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2023-02-05
Bombe carta, aggressioni alla polizia. Roma assediata dai vandali anarchici
Ansa
Gli anarchici che vorrebbero strappare Alfredo Cospito dal 41 bis hanno sfilato con le loro bandiere nere e rosse per la Capitale. Il bilancio: fermi e feriti. «Alcuni compagni sono stati fermati e altri due sono rimasti feriti. Appena capiremo la loro sorte il corteo sarà sciolto», urla a fine serata uno degli agitatori al microfono di Largo Preneste.
I manifestanti, circa 800 secondo i conti della Questura, hanno aperto il loro corteo non autorizzato in piazza Vittorio con l’intenzione, almeno quella annunciata, di raggiungere la zona di Roma Est per poi andare verso il Pigneto. Ad aprire la manifestazione c’era Pasquale Lello Valitutti, 75 anni, l’uomo che sostiene di essere stato l’ultimo a vedere l’anarchico Giuseppe Pinelli prima del tragico volo dal quarto piano della Questura di Milano il 15 dicembre 1969, con la sua sedia a rotelle. Ha precisato di parlare a titolo personale: «Faremo di tutto affinché Alfredo non muoia». Mentre parlava i manifestanti hanno cercato di impedire che le telecamere lo riprendessero. Davanti a lui c’erano solo una cinquantina di persone. Poi, però, il corteo si è ingrossato. E di tanto. Verso Porta Maggiore era già un fiume umano. Una decina di partecipanti, vestiti di nero e con il volto coperto ha cominciato a lanciare bottiglie e fumogeni contro il cordone delle forze dell’ordine e i blindati messi a protezione di una concessionaria della Fiat. Tra fumogeni rossi e cori contro le istituzioni la folla è andata avanti, mentre i negozi abbassavano le saracinesche per evitare danni. «Manifestiamo per un amico e faremo tutto il possibile per salvarlo», dicono i manifestanti al microfono, «Alfredo è l’esempio di un comportamento indecente dello Stato, non doveva andare al 41 bis. Non ha commesso l’attentato di cui lo accusano. Alfredo è al 41 bis perché è un combattente rivoluzionario».
Preso di mira anche il presidente Sergio Mattarella: «Abbiamo un presidente della Repubblica in odore di mafia», ha urlato un manifestante. «Abbiamo un primo ministro da cui sono usciti i più efferati assassini, è dalla famiglia della Meloni che escono gli assassini di piazza Fontana, e ora stanno assassinando Alfredo, che è gente nostra, è uno di noi». L’incitatore col megafono ha subito ottenuto risposta dal suo popolo: «Fuori Alfredo dal 41 bis, pagherete tutto, pagherete caro». Il popolo della A cerchiata già immagina Cospito come un martire: «Se Alfredo muore bandiere nere al vento, se muore un compagno ne nascono altri cento». Dopo l’esplosione di una bomba carta sotto al ponte della tangenziale sono iniziate le tensioni più forti con le forze dell’ordine, che sono state registrate su via Prenestina, all’altezza del civico 54, davanti alla sede di Atac: i manifestanti hanno danneggiato una macchina della vigilanza privata, incendiato una cabina elettrica e mandato in frantumi i vetri di una fermata dell’autobus. Numerosi i petardi esplosi e i lanci di bottiglie, indirizzate sia alla polizia sia ai giornalisti. Tre fermati (sono stati portati in Questura per l’identificazione, ma la loro posizione ieri sera non era ancora stata valutata in pieno e, quindi, non sono stati emessi provvedimenti): erano incappucciati e vestiti di nero. È a questo punto che le forze dell’ordine hanno stoppato le azioni. In due sono rimasti feriti. Qui dal microfono, per tentare di riportare la calma, qualcuno ha spiegato: «Siamo in mezzo alla nostra gente, con le persone che vediamo tutti i giorni». Il vialone era cinturato dagli agenti e l’assenza di vie di fuga, ribadita anche attraverso gli altoparlanti, deve aver fatto desistere i più facinorosi da azioni eclatanti. Da una barricata tirata su con bidoni per l’immondizia sono volate delle bottiglie contro gli agenti. Per evitare che la situazione degenerasse, a quel punto, sono partite delle cariche di alleggerimento.
