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2023-05-16
Il salottino chiude e parte la lagna dei vedovi del gettone
Massimo Giannini, Roberto Burioni e Michele Serra (Ansa)
«La Rai senza Fabio Fazio sarà meno Rai». L’effetto lacrima è un fiume in piena, gli orfani del fratacchione si strappano le button down di Brooks Brothers e prefigurano la fine della televisione di Stato. La sintesi iniziale, drammatica nel suo effetto desertificatore, è di Michele Serra, ex autore di Che tempo che fa, sodale di ideuzze e soppressate, primo fazista orfano di colui che (guarda un po’ il caso) lo mandava in onda quasi tutte le domeniche. La sinistra piange per arginare la siccità del pensiero di destra e il cielo è plumbeo a Saxa Rubra, il giorno dopo l’uscita di scena del Conduttore unico delle coscienze. Non resta che abbozzare. Come disse Palmiro Togliatti dopo il famoso strappo: «Vittorini se n’è ghiuto e soli ci ha lasciati». In confronto all’amazzonico effluvio liquido in atto, il funerale del Migliore era una roggia carsica.
Il lirismo con cui gli amici di Fazio lo accompagnano nel viaggio verso Discovery è commovente. «La Rai non gli ha fatto nessuna proposta di rinnovo», «L’autolesionismo è così evidente da rendere ancora più ovvio che non sono i termini aziendali a fare e disfare i palinsesti alla Rai», «Lui ha fatto benissimo ad andarsene per una questione di dignità professionale». Quello dell’ex umorista autonominatosi sociologo è tutto un contorcersi. Ma una considerazione la azzecca: «A muovere le pedine in Rai sono gli interessi di partito». Fermi tutti, questa non l’avevamo mai sentita. Interessi altamente nobili quando si sposano con quelli del Nazareno caro a Serra, con quelli di Matteo Renzi (nella stagione di Antonio Campo dall’Orto e Carlo Verdelli), con quelli del massimalismo rosso rappresentati dall’immaginifico Report. Ma ovviamente ignobili quando un azionista di centrodestra decide di riequilibrare clamorosi sbilanciamenti nella narrazione politica.
A piangere per Fazio sono le tre categorie della sinistra mediatica. Prima categoria. Lui medesimo con una motivazione imbarazzante, «Sono qui da 40 anni», che dovrebbe rappresentare un punto debolissimo per chi ne ha meno di 60 e vede un basilisco della Tv aggrapparsi all’ennesimo contratto milionario, fedele alla massima di Carlo Emilio Gadda: «Coscienze inquiete a stipendio fisso». Quello del day after è un Fazio in piena che, per evitare di fare il martire, fa il martire. «Nessun vittimismo, nessun martirologio, detesto entrambe le forme di autocommiserazione», scrive nella rubrica sul settimanale Oggi. Per poi aggiungere in gramaglie: «Come si sa è cambiata la narrazione ma un professionista la narrazione se la scrive da solo. La politica tutta si sente legittimata dal risultato elettorale a comportarsi da proprietaria della cosa pubblica con strabordante ingordigia». Poi un finale dickensiano: «La sensazione di essere merce pericolosa e non una risorsa della propria azienda non è gradevole». A questo punto il foglio è madido.
Seconda categoria. I compagni di scuderia che si alternano nei pontificali della domenica, come Roberto Saviano e Massimo Giannini, con ospitate a gettone. Il primo è inconsolabile: «Lo ringrazio perché mi ha consentito di raccontare mafia e poesia, calcio ed eutanasia. Miracoli che solo i professionisti veri riescono a fare». Il secondo, direttore de La Stampa più a sinistra della storia, non si capacita e chiama il mancato rinnovo del contratto «L’editto della Garbatella». «Questo è il vero spirito dei patrioti al governo? Occupare, lottizzare, senza mai capire né valorizzare la qualità?». Resta implicito che la qualità sono loro.
