2023-04-21
Milano non vede l’ora del superderby. Sala invece ha perso prima di giocare
Alessandro Nesta e Adriano durante l'ultimo derby di Champions ai quarti di finale il 12 aprile 2005 (Getty Images)
Inter e Milan rimettono la città sul tetto d’Europa, il sindaco però sta facendo scappare i club con i veti sul nuovo stadio. «Uei testina, in finale ci va il Milan, conosce bene la strada per Istanbul». «Ma va pirla, ci va l’Inter che ci ha stracciati nella Supercoppa del nonno». Il derby di Champions è cominciato con macumbe, «ciapanò» scaramantici e sfottò incrociati dalle due sponde del Naviglio grande; l’interista si riferisce alla sconfitta più bruciante della storia rossonera, il milanista alla vittoria nerazzurra a Riad paragonabile a un gelatino. Bauscia e cacciaviti sul tetto d’Europa come se fosse la guglia più alta del Duomo, quella con la Madonnina d’oro, l’unica che ha il diritto di sentirsi dire: «Ti te dominet Milàn». Gerry Cardinale e Steven Zhang, proprietari alieni dei club, hanno bisogno dei sottotitoli per capire cosa sta accadendo ma fanno finta di saperlo da sempre. Oggi con il denaro (pure fittizio) puoi comprarti anche la Storia. La verità è che Milano, unica città d’Europa ad avere vinto la Champions con due squadre, è tornata fra le «fab four» del pallone; qualunque cosa accada a San Siro il 10 e il 16 maggio ha già un posto nella finalissima della competizione di calcio più prestigiosa del mondo. Poco importa se ci va con i colori della tifoseria più iperprotettiva (Milan) o più ipercritica (Inter); con il volto sognante di Stefano Pioli (portato in palmo di mano a Milanello) o con quello da patibolo di Simone Inzaghi (che sta sullo stesso piano ma rischia ogni settimana l’esonero ad Appiano Gentile); con le toppe ai gomiti dei cinesi interisti o con le scatole cinesi degli americani milanisti, sotto inchiesta per maneggi in Lussemburgo. Milano ha vinto comunque, nonostante abbia in casa l’unico grande sconfitto prima di cominciare: il sindaco Beppe Sala. «Il derby d’Europa è qualcosa di molto, molto bello per la città, e di molto stressante per me». Il borgomastro arcobaleno che guida la giunta più verde e più immobile del nuovo secolo lo spiega con il suo essere interista, fa l’esegesi della frase ricordando la sfida fratricida sempre in semifinale nel 2003, quando non vinse nessuno (0-0, 1-1) ma andò in finale il Milan per il valore doppio del gol di Andrij Shevchenko nella partita battezzata fuori casa. E così facendo prova a nascondere l’imbarazzo nell’essere responsabile di un delitto sociale dalla portata enorme: lui a Milan e Inter vuol togliere la casa. Le sue giunte da quattro anni prendono letteralmente in giro i due club, mettendosi di traverso sulla realizzazione dell’asset più strategico che una società di calcio possa avere per rimanere al top a livello internazionale, uno stadio di proprietà.Ostaggio al secondo mandato del radicalismo piddino e del fanatismo ecologista, finora la maggioranza che governa Milano ha detto di no a ogni proposta. Qui siamo all’ultimo stadio. Dopo discussioni, progetti modificati, comitati civici, impuntature radical e «dibattiti pubblici» da assemblea studentesca, il braccio di ferro fra amministrazione e storiche società sportive ha fin qui ottenuto due risultati: ha bloccato l’avveniristico progetto della Cattedrale che avrebbe dovuto sostituire il vecchio Meazza, costo totale 1 miliardo e 200 milioni di investimento; ha fatto deflagrare i club, non più intenzionati a proseguire il cammino insieme, anzi determinati a percorrere strade differenti dopo 76 anni di coabitazione. E a cercare terreni privati altrove, a Rozzano, a Sesto San Giovanni. Via da Milano.Unica soluzione proposta dai pasdaran di Sala: ristrutturare San Siro, operazione bocciata perché destinata a risolversi con un bagno di sangue anche per un immobiliarista di periferia. È pur vero che le proprietà sono volatili, hanno il cuore lontano e non danno granitiche garanzie (è la globalizzazione, bellezze), ma un nuovo stadio non è un prefabbricato, non si smonta. Rimarrebbe un valore eterno, sempre nello stesso luogo. «Sala passerà alla storia come il sindaco che ha fatto scappare Inter e Milan da San Siro», ha punzecchiato Matteo Salvini, milanista viscerale, non lontano dal vero. Lo stesso borgomastro alla fine ha dovuto ammettere: «Molti, in consiglio comunale, il nuovo stadio non l’hanno mai voluto». Un segno di debolezza, di difficoltà nel governare le numerose anime che compongono la giunta di sinistra, soprattutto di incapacità nel mediare le ragioni del dissenso e incanalarle verso un interesse comune. Sala rimpiange Silvio Berlusconi e Massimo Moratti «che non avrebbero mai cambiato casa». I nuovi proprietari americani e cinesi sono meno romantici. «Sono in perdita, non sono enti filantropici e nessuno può costringerli a ristrutturare il vecchio Meazza», dice il sindaco. Oggi un impianto di proprietà ha un valore finanziario e commerciale di 100 milioni a stagione, la differenza che passa fra squadre di medio cabotaggio e top club come Real Madrid e Manchester City, le altre due semifinaliste. Affrontando il derby di «fine di mondo» il tifoso medio non teme le due partite ma i loro effetti (quanto a sfottò) per i dieci anni a venire. Vanity Sala potrebbe ricordarselo per i prossimi cento.
Era il più veloce di tutti gli altri aeroplani ma anche il più brutto. Il suo segreto? Che era esso stesso un segreto. E lo rimase fino agli anni Settanta