2023-11-12
«Riscopriamo la bellezza facendo un viaggio nel nostro giardino»
Uno scatto di Roberto Besana e, nel riquadro, l'autore
Il fotografo Roberto Besana: «Con il bianco e nero comunico al meglio il mio guardare il mondo. Ho sempre subito il fascino dell’ambiente che mi circonda».Roberto Besana (Monza, 1954) è un fotografo amabilmente in pensione. La sua prima vita è stata spesa in editoria, lavorando per giornali e case editrici fino a diventare direttore generale della De Agostini. Una lunga amicizia lo ha legato al giornalista Pietro Greco, scomparso nel 2020, al quale ha dedicato tre pubblicazioni, accompagnate dalle proprie fotografie in bianco e nero e col contributo di molti scrittori, poeti, artisti, ambientalisti e intellettuali: L’albero (2020), Il paesaggio (2021) e L’acqua (2023), tutti pubblicati dall’editore Töpffer. Dopo il disastro che ha abbattuto quattordici milioni di alberi nell’ottobre del 2018, Besana ha attraversato i territori colpiti scattando le fotografie della mostra I segni di Vaia, in mostra nel 2022 al Museo degli usi e costumi della gente trentina e successivamente esposta a Forlì, presso l’associazione Nuova civiltà delle macchine. Camminatore, spesso è in visita in luoghi naturali accompagnato dal suo cane. Vive a La Spezia.L’arte dello scolpire con la luce, ovvero la fotografia: anzitutto perché ha scelto il bianco e nero? «Perché è il necessario e più immediato collegamento tra la luce che disegna le forme, i segni, e sviluppa la profondità dell’essere materia nella «realtà «celata dalle ombre. L’essenzialità del guardare senza distrazioni o interpretazioni che al contrario genera il cromatismo del colore; il bianconero con tutte le sfumature dei grigi della e nella purezza del disegno e del tratto che questa modalità visiva permette di presentare e comunicare al meglio il proprio guardare il mondo».Negli ultimi anni ha scattato molte fotografie partendo da elementi naturali quali l’albero, il paesaggio e l’acqua: a che cosa è dovuta questa scelta?«Ogni fotografo, al pari di qualunque artista o comunicatore, ha un substrato di passioni, interessi, cultura, esperienze e studi via via accumulatisi nel tempo della vita; una sorta di substrato “geologico” di base che è portato ad essere rappresentato, alle volte inconsapevolmente. Ho sempre subito il fascino della bellezza e della potenza narrativa dell’ambiente naturale che mi circonda, dello studio scientifico dei boschi e delle montagne, non è un caso che da giovane ho studiato geologia, ed è per questo che con “naturalezza” siano divenuti i temi della mia ricerca: i “segni” che l’uomo lascia col suo vivere sul Pianeta».Come sta l’editoria? Sarebbe un professionista felice e appagato nell’odierno skyline dell’editoria italiana?«Ho vissuto quasi tutta la mia esperienza lavorativa in editoria con la carta quale elemento fondamentale con cui trasferire il sapere. Oggi, in una società dove le immagini prevalgono sulla parola, può far riflettere il fatto che il libro fotografico e le riviste cartacee che hanno nella fotografia la loro forza espressiva e comunicativa siano destinate all’estinzione. Troppi sono i cambiamenti tecnologici e comunicativi intervenuti negli ultimi anni, una continua e rapida evoluzione, per fare un raffronto utile con la mia epoca. Non va dimenticato il fatto che “il numero” e la crescita prevaricano sempre più qualunque valutazione contenutistica, per cui il valore di uno scritto, di un autore, di un tema, è legato principalmente alla resa economica che può dare all’editore. Se dovessi formulare una valutazione, prenderei spunto da una riflessione dell’amico Claudio Lucchin, per ribadire quanto appaia consolidato il fatto che nella società si stia affermando l’abitudine per cui “il pensiero rischia sempre più di divenire un’indispensabile necessità sempre meno richiesta o, forse, per alcuni non più indispensabile”; l’editoria segue di conseguenza». Impossibile non parlare di Vaia: che cosa ha scoperto attraversando i luoghi dopo il disastro?«Ho avuto la conferma che la vista e l’udito sono i sensi che più velocemente raggiungono la mente e il cuore, più della parola rimangono impressi nella memoria. Camminando nello stesso anno dell’evento e in quelli successivi nei boschi abbattuti, e potendo toccare con mano, riprendendo fotograficamente quasi in tempo reale, mi ha permesso di rafforzare una consapevolezza dei fatti che ho riassunto con le immagini. La fotografia scuote il cuore, l’anima di chiunque non ha potuto vedere né vagare per i versanti e le valli, ammutolito come me, incredulo e tristemente consapevole che siamo di fronte alla necessità di comprendere e condividere quanto la scienza ci dice da tempo: l’equilibrio ambientale si sta rompendo, si accelerano i fenomeni dirompenti. Abbiamo scelto una vita dispendiosa in termini di energia, suolo, risorse, e diviene per noi che parliamo attraverso le immagini, un’attività indispensabile l’impegnarci nel raccontare e cercare di mantenere l’attenzione su quanto sta succedendo all’ambiente in cui viviamo».Lei è anche un curioso camminatore. Ci può raccontare uno dei luoghi che ha visitato ultimamente?«Ogni luogo che visito merita di essere raccontato fotograficamente, magari per le sensazioni che rimangono impresse. Potrei anche proporre il magnifico “resto” quasi primordiale di bosco di pini del litorale di Fano, o le Gole del Furlo coi segni degli scalpelli usati dagli antichi Romani per scavarne una via, e come non trovare spazio per il racconto delle realtà agricole della campagna marchigiana di Cingoli e del paesaggio che hanno modificato nei secoli. Oppure potremmo scoprire un tesoro dell’arte dell’uomo nel museo di epoca romana dei Bronzi di Pergola. Mi piace ricordare alle persone che si interessano d’immagine di fare un viaggio e di guardare nel proprio cortile per imparare a raccogliere gli spunti, le curiosità, le forme a cui raramente diamo attenzione poiché sembrano abituali. Propongo di applicare al nostro vivere convulso una sorta di lentezza, per scoprire la bellezza e l’interesse senza dover viaggiare verso mete “esotiche” di cui sovente non conosciamo l’ubicazione. Pietro Greco mi raccontava di come, durante il periodo di “reclusione” per il Covid, abbia potuto riavvicinarsi con un nuovo sguardo al “vicino” ambiente di vita, all’esistenza riscoperta col passeggiare nel giardino della sua casa di Ischia, un lento guardare delle stagioni, la vita nella natura, le proprie riflessioni».
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