Nel 2050 il 30% delle attività sarà automatizzato, con il rischio che almeno il 15% dei lavoratori resti a casa. Dagli Usa all'Europa si lavora al cambiamento, mentre da noi si arranca tra risorse scarse e ritardi. Non decolla il piano Calenda, silenzio dei sindacati.
Nel 2050 il 30% delle attività sarà automatizzato, con il rischio che almeno il 15% dei lavoratori resti a casa. Dagli Usa all'Europa si lavora al cambiamento, mentre da noi si arranca tra risorse scarse e ritardi. Non decolla il piano Calenda, silenzio dei sindacati.I robot del 2050 somiglieranno a Luigi Di Maio e vestiranno sempre, anche nei giorni festivi, con giacca e cravatta. Potranno sostituire i manager e prendere decisioni strategiche per le aziende, anche perché potranno contare sull'intelligenza artificiale, dotata di creatività. Non è più fantascienza, ma i risultati di un recente rapporto, presentato al Forum di Davos, da una delle più importanti società di consulenza multinazionale, la McKinsey. Un alto dirigente di questa impresa, Roberto Lancellotti (partner europeo di Digital McKinsey), ha dichiarato che il 60 per cento degli attuali ruoli di vertici aziendali potrà contare su «almeno il 30 per cento di attività che potranno essere automatizzate». La robotica fa passi da gigante soprattutto negli Stati Uniti, ma anche in altri Paesi (in Giappone, Corea del Sud, Cina e in buona parte dell'Europa). Anche in Italia, secondo Paese manifatturiero in Europa, va avanti, anche se fra mille ostacoli.L'industria 4.0 rappresenta dunque una grande opportunità per la ripresa della nostra economia dopo anni di deindustrializzazione, aumenti della disoccupazione, lavoro precario, fabbriche costrette a chiudere perché fuori mercato. Ora registriamo i primi concreti segnali di ripresa dell'industria, anche se ancora a pelle di leopardo. In una recente indagine della società Kpmg, per il Comitato Leonardo (330 aziende coinvolte, con l'80 per cento con meno di 250 addetti), sono state individuate le difficoltà che rallentano il percorso verso l'Industry 4.0. Non sono bastate, cioè, le misure del cosiddetto piano Calenda. Si tratta di ostacoli di natura culturale (73 %), di scarsità di risorse interne (60,4), di difficoltà pratiche e nel focalizzare i benefici (56,8), di disponibilità di competenze (50,5), di scarsa propensione delle aziende a integrarsi nell'intera filiera (44,1), di difficile individuazione di competenti partner esterni (40,5). Sono soprattutto le piccole e medie imprese (che poi sono la stragrande maggioranza delle aziende italiane) a soffrirne.Un'altra ricerca conferma questa diagnosi. Parliamo del Primo rapporto Industria 4.0 nelle pmi italiane, coordinato da Eleonora Di Maria, docente all'Università di Padova. In questo voluminoso studio, su un campione di 5.421 imprese selezionate nelle regioni del Nord, si afferma che «solo» il 18,8 per cento delle aziende analizzate ha fatto riferimento a Industria 4.0 con applicazioni tecnologiche innovative (robotica, big data cloud, manifattura additiva).Quello che emerge in queste indagini è la diffusa lamentela degli imprenditori per la carenza di competenze interne, sulle lacune infrastrutturali (banda larga) e sull'estrema lunghezza delle procedure legate all'esecuzione dei progetti. Questi nodi finiscono per mettere a rischio la competitività delle aziende e quindi la ripresa dell'industria. Opinioni condivise sia dalla Confapi che dalla Federmanager, come hanno confermato i presidenti di queste organizzazioni in un incontro con il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti.Stefano Cuzzilla (Federmanager) ha osservato: «Le caratteristiche del tessuto produttivo italiano, fatto di piccole e piccolissime imprese, richiedono interventi tagliati su misura. Altrimenti rischiamo di vanificare l'effetto degli investimenti pubblici e privati che stiamo mobilitando. I nostri dati confermano che il 65% delle pmi