2024-10-17
Gli scafisti egiziani come agenzie di viaggi. Pacchetti per l’Italia reclamizzati sui social
Sgominata un’organizzazione con base nel Belpaese: offrivano soluzioni «base» o «premium». E ricevevano recensioni online.Una macchina ben oliata, intrisa di disperazione e denaro, si alimentava in Italia trasportando migranti e pubblicizzando via social le proprie attività criminali, come se fosse una qualsiasi agenzia di viaggi. Una pagina Facebook, un profilo Instagram, tutto scritto in arabo e tutto alla luce del sole, con pacchetti «base» e «premium». Il primo, brutale e semplice, prevedeva un viaggio in mare, ammassati sul classico barcone diretto verso le coste italiane o greche. Il secondo era per chi poteva permettersi di più: un volo aereo, una macchina, e quando era possibile anche un lavoro fittizio per ottenere un permesso di soggiorno.La stanza dei bottoni da cui veniva organizzato tutto era a Milano, in via Padova, nel cuore di un quartiere multietnico che di certo non brilla per integrazione. Qui, hanno scoperto gli investigatori della Squadra mobile meneghina che ieri hanno eseguito dieci fermi (un undicesimo indagato è stato fermato a Palermo) per associazione a delinquere, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina ed esercizio abusivo dell’attività creditizia, un egiziano di 48 anni, incensurato e con la cittadinanza italiana, ufficialmente dipendente di un’impresa, si muoveva silenzioso. Finché non è finito sotto la lente della Procura antimafia milanese era un fantasma. Per lui, stando all’inchiesta, il traffico di esseri umani non era diverso da qualsiasi altra attività commerciale: per riuscire nell’impresa doveva solo spostare delle persone da un punto «A» a un punto «B». Ovviamente a un prezzo. Ma non era l’unico protagonista dell’attività criminale. Le indagini, cominciate due anni fa, hanno portato alla luce una rete complessa, ramificata tra l’Egitto, la Libia e l’Europa. In Libia le Safe house si trasformavano in celle per chi attendeva di partire. Acqua stagnante e cibo scarso per settimane, spesso per mesi, in attesa che la sorveglianza della Guardia costiera libica allentasse la presa o che i trafficanti decidessero che era il momento giusto per rischiare il mare. Spesso, hanno monitorato gli inquirenti, avvenivano degli spostamenti improvvisi, che probabilmente venivano disposti quando i complici in Libia sospettavano che le autorità di Tripoli potessero scoprire il luogo in cui venivano nascosti i migranti. Ogni vita aveva un prezzo che oscillava tra i 4.000 e i 6.000 euro, pagati da parenti, amici o debitori che scommettevano sul futuro del prescelto versando il dovuto con il sistema dell’hawala, il metodo fiduciario con cui venivano trasferiti i soldi da una parte all’altra della costa. E se in un sobborgo di Tripoli, tra edifici diroccati e strade sabbiose, come hanno mostrato i video girati dagli inquirenti, si trovava uno dei centri nevralgici di questo traffico, nella zona di Milano c’era una famiglia specializzata nell’attività finanziaria. Una sorta di banca clandestina che, tramite esperti spalloni, spostava il denaro senza lasciare tracce. Per ogni transazione completata, gli hawaladar trattenevano una percentuale, un costo per garantire che tutto andasse avanti senza intoppi. Un sistema che funzionava alla perfezione, fino a quando le rotte marittime si sono fatte sempre più sorvegliate.Così, con la stessa freddezza con cui gli egiziani avevano orchestrato le traversate via mare, si sono adattati, passando alla rotta balcanica. Un tragitto tortuoso, attraverso le montagne impervie e le foreste dell’Europa orientale. Lo sbarco avveniva in Grecia. E in questo caso per partire servivano tra i 3.000 e i 5.000 euro. Sono almeno otto le traversate via mare ricostruite nel decreto di fermo: una approdata a Lampedusa, un’altra a Civitavecchia e cinque sulle coste greche. Un altro viaggio si era concluso con un’attività di soccorso nel Mediterraneo, probabilmente con il classico trasbordo su un taxi del mare. Fin qui la parte dell’indagine