Mentre a piazzale Prenestino un gruppo di manifestanti a volto coperto è stato fatto arretrare da un blindato. Alla vista del mezzo che avanzava il gruppetto si è dileguato. Bloccata da un presidio anarchico la rampa della Tangenziale, che è stata chiusa. Il resto della manifestazione è tutto uno slogan: «Il carcere uccide, lo stato tortura, contro il 41 bis ed ergastolo». Ma anche «contro padroni e stato di polizia, solidarietà con chi si ribella». Gli striscioni affissi sui cancelli del giardino di piazza Vittorio vengono ripresi dalle telecamere e immortalati dai fotografi. Durante il corteo sui muri è comparsa qualche scritta con lo spy nero: «La Russa boia» e «Alfredo libero».
Poi una sfilza di cartelli contro il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro, e il vicepresidente del Copasir, Giovanni Donzelli. C’erano diverse realtà dell’antagonismo romano, tra centri sociali e collettivi studenteschi, ma anche alcuni esponenti del movimento No green pass. Dai microfoni sono partite accuse alla stampa per aver accostato il movimento anarchico alla mafia. Sul furgone, usato per gli interventi al microfono, è stato piazzato un cartellone che ricorda le stragi di piazza Fontana, di Brescia, dell’Italicus, di piazza Bologna, del Rapido 904 e dei migranti nel Mediterraneo: «Stragista è lo Stato». Piove, governo ladro.
Sassaiola contro gli agenti a Opera
Dopo aver lanciato un gavettone e monetine contro i giornalisti e fumogeni e sassi all’interno del carcere di Opera, il più grande istituto di pena italiano, con 1.400 detenuti di cui 1.300 con condanna definitiva, gli squatter anarchici che manifestano per un salvacondotto dal 41 bis per il loro compagno bombarolo arruffapopoli Alfredo Cospito, detenuto proprio lì, al Sai, il braccio per i detenuti affetti da patologie, hanno chiuso la manifestazione, non comunicata alla Questura, con fuochi d’artificio.
Allo scoccare della terza ora dall’avvio del presidio, mentre tramontava il sole sull’istituto penitenziario, un gruppetto di manifestanti ha dato fuoco alle polveri proprio sul prato che costeggia la struttura detentiva. «Fuori tutti dalle galere, dentro nessuno, solo macerie». Con questo slogan gli anarchici hanno salutato i detenuti. Poi si sono allontanati alla spicciolata. Provenivano dal Nord Italia (Lecco, Como, Torino, Genova, Trento, Bologna) e dalla Svizzera, come segnalato dalle forze dell’ordine, e alla fine se ne sono contati circa 300. Come in altre mille proteste del movimento della A cerchiata, gli obiettivi sono stati giornalisti e rappresentanti dello Stato. Ai primi hanno dedicato un «fate schifo, lavorate sulla pelle della gente. Giornalisti servi di Questure e ministeri. Poi vi lamentate se vi arrivano le pietre». E a quel punto si sono scagliati contro una delle reti di protezione dell’istituto di pena e hanno lanciato all’interno fumogeni, sassi e bombe carta. Una sassaiola è partita anche contro le forze dell’ordine e i giornalisti. Per far sentire ai detenuti la loro presenza qualcuno si è messo a colpire con pezzi di ferro la rete esterna al camminamento della ronda che cintura il penitenziario.
