2023-08-28
Roberto D'Agostino: «Il generale piace non solo a destra»
Roberto D'Agostino (Getty Images)
Il padre di «Dagospia»: «Compra il suo libro, zeppo di buonsenso, chi è stufo di sentir parlare sempre di diritti delle minoranze. Giorgia Meloni non può difenderlo, in Europa la punirebbero. E questo per lei è un problema».«Cosa ci insegna il caso Vannacci? Intanto, agli elettori di destra non interessa un amato cazzo della lotta contro l’egemonia culturale della sinistra. È bastato un libro scritto con i piedi ma zeppo di semplice e banale buonsenso autoprodotto da un oscuro ex generale della Folgore per svettare nella classifica dei libri più venduti, folgorando i papiri intellettuali dei vari Giuli o Buttafuoco. Gli elettori di destra, e non solo quelli di destra, sono corsi a comprarlo perché stufi di sentir parlare solo di diritti delle minoranze (sacrosanti, per carità), quando la maggioranza dei cittadini ha tanti di quei problemi che non sa da che parte voltarsi». Roberto D’Agostino, 75 anni, padre di Dagospia, osserva dal litorale romano i fuochi d’artificio di fine estate che agitano la politica, a cominciare dalle polemiche intorno al libro del generale Vannacci. «Una storia interessante non solo per la bufera di questi giorni, ma soprattutto per le conseguenze politiche che avrà sul partito della Famiglia Meloni in vista delle Europee». Perché quel volume è sulla bocca di tutti? «Perché pur essendo un libro rozzo e sgrammaticato, scritto da un militare che dovrebbe rispettare un dovere di riservatezza, resta il fatto che quelle 356 pagine esprimono il pensiero di tanti italiani, anche di quelli che non votano a destra, che non sono né omofobi né razzisti. Vannacci vince perché rivendica in maniera netta e chiara quello che Meloni e camerati hanno sempre sostenuto fino al suo trionfale ingresso a Palazzo Chigi: quel pensiero di rivolta alla prevalenza politica delle minoranze, ai ritornelli gender sui diritti dei gay-lesbo-trans, alla tiritera infinita sugli uteri in affitto e cazzi in usucapione». Ha scritto che i vertici militari volevano le dimissioni per il generale. Perché? «La storia di Vannacci non nasce con il libro autoprodotto, perché c’erano già stati duri attriti nell’organigramma militare. Sulla vicenda dell’uranio impoverito Vannacci andò in conflitto con l’ammiraglio Cavo Dragone con tanto di esposto alla Procura, e infatti poi è stato accantonato dietro una scrivania all’Istituto geografico, lui che ha passato una vita in prima linea. E quando esplode la polemica del libro, Cavo Dragone voleva radiarlo dall’esercito». E poi? «C’è stata la moral suasion di Palazzo Chigi per scongiurare il siluramento. E qui nasce il problema politico: Giorgia Meloni non può sconfessare il generale, ma nemmeno difenderlo, né tantomeno rivendicarlo, altrimenti in Italia, ma anche in Europa, la appenderebbero a testa in giù. Il caso Vannacci ha fatto salire in superficie la doppia identità di Fratelli d’Italia, un partito che puntando ad occupare il centro è arrivato al 27%, e non si può permettere più di esprimere i concetti post-missini di quando stava al 4». Quindi? «Il sogno di Meloni è di creare un grande partito conservatore, confinando a destra la Lega e un domani assorbendo Forza Italia. L’obiettivo è quello di ottenere una legittimazione per poter entrare nella stanza dei bottoni della Commissione europea, archiviando i tempi del “boia chi molla” e di Colle Oppio. Per questo su Vannacci non dice nulla: perché altrimenti il passato la trapasserebbe». Vannacci entrerà in politica? «Sotto le stellette del generale Vannacci, ci sono oggi le condizioni perché nasca una formazione, un movimento, un partito alla destra di Fratelli d’Italia. Una creatura politica che porti avanti quelle battaglie della destra sociale che dai meloniani sono state accantonate per ragioni di Realpolitik. Questo può creare al premier dei grossi problemi in vista del voto proporzionale delle Europee. Non a caso Salvini è corso a fare il suo “endorsement” al libro del generale. Insomma: i fasci sono arrivati al pettine, e Vannacci è il fiammifero che ha fatto luce sulle ambiguità del primo partito d’Italia». Pensa davvero che un partito di destra-destra possa avere successo? «Teniamo presente che i voti di Fratelli d’Italia, come quelli degli altri partiti non più ancorati a una ideologia, sono come piuma al vento, e se si rinnega troppo il passato quegli elettori se ne vanno altrove. Una volta da quelle parti c’era la triade Dio Patria e Famiglia, adesso pare sia rimasta solo la Famiglia: la sorella, il cognato, la cugina… ma concentrare il potere in una cerchia ristretta non ha mai pagato. Quando