
Il ministro degli Affari europei ed economista Paolo Savona indica i prossimi passi: «Accordo con Bruxelles per escludere le misure espansive pubbliche dai patti fiscali».Punto primo: «Nella manovra la parola “crescita" appare solo nel dato statistico che indica una diminuzione del Pil preventivato dall'1,5 all'1%, fermo sui valori del 2018. […] Questo dato richiede che l'azione di governo si concentri sull'obiettivo di riavviare gli investimenti, che restano lo strumento indispensabile per ostacolare la congiuntura negativa e per non aggravare i ritardi di crescita accumulati». Punto secondo: «Nel corso del 2019 gli investimenti in Italia non possono essere inferiori all'1% del Pil, se si vuole raggiungere la crescita reale prevista; meglio se si raggiunge il 2%, se si vuole mettere il Paese in sicurezza dagli attacchi speculativi. Infatti la crescita del primo semestre sarà prossima a zero e gli effetti provenienti dai maggiori investimenti potrebbero ragionevolmente esplicarsi solo nel secondo semestre».Punto terzo: «La cintura di sicurezza che l'Italia sarà in condizione di attuare con le sue forze non basterà per portare il Paese fuori dalla crisi iniziata nel 2008. L'Ue deve sbloccare i vincoli che pone all'uso degli strumenti di politica economica».Paolo Savona, economista e ministro degli Affari europei, ieri ha pubblicato su Milano Finanza un articolo per fare il punto sulla manovra il giorno dell'arrivo in Senato del maxi emendamento. Partendo dalla premessa che «la politica si nutre di realismo e l'accordo raggiunto con la Commissione europea porta chiara questa impronta» e che «il governo ha retto nel difendere il minimo necessario per riaprire l'offerta di lavoro, soprattutto ai giovani, e combattere la povertà», il ministro ha indicato le future battaglie «sul duplice obiettivo di riavviare gli investimenti [...] e di definire una politeia che restituisca prospettive di crescita all'Italia e di stabilità all'Unione europea. I due obiettivi sono complementari ed è perciò che gli investimenti aggiuntivi non possono se non essere privati, salvo raggiungere uno specifico accordo europeo che escluda quelli pubblici dai parametri fiscali».Non è la prima volta che Savona lancia il suo motivatissimo allarme sul basso livello degli investimenti italiani. Meno di un mese fa, il 1° dicembre, il ministro aveva pubblicato un altro articolo, stavolta sul Messaggero, esortando il governo a imprimere una nuova direzione alla manovra. In quel caso l'economista partiva dagli indicatori appena usciti, che nel terzo quadrimestre segnalavano la prima crescita negativa dal 2014. Proprio per contrastare la decrescita, Savona sosteneva la necessità del rilancio degli investimenti: «In tal modo», spiegava, «si rafforzerebbe la fiducia dei mercati sulla solvibilità del nostro debito pubblico, già di per sé solida per l'ingente ricchezza finanziaria nelle disponibilità degli italiani (3.500 miliardi di euro netti) e di un flusso annuo di risparmi in eccesso (circa 160 miliardi nel triennio 2019-2021) testimoniato dal saldo positivo degli scambi con l'estero».I soldi ci sarebbero, insomma. Perché non impegnarli nella crescita? Ancora più chiaro, se possibile, Savona era stato a metà luglio in un'intervista alla Verità. Il ministro aveva affidato a Martino Cervo una frase che aveva rimbalzato a lungo nella polemica giornalistica e tra le cancellerie europee: «Da tempo l'Italia vive al di sotto delle proprie risorse». Il ministro aveva ricordato l'importanza del nostro avanzo di parte corrente della bilancia estera: circa 50 miliardi, quasi il 3% del Pil. «Ma quell'avanzo», aveva aggiunto, «non può essere attivato, cioè non possiamo spendere, per l'effetto incrociato dei vincoli di bilancio e di debito dei trattati europei». Anche cinque mesi fa, insomma, Savona predicava (coerentemente) che gli investimenti sono quel che manca alla nostra domanda interna. E spiegava che rilanciare gli investimenti era nell'interesse non soltanto dell'Italia, ma della stessa Ue: «La crescita del Pil nominale che ne risulterebbe», calcolava «può consentire un gettito fiscale capace di coprire allo stesso tempo la quota parte delle spese correnti implicite nelle proposte sulla flat tax, sul salario di cittadinanza e sulla revisione della legge Fornero, senza aumentare né il disavanzo pubblico né il rapporto tra debito pubblico e Pil». Altro che un «piano B» per l'uscita dall'euro, insomma, e altro che le mille dietrologie sui complotti per l'Italexit che in giugno avevano accompagnato la nomina di Savona. In realtà, è dai primi passi del governo che il ministro degli Affari europei continua a confermare il suo «piano A»: cioè la richiesta a Bruxelles di permettere all'Italia un importante piano di investimenti, che possa portare sviluppo e quindi un incremento del gettito, l'unica via attraverso cui ridurre nel tempo il nostro rapporto tra debito e Pil. Ieri Savona è tornato alla carica. Con parole che si spera qualcuno nell'Unione europea finirà per capire: «Dobbiamo ripristinare la fiducia sul futuro dell'economia italiana, e in modo specifico sui titoli di Stato, attraverso crescita reale e stabilità politica. […] Quando l'attenzione della pubblica opinione e l'impegno della politica si concentrerà sul rilancio degli investimenti, rimuovendo gli ostacoli esistenti, l'intero dibattito sulla situazione dell'Italia e la sua collocazione in Europa cambierà di segno».
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