La terza categoria è la parrocchietta dei colleghi militanti (Gad Lerner, Corrado Formigli della sezione La7), degli sponsor politici e dei clientes; quell’indistinto magma progressista che cavalca il moralismo scambiandolo per coscienza civile. Quell’élite autonominata e rafferma che da una parte si abbevera al verbo fazista e dall’altra crede di poter condizionare l’opinione pubblica con le mossette di Luciana Littizzetto. Per un illuminante riflesso condizionato, le parole più indignate in arrivo su piazza sono di Peppe Provenzano («Il suo addio rappresenta un danno per il servizio pubblico»), della consigliera Rai piddina Francesca Bria («Una scelta scellerata, una brutta notizia per il Paese»). Con la vetta onirica di Enrico Letta sbilanciato su scenari internazionali: «Il suo addio danneggia l’Italia». Si prevedono un’intemerata dell’armocromista di Elly Schlein e un rialzo dello Spread.
In realtà viene lasciato andare al suo milionario destino un ras potentissimo che da mesi era in procinto di cambiare cavallo e che neppure l’ex ad Carlo Fuortes, non propriamente di destra, ha mai fatto nulla per trattenere. Una posizione sostenuta dal presidente del Senato Ignazio La Russa: «Mi dispiace che non resti, ma la sua è una scelta professionale». Al di là della coccarda a lutto per compiacere il Pd, nei corridoi Rai sono in pochi a rimpiangere l’autore di un programma che l’editore non ha il potere di controllare (e nessun editore al mondo subirebbe una simile sudditanza), confezionato a scatola chiusa dalla sua società L’Officina, con ospiti a senso unico e con la pretesa dell’extraterritorialità anche rispetto alle regole comuni. Durante il Covid negli studi Rai c’era il divieto di far arrivare ospiti in presenza, tranne che nel suo.
Quando si asciugano le lacrime degli ultrà affiora la realtà. In tempi non sospetti l’epitaffio artistico più feroce alla prepotenza docile del fratacchione l’ha vergato il numero uno dei critici, Aldo Grasso. «Se a fine anno qualcuno facesse l’elenco dei libri, dei film, dei dischi delle iniziative culturali presentati da Fazio ne verrebbe fuori la mappa ideale di quella sinistra sentimentaloide che ha trasformato la Storia in patetismo. Buoni fuori ma spietati dentro».
Sergio nuovo ad, valzer nomine al via
Mentre sui media si avvertono i mal di pancia per l’uscita di scena di Fabio Fazio, al settimo piano di viale Mazzini prende forma la nuova Rai. Roberto Sergio, il manager interno proposto dall’azionista (il ministero dell’Economia), è stato nominato amministratore delegato con il compito di timonare l’azienda culturale più grande del Paese (13.000 dipendenti). Il voto del cda è andato secondo le previsioni: Sergio è passato con tre sì, due astensioni e un no. A favore si sono espressi la presidente Marinella Soldi, i consiglieri Igor De Biasio (Lega) e Simona Agnes (Forza Italia); contraria Francesca Bria (Pd), astenuti il rappresentante dei dipendenti Riccardo Laganà e Alessandro Di Majo (Movimento 5Stelle), rimasto nel limbo perché nessuna garanzia è arrivata a Giuseppe Conte sulla possibile nomina di Giuseppe Carboni alla direzione di Rainews o di RadioRai.Le prime due mosse di Roberto Sergio sono state la nomina di Paola Marchesini, direttrice uscente di RadioRai 2, a responsabile del suo staff e quella di Giampaolo Rossi nel ruolo di direttore generale, una figura scomparsa dai radar nelle ultime due gestioni perché sia Fabrizio Salini, sia Carlo Fuortes l’avevano tenuta in delega sulle loro scrivanie. La vera mossa politica di palazzo Chigi è l’insediamento di Rossi, da sempre punto di riferimento di Fratelli d’Italia dentro la Rai, profondo conoscitore dei meccanismi radiotelevisivi ed esperto navigatore fra le molte anime dell’azienda. Per dire, il nuovo dg è in piena sintonia con l’alter ego di sinistra, il potente Mario Orfeo caro al Nazareno.Roberto Sergio è romano, ha 63 anni ed è un manager esperto in telecomunicazioni. Ha cominciato la carriera in Sogei, poi è passato in Lottomatica, quindi in Rai (dal 2004), dove è stato