Renzi si chiuse a Palazzo Chigi con il Giglio Magico di Boschi, Lotti e Bonifazi, per lui è stato l’inizio della fine». Lei che è esperto di titoli dissacranti, come titolerebbe sull’estate 2023? «Fiato alle trombe, anzi alle trombate: benvenuti all’estate delle corna. Tutti hanno tradito qualcuno. L’austero Segre cornificato dalla vispa Seymandi, i tifosi della Nazionale abbandonati a un passo dall’altare degli Europei da Mancini, e se Tajani viene cornificato dalla Meloni, Salvini viene infinocchiato da Giorgia. Possiamo pure avere l’intelligenza artificiale che ci sparecchia la tavola e lava i vetri: ma quando spuntano sulla testa estremità a mo’ di cervo, torniamo tutti al Pianeta delle scimmie». Dunque è l’estate dei tradimenti, anche in politica? Se lo dice lei, c’è da fidarsi. «Sugli extraprofitti delle banche la Sora Giorgia ha trattato Tajani peggio di una serva. Proprio lui, l’erede di Silvio Berlusconi, nonché vicepremier e ministro degli Esteri, che s’era sbattuto come un moulinex per introdurre la Ducetta nelle grazie di Manfred Weber, è venuto a conoscenza dell’“esproprio” bancario leggendolo sui giornali». Risultato? «Messo fuori gioco, il “cornuto” Tajani tira calci: sa che dopo l’estate nascerà ufficialmente la corrente capitanata da Licia Ronzulli e comprende che deve subito ritagliarsi una identità diversa da quella di “cameriere” della Ducetta». Intanto Matteo Renzi sogna l’opa su Forza Italia? «Ma no, Matteonzo è solo un rottamatore fallito che briga per restare vivo. Per raggiungere il 4% alle Europee è costretto a fare casino, ma intanto anche quei pochi rimasti di Italia Morta lo stanno mollando al suo destino di senatore semplice di Riad». Dunque? «Il risultato paradossale è che oggi la vera opposizione al governo sta dentro il governo stesso, mentre il vero grande ‘’alleato’’ della Meloni resta la svalvolata con tre passaporti e armocromista allegato». Forse si riferisce, sua personalissima opinione, al segretario del Pd Elly Schlein? «Sì, la signorina sta ammazzando il Pd. Elly è così presa dai diritti queer che passano in secondo piano i problemi delle persone comuni: riuscirò a fare la spesa? Riuscirà mio figlio a trovare lavoro? Riuscirò a fare una radiografia in un ospedale pubblico prima di attendere sei mesi? Risultato: la multigender si sta facendo mettere i piedi sopra dall’azzimato Conte». In autunno che succederà? «La nuova posizione “attiva” di Tajani potrebbe infliggere qualche brutto dispiacere al governo quando a settembre Meloni metterà mano a una finanziaria che sarà di sangue sudore e lacrime. Mancano risorse per quasi 20 miliardi, e tutte le promesse del populismo acchiappa-voti arriveranno al pettine: servono le coperture per la riforma fiscale, le pensioni, la quarta rata del Pnrr, il ponte sullo Stretto, il cuneo eccetera». Troppe aspettative? «Troppa carne al fuoco tutta in una volta. Il presidenzialismo, il premierato, il fisco, la giustizia, le banche. In politica si fa una battaglia per volta. Se apri troppi fronti, ti metti contro il potere vero, quello invisibile». Invisibile? «Il potere è come una patata. Da fuori, un bel tubero tondo. Ma quando lo sradichi dal campo, scopri che ha lunghi filamenti di radici. Ecco, quello è il radicamento del potere, il consolidamento dell’establishment che si sviluppa, non visto ma forte, ramificato. Quel celebre Deep State formato da Consulta, Consiglio di Stato, Corte dei Conti, servizi segreti, Ragioneria, magistratura, etc. E chi non ha radici nei gangli dello Stato, prima o poi, basta un calcetto per farlo volare via. Lo abbiamo visto con Renzi, Salvini, Conte ma anche con Berlusconi». Dunque il potere vero va rispettato? «Come mai il Pd perde da anni le elezioni ma resta sempre radicato negli apparati del potere? Perché nel corso del tempo ha messo le sue radici. Quindi la Meloni family, con i suoi agitati Fazzolari e Donzelli, dovrebbe darsi una bella calmata: metti prima le radici e poi procedi». La telenovela Seymandi-Segre l’ha scoperta lei? «No, io mi sono limitato a postare un pezzo di Torino Cronaca e montarci sopra la maionese. Quando, il giorno dopo, è arrivato il video del party, la notizia è esplosa». Chi ha ragione? «Ah, saperlo. La verità è un punto di vista. Cosa sono le corna se non la definitiva negazione sessuale del partner? Da Otello di Shakespeare a Ed io tra di noi di Aznavour, il tradimento è una forma di follia che colpisce l’identità di tutti, ricchi e poveri, colti e ignoranti. Potremo pure andare su Marte, ma quando spuntano le corna torniamo tutti alla clava».
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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