2024-10-06
Dai mitici calzagatti alle crescentine. La cucina di Modena nasce dai campanili
I calzagatti maranesi. Nel riquadro la locandina della passata edizione della sagra
Ogni borgo prepara lo stesso piatto in modi diversi. E la ricetta segretissima della torta degli ebrei fu svelata... per una vendetta.Nell’Emilia felix, Modena è una piccola capitale a parte, con una antologia di prodotti e storie che vanno percorsi a piccoli passi. Prendiamo le crescentine, sorta di morbide focaccine cotte in dischi di terracotta, le tigelle. Un’unione così intima che spesso le portano a essere confuse l’una con l’altra, tanto che Andrea Fini ha posto dei paletti non negoziabili. «In pizzeria chiedereste mai il forno al posto della pizza?».In origine le tigelle erano modellate con terra di castagneti finemente triturata, poste dentro degli stampi di legno su cui erano modellati fregi di vario tipo, compresi gli stemmi delle famiglie nobili. L’impasto di acqua, farina e latte veniva posto all’interno dei due dischi e, a far da cuscinetto, tra il calore delle tigelle e l’impasto crescentino, una foglia di castagno con una doppia funzione: da un lato preservare l’impasto da impreviste ustioni del focolare, dall’altro renderlo elegante al gusto con il profumo di castagno. La silhouette della foglia a imprimersi sulla sfoglia, utile per due cotture di crescentine. Ideali per condividere momenti di allegra convivialità familiare. Tradizione le vuole farcite con la cunza, un’intrigante cremosità di lardo di maiale, aglio, rosmarino e parmigiano. Nel tempo si sono aggiunte varianti che le vedono farcite anche con più solide fette di salumi e formaggi.Crescentine diffuse soprattutto in area appenninica, con diverse rivendicazioni di campanile, anche se tradizione vuole che il tutto sia partito da Zocca, dove ha sede l’autorevole Compagnia della cunza. Zocca è sede pure del Museo del borlengo, custode di storie e palestra con laboratori dedicati, laddove il segreto è saper governare bene «il sole». Non arte astronomica, ma più terra terra: una padella circolare di rame unita all’abilità di saperla ruotare sulla fiamma così da far aderire perfettamente l’impasto in maniera omogenea lungo tutta la superficie.Anche qui plurime le sfide di primogenitura a rincorrersi tra loro. Borlengo, intriganti crepes sottili e croccanti preparate con la «colla», un impasto di acqua, farina e sale. Un mix di tradizione e abilità, tanto che a Guiglia, la Scuola internazionale del borlengo rilascia il titolo di Mastri borlengai a chi se lo guadagna con il sudore della fronte e l’impegno conseguente e, nella sagra storica, si premia ogni anno con il Borlengo d’oro il più meritevole. Origini rinascimentali, quando nel borgo Montombraro, attorno al tronco di un vecchio castagno secolare, dei mercanti si ritrovavano e qualcuno di loro cuoceva il semplice impasto dentro il «sole» caldo e accogliente. Poi la tradizione prese piede e il borlengo divenne il modo più piacevole per confermare la firma di contratti e scambi commerciali. Con il passare del tempo attorno al castagno ritrovi di scampagnate piacevoli, allietate da un ambulante che fece una piccola fortuna grazie allo smercio di borlenghi a volontà.Tutt’altra musica nella vicina Guiglia. Sembra che tutto sia partito nel 1226, quando il conte Ugolino, il signore locale, decise di passare dai guelfi ai ghibellini. Durante il lungo assedio di mesi, chiuso nel suo castello di Montevallaro, le focacce di acqua e farina divennero via via sempre più sottili sin quasi a essere trasparenti, insaporite con i pochi aromi residui delle erbe aromatiche dei cortili interni. Più che cibo restava una sorta di burla, di scherzo, pur di tirare avanti, tradotto poi in un più commestibile borlengo nel corso del tempo. Crepes piegate in quattro e farcite con la tradizionale cunza, come pure con salsiccia o pancetta.Anche Vignola, patria della nobile ciliegia, rivendica la sua quota di borlengheria. Terra di continue scaramucce tra le signorie del tempo, borlengo ultima frontiera edibile per la dispensa sempre più sguarnita, quando bisognava