2024-04-02
«Il sangue dei vinti» torna in libreria. Ai rossi spiacerà più di vent’anni fa
Giampaolo Pansa (Imagoeconomica). Nel riquadro l'ultima edizione del suo libro «Il sangue dei vinti»
Esce una nuova edizione del libro con cui Giampaolo Pansa raccontava le ombre della Resistenza. I «gendarmi della memoria» non glielo perdonarono e gli diedero del «fascista». Una prassi che negli anni si è consolidata.Era il 2006, sembra un millennio fa. Giampaolo Pansa aveva appena dato alle stampe La grande bugia, terzo capitolo di quello che viene ricordato come «ciclo dei vinti». La prima presentazione era stata organizzata a Reggio Emilia, città adagiata nel cuore del triangolo della morte, là dove i partigiani rossi avevano regolato nel sangue i conti della guerra civile, anche e soprattutto quelli che non avevano bisogno di essere regolati. Reggio: lì la memoria della resistenza era ancora granitica, impastata nelle omissioni, nelle ingiustizie e nelle menzogne che coprivano dolorose vendette e drammatiche soperchierie. Lì, nel ventre dell’Emilia più scarlatta, Pansa era divenuto per molti un traditore, uno che «per i soldi» (così sibilò a chi scrive uno storico locale) aveva abbandonato la causa. In realtà, Giampaolo aveva solo detto il vero, raccogliendo e rammendando le storie del passato più oscuro. Racconti fino ad allora soltanto sussurrati, perché i coraggiosi inviti a fare luce nei luoghi oscuri, provenienti anche da parte comunista, non erano stati granché raccolti. Otello Montanari - partigiano, dirigente Anpi e presidente dell’Istituto Cervi - già nel 1990 aveva scandito il suo potentissimo «chi sa parli». Ma non parlavano, no. Anche Giorgio Pisanò, dal canto suo, aveva snocciolato i delitti atroci della guerra civile, ma era a sua volta un vinto, dunque figuriamoci. Per togliere il tappo ci voleva qualcuno di grosso, di forte. Qualcuno di sinistra con fegato a sufficienza. Ci voleva un Pansa. E Pansa ci si mise con tutta l’ostinazione di cui era capace, sostenuto dalla sua colonna Adele Grisendi. Forse non immaginava che gli sarebbe costata così cara, quella sacrosanta e benedetta battaglia.vietato discutereEra il 2006, dunque, e il libro era La grande bugia. Ricorda Luca Telese: «A Reggio Emilia, durante la prima presentazione del volume, un gruppo di contestatori (che si firmavano con l’etichetta “Militant”) aveva fatto irruzione in sala. Era un drappello di ragazzi che venivano dall’area dei centri sociali, avevano come simbolo un casco oscurato, e misero in scena una provocazione teatrale e violenta per interrompere il dibattito, moderato da Aldo Cazzullo. Un ragazzo dalla testa rasata era entrato all’improvviso nella sala, aveva scaraventato una copia della Grande bugia sul tavolo, e si era scagliato contro Pansa - seduto allo stesso tavolo - urlandogli in faccia: “Io sono un cittadino di serie A, e lei ha scritto un libro infame per fare soldi sulle spalle della Resistenza!”. Sconcerto in sala. Dopo di lui erano entrati di corsa una ventina di giovani, alcuni di Reggio Emilia, altri venuti da Roma. Alcuni rasati, altri con capelli lunghi e treccine anni Settanta, braccia levate e pugni chiusi. I “Militant” avevano occupato la sala, srotolato striscioni rossi con scritte a caratteri cubitali: “Revisionisti assassini” e “Ora e sempre Resistenza”. Poi, fra le urla del pubblico, il commando aveva iniziato a cantare in coro Bella Ciao. Dopodiché era esploso letteralmente il caos: un gruppo di giovani di destra presenti in sala si era scagliato contro i contestatori gridando: “Liberate il palco!”. E quelli: “Pan-sa! Pan-sa! Prez-zo-la-to! Con l’infamia ci hai spe-cu-la-to”. Qualcuno aveva tentato di strappare gli striscioni dalle mani dei giovani dei centri sociali, che avevano reagito, e per minuti che parvero interminabili erano iniziati a volare insulti, spintoni, persino qualche rude ceffone. Un ex partigiano, seduto in platea si era ribellato ai “Militant”: “Siamo comunisti da cinquant’anni ma siamo qui per ascoltare Pansa!!! Se non lo fate parlare, voi siete peggio dei fascisti!”