meno stretta dal punto di vista numerico, ma più invasiva dal punto del controllo. Unico elemento positivo è che l’Italia non sembra più essere nel mirino della Ue. O meglio non è il principale obiettivo. Si appresta a sostituire Roma una Parigi che agli occhi della Bce e della Commissione uscente rischia di finire nelle mani dei partiti di destra. L’Ue «ha preparato una relazione per 12 Stati membri al fine di valutare la loro conformità al criterio del disavanzo». Il disavanzo eccessivo, ha specificato ieri l’esecutivo europeo nel testo, riguarda sette Stati membri: Belgio, Francia, Italia, Ungheria, Malta, Polonia e Slovacchia, mentre la Romania rimane in procedura per deficit eccessivo dopo che questa era stata aperta nel 2020. Dei 12 Stati sotto indagine, non vengono inseriti nella procedura la Repubblica Ceca, l’Estonia, la Spagna, la Finlandia e la Slovenia. La Grecia e l’Italia si trovano ancora in squilibrio dopo aver registrato disparità eccessive fino all’anno scorso, mentre le vulnerabilità sono diminuite, «ma restano preoccupanti». I rischi di sostenibilità fiscale «saranno esaminati nell’ambito della riforma della governance europea», ha specificato la Commissione nella sua valutazione. «Nel complesso, l’analisi della sostenibilità del debito dell’Italia indica rischi elevati nel medio termine», ha continuato Bruxelles. «Secondo le proiezioni decennali di base, il rapporto debito-Pil aumenterà costantemente fino a raggiungere», al ritmo attuale, «circa il 168% del Pil nel 2034. È molto probabile che il rapporto debito-Pil sia più alto nel 2028 che nel 2023», si legge ancora nel rapporto. Il debito pubblico dell’Italia è invece sceso dal 155% del Pil alla fine del 2020 al 147,1% alla fine del 2021, al 140,5% nel 2022 e al 137,3% nel 2023, ma Bruxelles prevede un aumento al 141,7% del Pil alla fine del 2025. Al di là della lunga sequenza di numeri, dal rapporto si evince che la Commissione ci chiede di presentare nei prossimi due mesi un piano strutturale di bilancio a medio termine in modo di riallineare spesa e disavanzo. È chiaro che in linea teorica gli obiettivi di rientro del debito per un Paese iper esposto come il nostro sono da mettere sul tavolo e valutare con attenzione. L’ha spiegato più volte e ribadito ieri il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti. «È finita l’era del dispendio del Superbonus e della spesa pubblica distribuita ai fini elettorali». In queste raccomandazioni, tuttavia, c’è un pericolo da non sottovalutare. Quando al termine della precedente legislatura il Parlamento fece saltare il progetto dell’esecutivo che mirava a una riforma digitale del Catasto e allo spostamento della tassazione da un piano reddituale a quello patrimoniale, l’Italia non aveva una spada di Damocle sulla testa. Il Patto di stabilità era sospeso. Adesso le cose sono cambiate e immaginare che per non subire altri tagli si debba riformare il mondo dell’immobiliare e di fatto tassarlo ogni anno (era l’obiettivo al termine dell’iter di riforma) significa trovarsi di fronte a un nuovo ricatto. La riforma catastale avrebbe portato più imposte e più povertà. Un governo e un Parlamento hanno il dovere di remare in direzione opposta e tutelare il risparmio degli italiani. Saremo liberi di tenere la linea? Questa è la domanda fondamentale che si somma alla seconda questione di peso: come sarà tornare ai tagli? «Niente austerità», ha assicurato ieri il commissario all’Economia, il piddino Paolo Gentiloni confermando con la sua negazione tutte le preoccupazione degli italiani. «La cautela nella spesa è necessaria per Paesi ad alto debito e con un deficit alto, e mi pare che il governo italiano ne sia consapevole», ha detto. «Contemporaneamente, l’Italia ha un volume di fuoco possibile di investimenti senza precedenti, in larga parte messo a disposizione da risorse comuni europee. E non possiamo rassegnarci al paradosso che da una parte diciamo che c’è il ritorno all’austerità, e dall’altra facciamo fatica a mettere a terra le ingenti risorse di cui abbiamo bisogno», ha concluso regalandoci un esempio perfetto del tentativo di mettere fine alla sovranità finanziaria. Per Gentiloni gli unici investimenti consentiti devono essere quelli a bandiera Ue: dal Green new deal al Pnrr. Il resto non è contemplato. Esempio pratico: il governo dovrà fare la manovra conservando gli interventi avviati con la legge finanziaria dello scorso dicembre. Dai 20 ai 25 miliardi di interventi. Al tempo stesso dovrà mettere a terra 10 miliardi di tagli, lo 0,5% del Pil. Come farà? Taglierà probabilmente i sussidi alle non rinnovabili e metterà qualche tassa qua e là, dovendo garantire il taglio del cuneo. Ciò significa che non avremo risorse per mettere in carreggiata la riforma fiscale: la cosa più importante per dare linfa alle aziende. Questo significa concretamente perdere la sovranità fiscale. E lo si capisce anche da quanto le forze politiche europeiste avversino l’autonomia differenziata. Si tratta di dare alle Regioni un potere più marcato che l’Ue avrà difficoltà a contrastare, perché i vincoli sono tanto più esigibili quanto più ci si avvicina alle amministrazioni centrali. Bene dunque che sia passato il primo grande step della riforma federale. Piccola soddisfazione per chi ai sussidi preferisce meno tasse e mani libere per chi fa impresa.
Francesco Nicodemo (Imagoeconomica)
(Ansa)
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