far di necessità virtù per resistere al nemico di turno. Tanto che qui troviamo i «carbonari del borlengo», riuniti nell’immancabile confraternita i quali, al credo di renderlo «sottile come un velo, trasparente come un vetro», sorta di «gigantesca ostia profana», si consolano poi farcendolo di salumi assortiti e ripiegandolo in quattro come tradizione comanda. Non potevano mancare le varianti borlenghe, come ad esempio a Frignano, dove troviamo il ciaccio, caratterizzato dall’aggiunta della patata nell’impasto, il tutto cotto entro due piastre di ferro, le cottole. Oppure a Montesi, dove incrociamo la zampanella, condita direttamente sulla padella con la cunza arricchita di pancetta e salsiccia al posto del lardo tradizionale. Un capitolo a parte meriterebbero le castagne, importate a suo tempo, come bottino di guerra. dalla vicina Garfagnana: impiegate come sorta di «farina» appenninica, sia a dare una versione originale delle crescentine, sotto il nome di necci, come delle tagliatelle fatte in casa. Ma il lato divertente è di come venivano valorizzate quelle secche tenute nella dispensa. Sgranocchiate nature ottimo antistress, soprattutto per chi cercava di distrarsi dal recidivo sigaro quotidiano. Ritornando sulle più tradizionali vie del mais, ecco apparire i calzagatti. Una storia nella storia. Leggenda racconta che, sul finire dell’Ottocento, una rezdora, nel cuocere la sbobba per la numerosa famiglia, da un lato preparava la polenta sull’immancabile paiolo di rame appeso nel camino, dall’altra rimestava i proteici fagioli nel pentolone sulla cucina economica.Nell’apprestarsi al portare il tutto in tavola, inciampò con il pentolone. Fortuna volle che nulla andasse disperso, i fagioli inghiottiti fortunosamente dal paiolo polentone. Far di necessità virtù e così nacque un intrigante gemellaggio. Serviti poi come barrette fritte, goloso street food recentemente ripescato dalla tradizione. Vi è poi chi, come il bravo Luca Marchini, li serve adagiati su di una intrigante quenelle di ricotta. A questo punto uno si chiederà il perché del nome di ispirazione felina. Sempre leggenda racconta che mentre la rezdora fece la Michael Jordan di pignatta, il gatto posto sotto il tavolo in attesa della sua razione se ne scappò a zampe levate. Citazione miciona quella della Sagra del calzagatto che ogni anno si tiene a Marano sul Panaro. Una accogliente calza, tipo Befana, con all’interno tre micetti sorridenti.Altra storia che fa la differenza (anche al palato) la torta degli ebrei. Una tradizione nata a Finale Emilia, terra di confine tra Modena e il resto del mondo, denominata anche la Venezia degli Estensi dato che, attraverso una fitta rete fluviale, era centro di scambio commerciale con tutta la pianura fin verso il lontano Adriatico. Qui la comunità ebraica aveva una fiorente attività in vari settori. Una sfogliata fatta con farina, burro e formaggio che si dice sia stata introdotta nel seicento dalla famiglia dei Belgradi. La ricetta custodita gelosamente di generazione in generazione tra le famiglie della comunità locale. Poi, un bel giorno, nel 1861, la rivoluzione tortaiola. Un certo Mandolino Rimini, invaghitosi di una bellezza locale, abiura alla legge di Mosè e si converte al cristianesimo per sposarla come si conviene, cambiando nome in Giuseppe Alinovi. Ma gliene colse. Ripudiato dalla sua comunità. Si prese una piccola rivincita, e conoscendo i segreti della torta identitaria, la riconverte con un tocco in più di strutto suino, ben conoscendo le rigide regole ebraiche. Un successo immediato, con banchetto di vendita sotto i portici del paese. Tanto che trovò immediata concorrenza in tale Tiburzi che attirava palati curiosi al suo banchetto con le grida «calda che la bui», calda che bolle. Da lì l’acronimo che l’accompagna, in versione laica rivisitata, torta tibuia, da Tiburzi e buia. Un mix di integrazione culinaria che funziona ancor oggi. Una sorta di millefoglie filante tanto che vi è chi se la mangia a morsi e chi, più romanticamente, la sfoglia come petali di rosa.
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