. Un commissario di polizia, con il distintivo in mano, si era frapposto fra i manifestanti e gli infuriati della platea. Un signore con la barba bianca si era accasciato su una sedia con il fiatone (“Non posso accettare che dei ragazzotti mi impediscano di sentire”). E così la presentazione si era chiusa in una guerra di cori contrapposti: “Non ce ne andremo finché non ci farete leggere il nostro comunicato!” gridavano i contestatori. Con la sala che rispondeva: “Libertà! Libertà!”. Indimenticabile la prima reazione di Pansa. A un certo punto, mentre l’interessato era impegnato a gridare nel megafono, aveva proteso la mano verso il leaderino dei “Militant”, che aveva in mano un foglio, in cui aveva scritto un comunicato, ma nella foga non riusciva a metterlo a fuoco e recitarlo. Allora Giampa gli aveva detto: “Se serve posso leggerlo io”. Era il tocco di ironia che in quel clima nessuno si sarebbe mai potuto aspettare». La vivida ricostruzione la prendiamo dalla prefazione che Telese ha scritto per la nuova edizione del libro da cui tutto ebbe inizio: Il sangue dei vinti, edito inizialmente da Sperling & Kupfer e ripubblicato ora da Rizzoli nel ventennale della prima uscita. Era il 2004, il volume apparve sugli scaffali e fu una deflagrazione: per mesi i giornali non parlarono d’altro. Pansa era riuscito dove gli storici avevano fallito: aveva colmato un vuoto e ricordato a tutti l’esistenza di una parte di Italia che non poteva essere cancellata o obliata. Che era vinta, forse, ma dignitosa. l’italia cancellataScrive ancora Telese: «Il punto era che Pansa, in quel 2004, tornava alla storia della Repubblica sociale, per la terza volta nella sua vita, dopo la tesi di laurea, scritta a vent’anni (Guerra partigiana tra Genova e il Po, che sarebbe stata pubblicata dall’Anpi e poi da Laterza nel 1967), e il suo primo libro sulla Rsi (Il gladio e l’alloro. L’esercito di Salò, Mondadori 1991). E ci tornava dopo un altro romanzo precursore, I figli dell’Aquila (2002). In quel momento né lui, né Adele, né chi scrive, né nessun altro poteva immaginare che Giampaolo Pansa non avrebbe mai più smesso di occuparsi di quel tema, che avrebbe pagato un prezzo umano inimmaginabile, che sarebbe arrivato a lasciare sia il quotidiano a cui aveva consacrato la propria vita, sia il settimanale di cui era condirettore, che avrebbe pubblicato una “Decalogia” di titoli, che per poco meno di un ventennio avrebbero danzato intorno a un’unica battaglia storiografica, un’infinita guerra polemica. Nessuno poteva prevedere che quella sarebbe diventata una vera e propria ossessione d’autore: Giampaolo Pansa era diventato un capitano Achab nei mari della storiografia, e aveva trovato [...] la sua Moby Dick. A partire da quel libro, la sua battaglia memoriale, la sua storia professionale e la sua biografia sarebbero diventate un tutt’uno, centrifugate in un solo potentissimo vortice». Andò così in effetti. Il prezzo da pagare fu il marchio di infamia che la sinistra pone sul petto dei non ortodossi. Pansa era diventato - come altri prima di lui - un «fascista». A contestarlo e ad attaccarlo rabbiosamente era in realtà una minoranza, erano quelli che lui chiamava «gendarmi della memoria», quelli che restavano fedeli alla linea pure se la linea non c’era più. Gli altri, i più, stavano invece a sentire. Leggevano. Aprivano gli occhi. Ci furono anche, in quegli anni, importanti aperture politiche sui ragazzi di Salò. Esponenti progressisti in vista come Luciano Violante fecero passi avanti notevoli, fondamentali.Ossessionati dal duceMa la storia è inutile rifarla daccapo: che cosa sia accaduto lo sanno tutti, lo sapete voi nostri lettori. Più interessante, a questo punto, è