ritiene di avere bisogno di figure manageriali per essere più competitiva e innovativa. La tecnologia è il mezzo, non il fine. Per questo dobbiamo concentrarci sul capitale umano, che è la nostra vera forza». Dello stesso parere Maurizio Casasco (Confapi): «Alle piccole imprese chi glielo spiega che cosa è l'industria 4.0? Non si può pensare che solo noi associazioni possiamo farci carico di illustrare le potenzialità dell'innovazione e della tecnologia».Del resto la quarta rivoluzione industriale richiede una riforma radicale della formazione per creare competenze specifiche. Lo ribadisce Alberto Bombassei, presidente di Brembo e di Kilometro rosso, il distretto dell'innovazione di Bergamo. Sono ancora numerose le aziende, spiega, che incontrano difficoltà a reperire personale specializzato, con conoscenze in settori che vanno dall'information technology all'intelligenza artificiale, la robotica e la meccatronica. È evidente che l'esperimento scuola- lavoro, così come finora è stato concepito, non ha funzionato adeguatamente: ha favorito abusi da parte degli imprenditori e non ha portato alcun giovamento alla formazione tecnica degli studenti. «L'implementazione del modello Industria 4.0 è condizionato al rapido sviluppo della preparazione delle competenze digitali necessarie». L'Italia, purtroppo, si trova ancora all'ultimo livello tra i cinque maggiori Paesi europei. Come confermano i dati, poco ottimistici, sulla disoccupazione.In un libro recente (Edoardo Segantini: La nuova chiave a stella - Storie di persone nella fabbrica del futuro, Guerini e Associati) viene riportata l'opinione di Jerry Kaplan, noto scienziato-imprenditore della Silicon Valley. Riporta l'autore: «L'intelligenza artificiale, che lui (Kaplan, ndr) considera l'equivalente contemporaneo e incruento del Progetto Manhattan per la bomba atomica, sta avanzando su due fronti: da un lato i sistemi che apprendono dall'esperienza come gli esseri umani; dall'altro i dispositivi che nascono dal matrimonio tra il mondo dei sensori e quello dei robot, cioè le macchine che vedono, ascoltano e interagiscono con l'ambiente circostante».Oggi - tra imprese, sociologi del lavoro, sindacalisti, economisti e altri esperti - si tende a semplificare la questione della disoccupazione, che potrebbe essere provocata dalla rivoluzione tecnologica. Un problema che si è posto già nelle tre precedenti rivoluzioni industriali. Secondo Kaplan, l'automazione ha sempre investito i mercati del lavoro, che però si sono sempre adattati. La verità è che il peso maggiore ricade nel breve periodo, sui lavoratori «che vengono rimpiazzati dalle macchine». Ma, nel lungo periodo, crea benefici per tutti, compresi i lavoratori. Anche la tecnologia sarà in grado di creare nuovi posti di lavoro e quindi l'occupazione tenderà ad aumentare, anche a raddoppiarsi e a triplicarsi nell'arco di 10-15 anni.E tutto questo mentre si diffondono, anche per canali riservati, rapporti e studi di economisti, esperti di relazioni industriali e altri di contenuti terrorizzanti sui rischi per la nostra, già debole, occupazione. Per fare solo un esempio, nel 2016 la Commissione attività produttive della Camera ha pubblicizzato un'indagine conoscitiva sui rischi che può provocare un massiccio inserimento dei robot nelle fabbriche: avrebbero «mangiato» decine di migliaia di posti di lavoro. Poi però il governo ha inserito nella legge di Stabilità gli incentivi alle aziende per l'acquisto di tecnologie avanzate; la situazione è allora migliorata, anche se un recente studio dell'European house Ambrosetti prevede, ancora oggi, che «il 14,9 del totale degli occupati, pari a 3,2 milioni, potrebbe perdere il posto di lavoro entro i prossimi 15 anni».Su questa linea si colloca anche un altro rapporto del Parlamento europeo (reparto Science and technology options Assessment, Stoa), che è arrivato alle seguenti conclusioni: 1) Le attività e le modalità di lavoro più flessibili aumenteranno con la digitalizzazione. Sarà quindi necessario garantire maggiori tutele ai lavoratori per affrontare i cambiamenti tecnologici. 