2022-10-24
Gli intellò rosicano. Forza ministro: demolisca la Cappa
Gennaro Sangiuliano (Ansa)
L’astio dei perdenti che si credono superiori si scarica sui nuovi. Un gran lavoro attende Gennaro Sangiuliano per cancellare l’egemonia.Nemmeno un mese è passato dalla vittoria elettorale del centrodestra e già abbiamo assistito al dispiegarsi di tutte le molteplici sfumature del rosicamento, culminato ieri - subito dopo il giuramento dei nuovi ministri - in una esondazione di bile con pochi precedenti. C’è chi, come la iena Riccardo Barenghi, si rifugia nella battutina da seconda elementare («Dal governo dei migliori a quello dei peggiori», grasse risate sulla Stampa). C’è chi si rifugia in un aristocratico disprezzo, lo stesso che il padrone della ferriera esibiva nei riguardi della massa operaia nelle ore più buie della rivoluzione industriale. Difficile descrivere altrimenti la superiorità immorale di un Francesco Merlo, che guarda «i fascisti» dall’alto in basso: si sofferma sulle mani di Guido Crosetto larghe come bistecche crude, si compiace di dipingere come uno spaventapasseri Eugenia Roccella, inorridisce se Gennaro Sangiuliano cita Dante e Machiavelli. E giunge all’apice con Andrea Giambruno - compagno di Giorgia Meloni - a cui attribuisce meschinità da piccolo borghese: «Non mi stupirei di sapere», scrive, «che nello zainetto di Giambruno c’erano le “pastarelle” della festa, da mangiare tutti insieme, con Giorgia, con la figlia, con la suocera e lo spumante Riccadonna». In quest’ultima frase c’è tutto. L’astio del nobile con le pezze al culo che non può tollerare l’ascesa sociale del bracciante. E poi l’invidia, verde e rognosa: a sinistra non possono tollerare questi «fascisti ripuliti», li vorrebbero bruti e maneschi. Se al Quirinale fosse salita una banda di picchiatori si sentirebbero più sicuri, ritroverebbero negli stivaloni e nei manganelli la virilità che hanno irrimediabilmente perduto. Invece sono costretti a condividere la propria decadenza con gli avversari, e ne sono terrorizzati: non c’è più in giro nessuno che possa, alla bisogna, ricorrere alle vecchie maniere estreme. Al fastidio un po’ arteriosclerotico dell’upper class liberal si accompagna l’insistente lamento delle autoelette paladine dei diritti, che ogni giorno si stracciano le vesti paventando la cancellazione del «diritto all’aborto», perché alla scomparsa di tutti gli altri diritti - quelli veri e pulsanti come il lavoro, la casa, il salario dignitoso - si sono ormai rassegnate, dato che a sbriciolarli è stata la loro compagine politica di riferimento. Non che questa fiera del livore e dell’insignificanza ci turbi, per carità: è solo una versione più concentrata di quella che, da anni, va in scena ogni giorno. Per certi versi è persino comica, perché ottiene l’opposto di ciò che vorrebbe: persino chi è estremamente scettico verso questo governo fin troppo d’establishment finisce per trovarlo simpatico, dopo averlo confrontato con la misera piccineria sinistrorsa. A irritare non è che si attacchino i ministri per la loro antropologia e non per il loro operato: son tutti grandi e scafati, sapranno gestire adeguatamente insulti e ragli. No, l’irritazione cresce quando ci si ricorda che a berciare, in queste ore, è soprattutto la cosiddetta classe intellettuale, una corporazione che domina incontrastata da decenni. I padroni del pensiero sono solo apparentemente confinati all’opposizione: in realtà rimangono saldamente avvinghiati al potere, liberi di coltivare il proprio orticello, il proprio conto in banca e la propria schiera di famigli. Alcuni di costoro minacciano d’andarsene altrove perché sanno che trarranno giovamento se appariranno come dissidenti. Criticheranno, urleranno, e intanto proseguiranno ad affollare festival, spettacoli televisivi e fiere del libro. Altri ringhiano più rabbiosamente perché temono di perdere una fettina di pagnotta, altri ancora - i più scaltri - si mostrano tolleranti perché non escludono di poter conservare le prebende anche con l’odiata destra al timone. Il fatto è che qui il problema non sono gli insulti e le meschinità. Qui il problema è quella che Marcello Veneziani chiama la Cappa, una lastra d’acciaio di conformismo e omologazione che non grava tanto sui politici in vista quanto sulla gran parte della popolazione, a partire dalle più giovani generazioni. Molti hanno votato a destra per un solo motivo: vogliono stracciarla, la Cappa. Vogliono, almeno, temperare l’egemonia sottoculturale degli spargitori di banalità. E si aspettano che questo governo provveda a spalancare le finestre, areando lo stanzone ammuffito. Il difficilissimo compito, inutile nasconderlo, spetterà in primis al nuovo ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano. È una responsabilità enorme, di sicuro troppa per un sol uomo. Ma è bene esser chiari fin dal principio: lo attende una sfida epocale, perché o si cambia stavolta o non si cambia più. Al ministero non è stato mandato un professionista della gestione dei beni culturali, un organizzatore di eventi o di mostre. No, è stato scelto un uomo d’idee, nella speranza che le faccia circolare. Purtroppo, non basteranno dichiarazioni e uscite pubbliche. Non basterà distribuire un paio d’incarichi fra gli amici di sempre. Se si vuol liberare la cultura, toccherà agire con costanza, consiglio d’amministrazione dopo consiglio d’amministrazione, fiera dopo fiera, festival dopo festival. Giova ricordare che il Mibac si occupa del patrimonio, che andrà valorizzato; dei musei, che andranno curati e messi a regime a beneficio dello Stato; del cinema e dell’audiovisivo, ricca mangiatoia per tanti. Sono tutte attività che contribuiscono alla produzione del pensiero prevalente, e attualmente sono dominate dagli odiatori di cui sopra. Ciò non significa che un ministro di destra debba smantellare ogni cosa, o imporre una visione unilaterale come il fronte progressista ha fatto in tutti questi anni. Significa però che egli dovrà creare le condizioni perché tutte le visioni possano esprimersi, sbriciolando qualche agglomerato di potere ma, soprattutto, creando alternative forti, destinate a durare. Qualcuno in passato ci ha provato, ma senza nerbo, ed è finito a concedere interviste concilianti a Repubblica nella speranza di non essere massacrato in eccesso. Adesso tocca fare sul serio, e imporsi con grazia, mostrando la propria diversità con gran dispendio di coraggio. Gli insultatori certo non smetteranno di muggire. Però i loro versi scomposti potrebbero essere coperti da una musica nuova, e piacevole. Troppo per un sol uomo, ma nessuno ha mai detto che sarebbe stato facile.
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