chiedersi vent’anni dopo a che punto siamo. Perché a dirla tutta pare che siamo messi molto peggio. Pansa - che ha contribuito alla nascita di questo giornale - oggi non c’è più. La sinistra lo ha faticosamente riaccolto, ma il punto è che di gente come lui non ne fanno più. Oggi più che allora l’ossessione per il fascismo di ritorno è pressante e patologica. E lo diventa sempre più mano a mano che i colori della sinistra perdono tono e lucentezza. La violenza liberticida che Pansa subì nel 2006 si può dire che sia stata istituzionalizzata: a ogni livello e da ogni parte vengono cancellati eventi, impedite presentazioni, zittiti e messi all’indice intellettuali e giornalisti. L’accusa di fascismo che fu rivolta a Pansa è stata allargata a dismisura: tutti divengono fascisti da punire, se escono dal recinto del pensiero consentito. E, come ha detto qualche poveraccio nei giorni scorsi, meritano di essere menati o comunque cancellati dalla faccia della terra. Che siano di destra o di sinistra, quanti professano idee eterodosse rischiano, magari più in piccolo, di essere sottoposti al trattamento a cui fu sottoposto Pansa, ma senza godere della visibilità che fu sua. Vent’anni dopo, Pansa ha vinto riportando i vinti alla luce. Ma purtroppo stanno vincendo anche i gendarmi della memoria, che insistono a osteggiare gli intellettuali liberi. E che, temendo la sconfitta, hanno aumentato i fronti su cui combattere in nome della censura.
Roberto Occhiuto (Imagoeconomica)
Il presidente di Generalfinance e docente di Corporate Finance alla Bocconi Maurizio Dallocchio e il vicedirettore de la Verità Giuliano Zulin
Dopo l’intervista di Maurizio Belpietro al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, Zulin ha chiamato sul palco Dallocchio per discutere di quante risorse servono per la transizione energetica e di come la finanza possa effettivamente sostenerla.
Il tema centrale, secondo Dallocchio, è la relazione tra rendimento e impegno ambientale. «Se un green bond ha un rendimento leggermente inferiore a un titolo normale, con un differenziale di circa 5 punti base, è insensato - ha osservato - chi vuole investire nell’ambiente deve essere disposto a un sacrificio più elevato, ma serve chiarezza su dove vengono investiti i soldi». Attualmente i green bond rappresentano circa il 25% delle emissioni, un livello ritenuto ragionevole, ma è necessario collegare in modo trasparente raccolta e utilizzo dei fondi, con progetti misurabili e verificabili.
Dallocchio ha sottolineato anche il ruolo dei regolamenti europei. «L’Europa regolamenta duramente, ma finisce per ridurre la possibilità di azione. La rigidità rischia di scoraggiare le imprese dal quotarsi in borsa, con conseguenze negative sugli investimenti green. Oggi il 70% dei cda delle banche è dedicato alla compliance e questo non va bene». Un altro nodo evidenziato riguarda la concentrazione dei mercati: gli emittenti privati si riducono, mentre grandi attori privati dominano la borsa, rendendo difficile per le imprese italiane ed europee accedere al capitale. Secondo Dallocchio, le aziende dovranno abituarsi a un mercato dove le banche offrono meno credito diretto e più strumenti di trading, seguendo il modello americano.
Infine, il confronto tra politica monetaria europea e americana ha messo in luce contraddizioni: «La Fed dice di non occuparsi di clima, la Bce lo inserisce nei suoi valori, ma non abbiamo visto un reale miglioramento della finanza green in Europa. La sensibilità verso gli investimenti sostenibili resta più personale che istituzionale». Il panel ha così evidenziato come la finanza sostenibile possa sostenere la transizione energetica solo se accompagnata da chiarezza, regole coerenti e attenzione al ritorno degli investimenti, evitando mode o vincoli eccessivi che rischiano di paralizzare il mercato.
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