Un gruppetto ha cercato di raggiungere l’ala a Nord Ovest della struttura ed è arrivato fino quasi alla prima recinzione esterna. Da lì sono partite pietre e petardi contro gli agenti della polizia penitenziaria che presidiavano quella fascia. Ai poliziotti è arrivato qualche sputo. Ma gli insulti non si contavano. E poi ancora vecchi slogan dell’area antagonista: «Galere e Cpr (i Centri per il rimpatrio, ndr) non non ne vogliamo più, colpo su colpo le tireremo giù». Anche quella dei Cpr, che definiscono dei lager, è uno dei cavalli di battaglia dell’area. Con gli investigatori, soprattutto in Trentino e a Torino, che hanno registrato più di un tentativo di entrare in contatto con gli immigrati da espellere, nel tentativo di radicalizzarli alla lotta insurrezionalista. La colonna sonora amplificata da megafoni e casse audio è tutta dedicata a Niko Pandetta, il trapper neomelodico catanese (4 anni per spaccio ed evasione) detenuto a Opera, con le sue hit Scappo, vado via e Pistole nella Fendi. Ma i dj dell’anarchia hanno alzato il volume mentre passavano Senza giacca e cravatta di Nino D’Angelo. Ovviamente non poteva mancare uno striscione contro il 41 bis. C’era anche Simone Ficicchia, esponente degli ultrà ambientalisti di Ultima generazione, per il quale era stata chiesta la sorveglianza dopo l’imbrattata di vernice sulla Scala di Milano lo scorso 7 dicembre.
«Sono qui come individuo», ha detto ai giornalisti, «perché c’è una persona che sta facendo uno sciopero della fame, una azione assolutamente non violenta, contro un regime assolutamente inumano come quello del 41 bis e dell’ergastolo ostativo». Poi ha tentato un distinguo: «Per quanto non abbracciamo gli stessi metodi di lotta, per me, come persona che ha vissuto forme di repressione, sicuramente molto più leggere ma allo stesso tempo sproporzionate per quello che sono le azioni non violente di Ultima generazione, è importante portare la mia solidarietà». E ha precisato: «Abbiamo idee diverse su come si portino avanti le lotte, ma c’è una totale unità di vedute rispetto a quello che sta accadendo ad Alfredo e a ogni lotta in questo Paese».
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Caos al corteo non autorizzato nella Capitale: i fanatici della A cerchiata hanno distrutto auto e arredi urbani, assalendo le forze dell’ordine. Slogan deliranti contro Sergio Mattarella, Ignazio La Russa e Giorgia Meloni: «Lo Stato è stragista».Sassaiola contro gli agenti a Opera. I rivoltosi tentano l’incursione nel carcere milanese dov’è detenuto il loro beniamino. Presente pure l’ecologista che aveva imbrattato la Scala: «Sono vittima di repressione».Lo speciale contiene due articoli.Gli anarchici che vorrebbero strappare Alfredo Cospito dal 41 bis hanno sfilato con le loro bandiere nere e rosse per la Capitale. Il bilancio: fermi e feriti. «Alcuni compagni sono stati fermati e altri due sono rimasti feriti. Appena capiremo la loro sorte il corteo sarà sciolto», urla a fine serata uno degli agitatori al microfono di Largo Preneste. I manifestanti, circa 800 secondo i conti della Questura, hanno aperto il loro corteo non autorizzato in piazza Vittorio con l’intenzione, almeno quella annunciata, di raggiungere la zona di Roma Est per poi andare verso il Pigneto. Ad aprire la manifestazione c’era Pasquale Lello Valitutti, 75 anni, l’uomo che sostiene di essere stato l’ultimo a vedere l’anarchico Giuseppe Pinelli prima del tragico volo dal quarto piano della Questura di Milano il 15 dicembre 1969, con la sua sedia a rotelle. Ha precisato di parlare a titolo personale: «Faremo di tutto affinché Alfredo non muoia». Mentre parlava i manifestanti hanno cercato di impedire che le telecamere lo riprendessero. Davanti a lui c’erano solo una cinquantina di persone. Poi, però, il corteo