2025-04-14
Romanziere, mistico e filosofo. Il Limonov ignorato dall’Occidente
La biografia di Emmanuel Carrère ci ha fatto conoscere una star vagamente punk e anti putiniana. Ora l’editore Gog dà la parola direttamente a lui, pubblicando un’antologia di scritti. Pieni di idee scomode su Russia e Europa. «Devi essere coraggioso, è quello che vuole da noi la storia, lo vuole tutto il popolo, sempre insaziabile, assetato di sangue. Bisogna essere coraggiosi e temerari, Edik Limonov; devi, fratello, devi!». A ben vedere, tutta la vita di Eduard Limonov (1943-2020) è stata regolata da questo imperativo: essere temerario, a volte ben oltre il coraggio. Certo, a Limonov non dispiacevano le luci della ribalta, era estasiato dall’idea di poter creare scompiglio, il suo ego traforava ogni parete. Ma era ben altro dall’istrione egocentrato a cui lo hanno in qualche modo ridotto la celeberrima biografia di Emmanuel Carrère e il film che ne è da poco stato tratto. Di quel libro Limonov parla in toni agrodolci in un bell’articolo contenuto in Ideario di un figlio di puttana, una scoppiettante antologia edita da Gog, che permette di scoprire il Limonov visto da Limonov in alternativa a quello raccontato da Carrère. «Non mi pronuncio sul libro di Carrère», dice lo scrittore russo, «ho dato la mia parola. Dico solo quello che, dal mio punto di vista, nel libro purtroppo non c’è, e che avrebbe potuto esserci: Carrère ha tenuto la mia filosofia ai margini del suo racconto. [...] Dipingendomi come un self-made-man, avendo scelto di mostrarmi come un avventuriero, un soldato, un carcerato, marito e amante di belle donne, ha totalmente ignorato quello che è il mio talento di pensatore, che è proprio quello di cui vado più fiero. Ma, di certo, il suo libro ha raggiunto la fama tratteggiando coerentemente una figura eroica. Che dire di più? Anche la mia dimensione mistica, il cui esempio per antonomasia è l’opera Trionfo della metafisica, è rimasta fuori dalle pagine di Limonov. Tuttavia, senza il mio Français non sarei arrivato ai miei contemporanci europei. Sarebbe male lamentarsi, come si dice: a caval donato non si guarda in bocca». Dice il vero, Limonov. La sua fama europea sembra basarsi per lo più su fraintendimenti, che del resto lui stesso ha alimentato. L’ambiguità era il suo stagno, ma senza dolo. In lui tutto conviveva, tutto era egualmente vero e sentito, anche e soprattutto le contraddizioni. Anche per questo, forse, Limonov è stato prima di tutto un grande scrittore (leggere per credere le opere pubblicate da Sandro Teti, Il boia in primis). Poi un coraggioso politico, fondatore del partito nazionalbolscevico con Aleksandr Dugin, a cui riserva carezze e pugni. Dalle nostre parti è presentabile soltanto perché lo si può vendere come oppositore di Putin, che in effetti egli detestava. Solo che molte delle idee di Limonov erano più estreme di quelle dello zar. All’Occidente, per dire, dedicava coltellate: «Loro, del resto, ci odiano per davvero», scriveva. «Intendo l’Europa e l’America compresa la sua diaspora anglosassone. A parlare non è un gretto sciovinista in preda alle allucinazioni: tutte le organizzazioni internazionali, che poi sono organizzazioni euro-americane, sono anti-russe. Qualsiasi: l’Onu, l’Unione europea, il Consiglio d’Europa, la Corte europea dei diritti dell’uomo, il Tribunale dell’Aia, la Corte arbitrale, persino la Croce Rossa e le organizzazioni sportive, per non parlare poi della Nato. Basta guardare cosa stanno combinando con i test antidoping, stanno squalificando tutti i nostri atleti migliori in questo modo. E le sanzioni! Per non parlare delle lezioni di morale tenute da quei cannibali incalliti degli Usa e dell’Ue, affinché rinunciassimo alla Crimea. Tramite queste sanzioni vorrebbero che il popolo russo si ribellasse ai suoi governanti, ma non capiscono la psicologia russa. È vero che vorremo che i nostri politici fossero perfetti e che quelli che abbiamo non ci piacciono. Ma se c’è qualcosa di più forte dell’antipatia che proviamo per i nostri rappresentanti è proprio quella che proviamo per questi volgari tizi d’oltreoceano che tentano di metterci pressione». Sì, detestava Putin, ma ricordate cosa disse sul Donbass? Era il 2015, parlava al Corriere della Sera: «Non capisco perché Putin abbia ancora paura di dire che Donbass e Russia sono la stessa cosa». E dell’Ucraina? «È un piccolo impero, è composta dai territori presi alla Russia e da quelli presi a Polonia, Cecoslovacchia, Romania e Ungheria. I suoi confini sono le frontiere amministrative della Repubblica socialista sovietica dell’Ucraina. Non sono mai esistiti». E del dissidente Aleksej Naval’nyj? Ecco: «Le sue mani non sono proprio pulite e ciò non si addice a chi combatte la corruzione: mi riferisco alla faccenda della Kirovles, una società off-shore con sede a Cipro. Qualcosa che potrebbe sporcare la brillante immagine di Lëša Naval’nyj. Sono stati i mass media a creare Naval’nyj. I media sì borghesi, ma di opposizione. Non è stato creato neanche dagli uomini, bensì dalle ragazze e dalle donne dei media. [...] Naval’nyj è vuoto cosmico che va di moda. Ho già spiegato da dove è uscito». Che fosse pericoloso, dopo tutto, lo diceva il nome: Limonov, come le granate. Anche per questo ci piace la sua immagine patinata costruita da biografie e film. Ci piace più il Limonov morto di quello vivo e urlante. Preferiamo la star vagamente punk al romanziere. Ma lui era tutte le cose insieme: una unità di opposti. Opposti estremismi, per lo più.