presidente di RaiWay, Rai Pubblicità e ha fatto parte del cda di RaiCom. Amico personale di Pierferdinando Casini, ha un’anima democristiana che gli consente di galleggiare su ogni tempesta. Sulla scacchiera ci sono adesso le nomine dei direttori dei settori verticali. Stefano Coletta (ritenuto responsabile sul campo dei pasticci al festival di Sanremo) lascerà la direzione del Prime Time a Marcello Ciannamea per passare ai Palinsesti. Al Day Time Angelo Mellone è pronto a sostituire Simona Sala (vicina ai 5stelle) che andrebbe a Radio2. Al posto di Monica Maggioni, in uscita dall’ammiraglia del Tg1 per intestarsi un programma di informazione tutto suo, dovrebbe andare Gianmarco Chiocci, oggi direttore dell’agenzia AdnKronos. Altri cambiamenti sono all’orizzonte, certamente il ridimensionamento di Corrado Augias che ha tre programmi. È invece certa la conferma di Report, che nonostante le fibrillazioni mediatiche del conduttore Sigfrido Ranucci non è mai stato in dubbio. Per tutto questo la deadline è il 25 maggio, appena in tempo per formalizzare i palinsesti della prossima stagione. Una particolare attenzione sarà posta allo spazio lasciato da Fabio Fazio. Mentre la sua figura si distingue soltanto di schiena, rimane un vuoto televisivo da riempire. E il centrodestra che plaude all’impresa di averlo scollato dalla poltrona, è chiamato a far sì che il nuovo corso in Rai sappia interpretare la richiesta di milioni di abbonati di sostituirlo con una scelta all’altezza. Passare dalla retorica folcloristica del «belli ciao» al varo di un programma solido è fondamentale. Sull’argomento non trapela nulla (l’ad si è insediato ieri) ma sembra che ci sia l’intenzione di far rientrare Massimo Giletti. Anche Nicola Porro ha ottime chances, ma difficilmente Mediaset vorrà perdere un suo anchor man di prima fascia.
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Riduci
Mentre Fabio Fazio si finge martire, gli orfani delle ospitate frignano. E, dopo decenni di prediche monocolore, cianciano di censura.Nel cda solo Francesca Bria, quota Pd, ha votato contro il neo amministratore. Giampaolo Rossi designato direttore generale. Conferma per «Report», Corrado Augias sarà ridimensionato. Lo speciale contiene due articoli.«La Rai senza Fabio Fazio sarà meno Rai». L’effetto lacrima è un fiume in piena, gli orfani del fratacchione si strappano le button down di Brooks Brothers e prefigurano la fine della televisione di Stato. La sintesi iniziale, drammatica nel suo effetto desertificatore, è di Michele Serra, ex autore di Che tempo che fa, sodale di ideuzze e soppressate, primo fazista orfano di colui che (guarda un po’ il caso) lo mandava in onda quasi tutte le domeniche. La sinistra piange per arginare la siccità del pensiero di destra e il cielo è plumbeo a Saxa Rubra, il giorno dopo l’uscita di scena del Conduttore unico delle coscienze. Non resta che abbozzare. Come disse Palmiro Togliatti dopo il famoso strappo: «Vittorini se n’è ghiuto e soli ci ha lasciati». In confronto all’amazzonico effluvio liquido in atto, il funerale del Migliore era una roggia carsica.Il lirismo con cui gli amici di Fazio lo accompagnano nel viaggio verso Discovery è commovente. «La Rai non gli ha fatto nessuna proposta di rinnovo», «L’autolesionismo è così evidente da rendere ancora più ovvio che non sono i termini aziendali a fare e disfare i palinsesti alla Rai», «Lui ha fatto benissimo ad andarsene per una questione di dignità professionale». Quello dell’ex umorista autonominatosi sociologo è tutto un contorcersi. Ma una considerazione la azzecca: «A muovere le pedine in Rai sono gli interessi di partito». Fermi tutti, questa non l’avevamo mai sentita. Interessi altamente nobili quando si sposano con quelli del Nazareno caro a Serra, con quelli di Matteo Renzi (nella stagione di Antonio Campo dall’Orto e Carlo Verdelli), con quelli del massimalismo rosso rappresentati dall’immaginifico Report. Ma ovviamente ignobili quando un azionista di centrodestra decide di riequilibrare clamorosi sbilanciamenti