si è ingrossato. E di tanto. Verso Porta Maggiore era già un fiume umano. Una decina di partecipanti, vestiti di nero e con il volto coperto ha cominciato a lanciare bottiglie e fumogeni contro il cordone delle forze dell’ordine e i blindati messi a protezione di una concessionaria della Fiat. Tra fumogeni rossi e cori contro le istituzioni la folla è andata avanti, mentre i negozi abbassavano le saracinesche per evitare danni. «Manifestiamo per un amico e faremo tutto il possibile per salvarlo», dicono i manifestanti al microfono, «Alfredo è l’esempio di un comportamento indecente dello Stato, non doveva andare al 41 bis. Non ha commesso l’attentato di cui lo accusano. Alfredo è al 41 bis perché è un combattente rivoluzionario». Preso di mira anche il presidente Sergio Mattarella: «Abbiamo un presidente della Repubblica in odore di mafia», ha urlato un manifestante. «Abbiamo un primo ministro da cui sono usciti i più efferati assassini, è dalla famiglia della Meloni che escono gli assassini di piazza Fontana, e ora stanno assassinando Alfredo, che è gente nostra, è uno di noi». L’incitatore col megafono ha subito ottenuto risposta dal suo popolo: «Fuori Alfredo dal 41 bis, pagherete tutto, pagherete caro». Il popolo della A cerchiata già immagina Cospito come un martire: «Se Alfredo muore bandiere nere al vento, se muore un compagno ne nascono altri cento». Dopo l’esplosione di una bomba carta sotto al ponte della tangenziale sono iniziate le tensioni più forti con le forze dell’ordine, che sono state registrate su via Prenestina, all’altezza del civico 54, davanti alla sede di Atac: i manifestanti hanno danneggiato una macchina della vigilanza privata, incendiato una cabina elettrica e mandato in frantumi i vetri di una fermata dell’autobus. Numerosi i petardi esplosi e i lanci di bottiglie, indirizzate sia alla polizia sia ai giornalisti. Tre fermati (sono stati portati in Questura per l’identificazione, ma la loro posizione ieri sera non era ancora stata valutata in pieno e, quindi, non sono stati emessi provvedimenti): erano incappucciati e vestiti di nero. È a questo punto che le forze dell’ordine hanno stoppato le azioni. In due sono rimasti feriti. Qui dal microfono, per tentare di riportare la calma, qualcuno ha spiegato: «Siamo in mezzo alla nostra gente, con le persone che vediamo tutti i giorni». Il vialone era cinturato dagli agenti e l’assenza di vie di fuga, ribadita anche attraverso gli altoparlanti, deve aver fatto desistere i più facinorosi da azioni eclatanti. Da una barricata tirata su con bidoni per l’immondizia sono volate delle bottiglie contro gli agenti. Per evitare che la situazione degenerasse, a quel punto, sono partite delle cariche di alleggerimento.Mentre a piazzale Prenestino un gruppo di manifestanti a volto coperto è stato fatto arretrare da un blindato. Alla vista del mezzo che avanzava il gruppetto si è dileguato. Bloccata da un presidio anarchico la rampa della Tangenziale, che è stata chiusa. Il resto della manifestazione è tutto uno slogan: «Il carcere uccide, lo stato tortura, contro il 41 bis ed ergastolo». Ma anche «contro padroni e stato di polizia, solidarietà con chi si ribella». Gli striscioni affissi sui cancelli del giardino di piazza Vittorio vengono ripresi dalle telecamere e immortalati dai fotografi. Durante il corteo sui muri è comparsa qualche scritta con lo spy nero: «La Russa boia» e «Alfredo libero».Poi una sfilza di cartelli contro il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro, e il vicepresidente del Copasir, Giovanni Donzelli. C’erano diverse realtà dell’antagonismo romano, tra centri sociali e collettivi studenteschi, ma anche alcuni esponenti del movimento No green pass. Dai microfoni sono partite accuse alla stampa per aver accostato il movimento anarchico alla mafia. Sul furgone, usato per gli interventi al microfono, è stato piazzato un cartellone che ricorda le stragi di piazza Fontana, di Brescia, dell’Italicus, di piazza Bologna, del Rapido 904 e dei migranti nel Mediterraneo: «Stragista è lo Stato». 