2025-03-10
Anche se firmato dalle archistar il sacco va fermato
Milano, la torre di via Stresa (Ansa)
Da quando a Milano è scoppiato lo scandalo dei palazzi costruiti senza concessione edilizia, siamo accompagnati da un insopportabile piagnisteo che nasconde un tentativo di forzare la mano per legalizzare ciò che legale non è.Per i difensori degli edifici realizzati aggirando la normativa edilizia (imprese, politici, giornalisti), sanzionare gli abusi equivarrebbe a fermare lo sviluppo della città. Di qui appelli a non finire per salvare il modello della capitale economica del Paese. Ma anche commoventi testimonianze di chi, avendo comprato una casa sprovvista di licenza edilizia, rischia di restare senza un tetto.Dunque è bene chiarire, cominciando proprio da quanti hanno investito i propri risparmi in appartamenti che ora sono posti sotto sequestro dalla magistratura. Nessuno vuole lasciare con un pugno di mosche famiglie che hanno fatto sforzi immensi per acquistare un alloggio. Tuttavia, non si può neppure consentire che si istituzionalizzino le costruzioni abusive. Quelli realizzati a Milano senza concessione sono palazzi che se fossero stati fatti a Palermo, a Sorrento o a Crotone, li definiremmo ecomostri, ovvero condomini tirati su in deroga alle leggi e come tali da abbattere. Un abuso è un abuso, a prescindere che a realizzarlo sia stato un architetto fighetto. Non basta costruire il grattacielo ricorrendo alle soluzioni ambientalmente compatibili (serramenti all’ultimo grido, impianti che riducono le emissioni) se poi non si rispetta la regola ambientale numero uno, ovvero ottenere l’autorizzazione edilizia. Le torri sorte a fianco di una delle aree verdi del capoluogo lombardo saranno anche di design, porteranno pure la firma di un’archistar, ma sono e restano abusive. Anzi, per dirla con uno degli architetti intercettati dai pm mentre studia una soluzione per aggirare l’inchiesta della magistratura, «gridano vendetta».Se a Roma avessero costruito 150 edifici in barba alla legge, sostituendo l’autorizzazione con una semplice comunicazione di inizio lavori, ovvero con un atto usato quando si sposta un muro o si sostituiscono le piastrelle del bagno, tutti i giornali parlerebbero del sacco della Capitale. Invece, giornali e politici si dolgono perché l’inchiesta «ferma lo sviluppo». Ma fateci il piacere. Nessuno è contrario al progresso, alla crescita economica, alla modernità. Milano, come tante altre città, ha fame di case ed è giusto costruirle, magari anche in edilizia economico popolare, per poter dare un alloggio anche a famiglie che non hanno la possibilità di comprarselo. Ma un conto è costruire una residenza rispettando le norme e un altro è aggirarle, pensando che a Milano siano più furbi che a Catanzaro o a Bari. Nelle intercettazioni, i soliti architetti dicono che quanto è accaduto nel capoluogo lombardo non ha precedenti. Nessuno ha permesso alle imprese di fabbricare un palazzo da 25 piani senza concessione, fingendo di ristrutturare un edificio a due piani. Qualcuno può pensare che nel resto d’Italia si vogliano complicare la vita sottoponendo le richieste agli uffici comunali? No, semplicemente seguono la via prevista dalla legge. E allora perché a Milano deve essere permesso di fare il contrario? Non può esistere un rito ambrosiano. Né si può accettare che siccome la città è retta dalla sinistra progressista e affarista, molto chic e glamour, molto verde e snob, ciò che altrove è vietato ai milanesi sia consentito. La capitale economica non è una repubblica indipendente, che si fa le leggi e pure i condoni, facendoli scrivere agli indagati. Così non si salvano l’economia, la bellezza, il progresso e tutte quelle cose belle che ci raccontano. Si salva solo il culo di qualche furbo, che sperava di farla franca pensando di essere più intelligente, più moderno e più protetto del resto del mondo.Si vuole evitare a chi ha investito i soldi in quegli appartamenti di perdere i propri risparmi? La soluzione è semplice. È sufficiente che le imprese facciano a posteriori regolare domanda di concessione edilizia, pagando gli oneri di urbanizzazione che hanno evitato di versare ricorrendo alla comunicazione di inizio lavori. Si tratta di tanti soldi? Pazienza, in questi anni, con la crescita del mercato immobiliare ne hanno guadagnati molti, trasformando garage ed edifici dismessi in residenze di lusso, al punto che ormai anche in periferia le case valgono oro e gli appartamenti si vendono a 5-6 mila euro il metro quadro.Non c’è bisogno di un Salva Milano, come vorrebbe il sindaco Beppe Sala e anche qualche politico di centrodestra e centrosinistra (i quali però non vogliono che si dica). È sufficiente che anche nella capitale economica si faccia quel che si fa nel resto del Paese, mettendo da parte scorciatoie e piagnistei. Nessuno chiede a Milano di rinunciare alla civiltà e all’avanguardia e neppure di fare a meno dei suoi quartieri modello: basta che anche i palazzinari paghino le tasse.P.s. In queste pagine ricordiamo di quando il sindaco progressista, ambientalista e ciclista prometteva case a 650 euro. Quelle che ora difende invece costano molte migliaia di euro in più e non serviranno certo a calmierare il mercato immobiliare. Un tempo, quando agitava la falce e il martello, la sinistra era schierata contro la speculazione immobiliare. Ora, con la stessa protervia e la stessa arroganza, agita calce e martello.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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