nella narrazione politica.A piangere per Fazio sono le tre categorie della sinistra mediatica. Prima categoria. Lui medesimo con una motivazione imbarazzante, «Sono qui da 40 anni», che dovrebbe rappresentare un punto debolissimo per chi ne ha meno di 60 e vede un basilisco della Tv aggrapparsi all’ennesimo contratto milionario, fedele alla massima di Carlo Emilio Gadda: «Coscienze inquiete a stipendio fisso». Quello del day after è un Fazio in piena che, per evitare di fare il martire, fa il martire. «Nessun vittimismo, nessun martirologio, detesto entrambe le forme di autocommiserazione», scrive nella rubrica sul settimanale Oggi. Per poi aggiungere in gramaglie: «Come si sa è cambiata la narrazione ma un professionista la narrazione se la scrive da solo. La politica tutta si sente legittimata dal risultato elettorale a comportarsi da proprietaria della cosa pubblica con strabordante ingordigia». Poi un finale dickensiano: «La sensazione di essere merce pericolosa e non una risorsa della propria azienda non è gradevole». A questo punto il foglio è madido.Seconda categoria. I compagni di scuderia che si alternano nei pontificali della domenica, come Roberto Saviano e Massimo Giannini, con ospitate a gettone. Il primo è inconsolabile: «Lo ringrazio perché mi ha consentito di raccontare mafia e poesia, calcio ed eutanasia. Miracoli che solo i professionisti veri riescono a fare». Il secondo, direttore de La Stampa più a sinistra della storia, non si capacita e chiama il mancato rinnovo del contratto «L’editto della Garbatella». «Questo è il vero spirito dei patrioti al governo? Occupare, lottizzare, senza mai capire né valorizzare la qualità?». Resta implicito che la qualità sono loro.La terza categoria è la parrocchietta dei colleghi militanti (Gad Lerner, Corrado Formigli della sezione La7), degli sponsor politici e dei clientes; quell’indistinto magma progressista che cavalca il moralismo scambiandolo per coscienza civile. Quell’élite autonominata e rafferma che da una parte si abbevera al verbo fazista e dall’altra crede di poter condizionare l’opinione pubblica con le mossette di Luciana Littizzetto. Per un illuminante riflesso condizionato, le parole più indignate in arrivo su piazza sono di Peppe Provenzano («Il suo addio rappresenta un danno per il servizio pubblico»), della consigliera Rai piddina Francesca Bria («Una scelta scellerata, una brutta notizia per il Paese»). Con la vetta onirica di Enrico Letta sbilanciato su scenari internazionali: «Il suo addio danneggia l’Italia». Si prevedono un’intemerata dell’armocromista di Elly Schlein e un rialzo dello Spread. In realtà viene lasciato andare al suo milionario destino un ras potentissimo che da mesi era in procinto di cambiare cavallo e che neppure l’ex ad Carlo Fuortes, non propriamente di destra, ha mai fatto nulla per trattenere. Una posizione sostenuta dal presidente del Senato Ignazio La Russa: «Mi dispiace che non resti, ma la sua è una scelta professionale». Al di là della coccarda a lutto per compiacere il Pd, nei corridoi Rai sono in pochi a rimpiangere l’autore di un programma che l’editore non ha il potere di controllare (e nessun editore al mondo subirebbe una simile sudditanza), confezionato a scatola chiusa dalla sua società L’Officina, con ospiti a senso unico e con la pretesa dell’extraterritorialità anche rispetto alle regole comuni. Durante il Covid negli studi Rai c’era il divieto di far arrivare ospiti in presenza, tranne che nel suo.Quando si asciugano le lacrime degli ultrà affiora la realtà. In tempi non sospetti l’epitaffio artistico più feroce alla prepotenza docile del fratacchione l’ha vergato il numero uno dei critici, Aldo Grasso. «Se a fine anno qualcuno facesse l’elenco dei libri, dei film, dei dischi delle iniziative culturali presentati da Fazio ne verrebbe fuori la mappa ideale di quella sinistra sentimentaloide che ha trasformato la Storia in patetismo. Buoni fuori ma spietati dentro».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/salottino-chiude-parte-la-lagna-2660257197.