2) È necessario regolamentare una riduzione dell'orario di lavoro. 3) La riduzione dell'orario comporta anche un aumento del costo del lavoro, che può avere conseguenze negative per la competitività delle imprese.Le conclusioni sono comunque ottimistiche: «L'innovazione è favorevole al lavoro: distrugge, ma crea anche occupazione. La digitalizzazione in atto non porterà alla disoccupazione di massa, anche se i costi saranno sostenuti soprattutto dai lavoratori poco qualificati».C'è però un grande assente o per lo meno poco presente con studi, ricerche e programmi di intervento. Parliamo del sindacato. La Cgil sembra particolarmente interessata alla quarta rivoluzione industriale, ma - oltre a seminari e qualche convegno riservato - non ha fatto altro. Probabilmente nelle riunioni interne dei dirigenti se ne parla, ma finora è emerso ben poco all'esterno. Si sa della costituzione di una «piattaforma» online che si chiama «Idea diffusa» (con 180 sindacalisti e tecnici «attivi»), che ha dato vita a una Consulta industriale, con 99 esperti (fra cui un ex ministro del governo Prodi, Luigi Nicolais, diversi docenti universitari ed esperti vari, anche di asili nido). Questa Consulta ha prodotto un documento di base (Progetto Lavoro 4.0) un po' generico e un burocratico programma di lavoro. Un po' poco, ci sembra, da parte della più grande confederazione sindacale. La Cgil, comprendiamo, è più proiettata sul prossimo congresso e il cambio della guardia al vertice (a sostituire Susanna Camusso quasi sicuramente andrà Maurizio Landini o, in subordine, Vincenzo Colla, fedelissimo dell'attuale segretaria generale).Della Cisl e della Uil si conosce ancora meno. Abbiamo appreso però di una delle rare indagini realizzate per la Cisl dal Politecnico di Torino (Emilio Bartezzaghi, Luigi Campagna e Luciano Pero). Una ricerca su 22 esperienze di Impresa 4.0, di grande interesse anche perché contraddice la tendenza (sindacale) che l'innovazione cancella posti di lavoro. I tre esperti sostengono invece che l'aumento di produttività realizzato con le nuove tecnologie «non si traduce in tagli occupazionali». Infatti, con una radicale modifica dei ruoli, degli inquadramenti professionali, con l'incremento dei volumi di merci vendute (e la crescita dell'export) l'occupazione non diminuisce. Anzi, aumenta, purché i progetti di innovazione tecnologica siano ben realizzati, soprattutto con l'attiva partecipazione dei lavoratori. Il tema della «partecipazione è diventato, infatti, l'elemento chiave anche nel recente accordo sulla contrattazione sindacati-Confindustria, anche se andrà approfondito e definito fra tutte le parti sociali.Della Uil non si sa nulla. Di recente, però, all'Istituto per l'enciclopedia italiana di Roma si è svolto un convegno di esperti aziendali e sindacalisti dove sono emerse alcune idee, anche se non tutte originali. Ad aprire la discussione Giorgio Benvenuto, per molti anni segretario generale della Uil e attualmente presidente delle fondazioni Buozzi e Nenni e vicepresidente della Brodolini. Ci ha detto che «è necessario dar vita a una rivoluzione dei sistemi formativi ed estendere le innovazioni tecnologiche al mondo delle piccole imprese. Non deve spaventare la scomparsa di profili professionali e posti di lavoro tradizionali», ha aggiunto. «Non va però sottovalutato il rischio di nuove diseguaglianze sul lavoro, con la demarcazione che i nuovi saperi segneranno fra coloro che “coabiteranno" con i robot e coloro che saranno assegnati ai vari settori della logistica, a partire dai mestieri manuali che sopravvivranno. I ritardi in campo sindacale ci sono, ma anche quelli in campo imprenditoriale non si devono sottovalutare».
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