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Allo scoccare della terza ora dall’avvio del presidio, mentre tramontava il sole sull’istituto penitenziario, un gruppetto di manifestanti ha dato fuoco alle polveri proprio sul prato che costeggia la struttura detentiva. «Fuori tutti dalle galere, dentro nessuno, solo macerie». Con questo slogan gli anarchici hanno salutato i detenuti. Poi si sono allontanati alla spicciolata. Provenivano dal Nord Italia (Lecco, Como, Torino, Genova, Trento, Bologna) e dalla Svizzera, come segnalato dalle forze dell’ordine, e alla fine se ne sono contati circa 300. Come in altre mille proteste del movimento della A cerchiata, gli obiettivi sono stati giornalisti e rappresentanti dello Stato. Ai primi hanno dedicato un «fate schifo, lavorate sulla pelle della gente. Giornalisti servi di Questure e ministeri. Poi vi lamentate se vi arrivano le pietre». E a quel punto si sono scagliati contro una delle reti di protezione dell’istituto di pena e hanno lanciato all’interno fumogeni, sassi e bombe carta. Una sassaiola è partita anche contro le forze dell’ordine e i giornalisti. Per far sentire ai detenuti la loro presenza qualcuno si è messo a colpire con pezzi di ferro la rete esterna al camminamento della ronda che cintura il penitenziario. Un gruppetto ha cercato di raggiungere l’ala a Nord Ovest della struttura ed è arrivato fino quasi alla prima recinzione esterna. Da lì sono partite pietre e petardi contro gli agenti della polizia penitenziaria che presidiavano quella fascia. Ai poliziotti è arrivato qualche sputo. Ma gli insulti non si contavano. E poi ancora vecchi slogan dell’area antagonista: «Galere e Cpr (i Centri per il rimpatrio, ndr) non non ne vogliamo più, colpo su colpo le tireremo giù». Anche quella dei Cpr, che definiscono dei lager, è uno dei cavalli di battaglia dell’area. Con gli investigatori, soprattutto in Trentino e a Torino, che hanno registrato più di un tentativo di entrare in contatto con gli immigrati da espellere, nel tentativo di radicalizzarli alla lotta insurrezionalista. La colonna sonora amplificata da megafoni e casse audio è tutta dedicata a Niko Pandetta, il trapper neomelodico catanese (4 anni per spaccio ed evasione) detenuto a Opera, con le sue hit Scappo, vado via e Pistole nella Fendi. Ma i dj dell’anarchia hanno alzato il volume mentre passavano Senza giacca e cravatta di Nino D’Angelo. Ovviamente non poteva mancare uno striscione contro il 41 bis. C’era anche Simone Ficicchia, esponente degli ultrà ambientalisti di Ultima generazione, per il quale era stata chiesta la sorveglianza dopo l’imbrattata di vernice sulla Scala di Milano lo scorso 7 dicembre. «Sono qui come individuo», ha detto ai giornalisti, «perché c’è una persona che sta facendo uno sciopero della fame, una azione assolutamente non violenta, contro un regime assolutamente inumano come quello del 41 bis e dell’ergastolo ostativo». Poi ha tentato un distinguo: «Per quanto non abbracciamo gli stessi metodi di lotta, per me, come persona che ha vissuto forme di repressione, sicuramente molto più leggere ma allo stesso tempo sproporzionate per quello che sono le azioni non violente di Ultima generazione, è importante portare la mia solidarietà». E ha precisato: «Abbiamo idee diverse su come si portino avanti le lotte, ma c’è una totale unità di vedute rispetto a quello che sta accadendo ad Alfredo e a ogni lotta in questo Paese».
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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