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="sergio-nuovo-ad-valzer-nomine-al-via" data-post-id="2660257197" data-published-at="1684178024" data-use-pagination="False"> Sergio nuovo ad, valzer nomine al via Mentre sui media si avvertono i mal di pancia per l’uscita di scena di Fabio Fazio, al settimo piano di viale Mazzini prende forma la nuova Rai. Roberto Sergio, il manager interno proposto dall’azionista (il ministero dell’Economia), è stato nominato amministratore delegato con il compito di timonare l’azienda culturale più grande del Paese (13.000 dipendenti). Il voto del cda è andato secondo le previsioni: Sergio è passato con tre sì, due astensioni e un no. A favore si sono espressi la presidente Marinella Soldi, i consiglieri Igor De Biasio (Lega) e Simona Agnes (Forza Italia); contraria Francesca Bria (Pd), astenuti il rappresentante dei dipendenti Riccardo Laganà e Alessandro Di Majo (Movimento 5Stelle), rimasto nel limbo perché nessuna garanzia è arrivata a Giuseppe Conte sulla possibile nomina di Giuseppe Carboni alla direzione di Rainews o di RadioRai.Le prime due mosse di Roberto Sergio sono state la nomina di Paola Marchesini, direttrice uscente di RadioRai 2, a responsabile del suo staff e quella di Giampaolo Rossi nel ruolo di direttore generale, una figura scomparsa dai radar nelle ultime due gestioni perché sia Fabrizio Salini, sia Carlo Fuortes l’avevano tenuta in delega sulle loro scrivanie. La vera mossa politica di palazzo Chigi è l’insediamento di Rossi, da sempre punto di riferimento di Fratelli d’Italia dentro la Rai, profondo conoscitore dei meccanismi radiotelevisivi ed esperto navigatore fra le molte anime dell’azienda. Per dire, il nuovo dg è in piena sintonia con l’alter ego di sinistra, il potente Mario Orfeo caro al Nazareno.Roberto Sergio è romano, ha 63 anni ed è un manager esperto in telecomunicazioni. Ha cominciato la carriera in Sogei, poi è passato in Lottomatica, quindi in Rai (dal 2004), dove è stato presidente di RaiWay, Rai Pubblicità e ha fatto parte del cda di RaiCom. Amico personale di Pierferdinando Casini, ha un’anima democristiana che gli consente di galleggiare su ogni tempesta. Sulla scacchiera ci sono adesso le nomine dei direttori dei settori verticali. Stefano Coletta (ritenuto responsabile sul campo dei pasticci al festival di Sanremo) lascerà la direzione del Prime Time a Marcello Ciannamea per passare ai Palinsesti. Al Day Time Angelo Mellone è pronto a sostituire Simona Sala (vicina ai 5stelle) che andrebbe a Radio2. Al posto di Monica Maggioni, in uscita dall’ammiraglia del Tg1 per intestarsi un programma di informazione tutto suo, dovrebbe andare Gianmarco Chiocci, oggi direttore dell’agenzia AdnKronos. Altri cambiamenti sono all’orizzonte, certamente il ridimensionamento di Corrado Augias che ha tre programmi. È invece certa la conferma di Report, che nonostante le fibrillazioni mediatiche del conduttore Sigfrido Ranucci non è mai stato in dubbio. Per tutto questo la deadline è il 25 maggio, appena in tempo per formalizzare i palinsesti della prossima stagione. Una particolare attenzione sarà posta allo spazio lasciato da Fabio Fazio. Mentre la sua figura si distingue soltanto di schiena, rimane un vuoto televisivo da riempire. E il centrodestra che plaude all’impresa di averlo scollato dalla poltrona, è chiamato a far sì che il nuovo corso in Rai sappia interpretare la richiesta di milioni di abbonati di sostituirlo con una scelta all’altezza. Passare dalla retorica folcloristica del «belli ciao» al varo di un programma solido è fondamentale. Sull’argomento non trapela nulla (l’ad si è insediato ieri) ma sembra che ci sia l’intenzione di far rientrare Massimo Giletti. Anche Nicola Porro ha ottime chances, ma difficilmente Mediaset vorrà perdere un suo anchor man di prima fascia.
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Riduci
Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Riduci
Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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