che ha prodotto il decreto di fermo. Ma ci sono dettagli che gli investigatori stanno ancora approfondendo. Alcuni indagati, per esempio, negli ultimi mesi si stavano organizzando per eludere le normative del Decreto flussi, quello che disciplina l’ingresso regolare di lavoratori stranieri. Un servizio che di certo avrebbe migliorato l’offerta e attirato più clienti. Quelli approdati, monitorati dagli investigatori, si è scoperto che decantavano sui social la riuscita del viaggio e la bravura degli scafisti, come in una macabra campagna pubblicitaria. E se qualcuno chiedeva loro come contattarli, i numeri di telefono venivano forniti immediatamente, con tanto di referenze. A Palermo, invece, c’era uno degli hub per gli spostamenti. Gli investigatori delle Squadre mobili di Palermo e di Agrigento, nell’ambito della stessa indagine, hanno scoperto che l’indagato sarebbe stato impiegato in diverse operazioni illegali a partire dal 2022, oltre a organizzare anche lui dei viaggi. Il costo, in questo caso, era di 11.000 euro, ma si aveva diritto a uno sconto se si dimostrava una certa amicizia con il mediatore in Libia. Per ora il numero di viaggi organizzati «è indeterminato», affermano gli investigatori, così come «è indefinito» il numero di migranti che sarebbe riuscito a far sbarcare in Italia. L’egiziano viene però definito nelle carte dell’inchiesta come «seriale» e inserito in un «network» transnazionale con triangolazioni tra Egitto, Libia e Milano. «I complici», sostengono gli investigatori, «sono in corso di identificazione». E proprio cercando di individuare i complici l’indagine palermitana si è intrecciata con quella della Squadra mobile di Milano. Segno che la rete in Italia della banda egiziana potrebbe essere più ampia.
Container in arrivo al Port Jersey Container Terminal di New York (Getty Images)
La maxi operazione nella favela di Rio de Janeiro. Nel riquadro, Gaetano Trivelli (Ansa)
Nicolas Maduro e Hugo Chavez nel 2012. Maduro è stato ministro degli Esteri dal 2006 al 2013 (Ansa)
Un disegno che ricostruisce i 16 mulini in serie del sito industriale di Barbegal, nel Sud della Francia (Getty Images)
Situato a circa 8 km a nord di Arelate (odierna Arles), il sito archeologico di Barbegal ha riportato alla luce una fabbrica per la macinazione del grano che, secondo gli studiosi, era in grado di servire una popolazione di circa 25.000 persone. Ma la vera meraviglia è la tecnica applicata allo stabilimento, dove le macine erano mosse da 16 mulini ad acqua in serie. Il sito di Barbegal, costruito si ritiene attorno al 2° secolo dC, si trova ai piedi di una collina rocciosa piuttosto ripida, con un gradiente del 30% circa. Le grandi ruote erano disposte all’esterno degli edifici di fabbrica centrali, 8 per lato. Erano alimentate da due acquedotti che convergevano in un canale la cui portata era regolata da chiuse che permettevano di controllare il flusso idraulico.
Gli studi sui resti degli edifici, i cui muri perimetrali sono oggi ben visibili, hanno stabilito che l’impianto ha funzionato per almeno un secolo. La datazione è stata resa possibile dall’analisi dei resti delle ruote e dei canali di legno che portavano l’acqua alle pale. Anche questi ultimi erano stati perfettamente studiati, con la possibilità di regolarne l’inclinazione per ottimizzare la forza idraulica sulle ruote. La fabbrica era lunga 61 metri e larga 20, con una scala di passaggio tra un mulino e l’altro che la attraversava nel mezzo. Secondo le ipotesi a cui gli archeologi sono giunti studiando i resti dei mulini, il complesso di Barbegal avrebbe funzionato ciclicamente, con un’interruzione tra la fine dell’estate e l’autunno. Il fatto che questo periodo coincidesse con le partenze delle navi mercantili, ha fatto ritenere possibile che la produzione dei 16 mulini fosse dedicata alle derrate alimentari per i naviganti, che in quel periodo rifornivano le navi con scorte di pane a lunga conservazione per affrontare i lunghi mesi della navigazione commerciale.
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