C’è anche un pezzo d’Italia — e precisamente di Quarrata, nel cuore della Toscana — dietro la storica firma dell’accordo di pace per Gaza, siglato a Sharm el-Sheikh alla presenza del presidente statunitense Donald Trump, del presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, del turco Recep Tayyip Erdogan e dell’emiro del Qatar Tamim bin Hamad al-Thani. I leader mondiali, riuniti per «un’alba storica di un nuovo Medio Oriente», come l’ha definita lo stesso Trump, hanno sottoscritto l’intesa in un luogo simbolo della diplomazia internazionale: il Conference Center di Sharm, allestito interamente da Formitalia, eccellenza del Made in Italy guidata da Gianni e Lorenzo David Overi, oggi affiancati dal figlio Duccio.
L’azienda, riconosciuta da anni come uno dei marchi più prestigiosi dell’arredo italiano di alta gamma, è fornitrice ufficiale della struttura dal 2018, quando ha realizzato anche l’intero allestimento per la COP27. Oggi, gli arredi realizzati nei laboratori toscani e inviati da oltre cento container hanno fatto da cornice alla firma che ha segnato la fine di due anni di guerra e di sofferenza nella Striscia di Gaza.
«Tutto quello che si vede in quelle immagini – scrivanie, poltrone, arredi, pelle – è stato progettato e realizzato da noi», racconta Lorenzo David Overi, con l’orgoglio di chi ha portato la manifattura italiana in una delle sedi più blindate e tecnologiche del Medio Oriente. «È stato un lavoro enorme, durato oltre un anno. Abbiamo curato ogni dettaglio, dai materiali alle proporzioni delle sedute, persino pensando alle diverse stature dei leader presenti. Un lavoro sartoriale in tutto e per tutto».
Gli arredi sono partiti dalla sede di Quarrata e dai magazzini di Milano, dove il gruppo ha recentemente inaugurato un nuovo showroom di fronte a Rho Fiera. «La committenza è governativa, diretta. Aver fornito il centro che ha ospitato la COP27 e oggi anche il vertice di pace è motivo di grande orgoglio», spiega ancora Overi, «È come essere stati, nel nostro piccolo, parte di un momento storico. Quelle scrivanie e quelle poltrone hanno visto seduti i protagonisti di un accordo che il mondo attendeva da anni».
Dietro ogni linea, ogni cucitura e ogni finitura lucidata a mano, si riconosce la firma del design italiano, capace di unire eleganza, funzionalità e rappresentanza. Non solo estetica, ma identità culturale trasformata in linguaggio universale. «Il marchio Formitalia era visibile in molte sale e ripreso dalle telecamere internazionali. È stata una vetrina straordinaria», aggiunge Overi, «e anche un riconoscimento al valore del nostro lavoro, fatto di precisione e passione».
Il Conference Center di Sharm el-Sheikh, un complesso da oltre 10.000 metri quadrati, è oggi un punto di riferimento per la diplomazia mondiale. Qui, tra le luci calde del deserto e l’azzurro del Mar Rosso, l’Italia del saper fare ha dato forma e materia a un simbolo di pace.
E se il mondo ha applaudito alla firma dell’accordo, in Toscana qualcuno ha sorriso con un orgoglio diverso, consapevole che, anche questa volta, il design italiano era seduto al tavolo della storia.
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Silvia Salis (Imagoeconomica)