2020-07-28
Rimosso il capo dei militari infedeli. L’ex comandante invece è al ministero
(Marco Mantovani/Getty Images)
Il colonnello Stefano Savo punito per non aver vigilato sulla caserma di Piacenza. Il predecessore, Michele Piras, è nello staff di Paola De Micheli.Quella stessa caserma del Comando stazione carabinieri Piacenza Levante che ora è stata «cordonata», così in gergo militare viene definita l'operazione che mette in sicurezza tattica un'area contro infiltrazioni nemiche, un tempo era considerata nella catena di comando il fiore all'occhiello del Comando provinciale. E mentre con il «modus operandi criminale» scoperto dai magistrati, che era diventato, per dirla come il giudice che ha privato della libertà i sei carabinieri indagati, sequestrato la caserma, messo sotto vigilanza altri due e dato l'obbligo di dimora a un ufficiale, «prassi ordinaria di gestione, quanto meno di parte della quotidianità lavorativa», i militari passavano per grandi investigatori impegnati nella lotta allo spaccio di droga. In realtà, si è scoperto, facevano sparire parte della roba sequestrata per pagarci le gole profonde che gli permettevano di arrestare i pusher, condurre una vita molto al di sopra delle loro possibilità e ingaggiare escort per le orge nell'ufficio del maresciallo. La finalità, oltre a divertirsi da veri lavativi, sporcando una divisa considerata dai carabinieri sacra, era quella di «aumentare la produttività, intesa come numero di arresti». E di arresti ne facevano tanti quelli della Levante. Tutti di piccoli pusher. Con quelle operazioni che piacciono tanto alla catena di comando perché danno l'impressione che l'Arma sia presente sul territorio. «Polizia di prossimità», la chiamano in slang investigativo. Poi, in realtà, hanno accertato i magistrati, quelle attività operative «non erano sostenute da indagini articolate e complesse». La squadriglia dell'appuntato Peppe Montella, però, funzionava. Era produttiva. Lo confermano le parole del maresciallo Marco Orlando, che quella stazione la comandava prima di finire ai domiciliari, all'uscita, ieri, dal suo interrogatorio di garanzia, durante il quale ha fatto scena muta: «Dopo 30 anni di onorata carriera secondo voi come si può stare? Non ho mai avuto una sanzione disciplinare in 30 anni, le mie note caratteristiche sono eccellenti, quindi sapete come posso stare». Tant'è che nel 2018, durante la cerimonia per i 204 anni dalla fondazione dell'Arma, si è consumata l'ennesima profanazione: per quelli della Levante arrivò un encomio solenne. Una ricompensa prevista dal regolamento di disciplina militare. Una lode particolare per il rendimento in servizio che viene pubblicata perfino nell'ordine del giorno del corpo, delle unità e dei comandi superiori, affinché sia da esempio a tutti. E «per essersi distinti per il ragguardevole impegno operativo e istituzionale e per i risultati conseguiti soprattutto nell'attività di contrasto al fenomeno dello spaccio di sostanze stupefacenti», il comandante della Legione carabinieri Emilia Romagna, colonnello Corrado Scattaretico (promosso poi nel settembre del 2018 a Roma come vice capo ufficio del vicecomandante generale dell'Arma), premiò i militari della caserma che «sdrumavano» gli spacciatori. Accertamenti interni all'istituzione potrebbero riguardare anche i tre comandanti provinciali che si sono avvicendati negli ultimi tre anni: i colonnelli Scattaretico, Michele Piras e Stefano Savo, che non risulta si siano accorti di ciò che accadeva alla Levante. Ma, proprio come Scattaretico, anche Piras viene promosso: dopo solo un anno da comandante provinciale a Piacenza lascia per diventare capo della segreteria del ministro Paola De Micheli al dicastero delle Infrastrutture e dei Trasporti. I magistrati hanno affibbiato quattro capi d'imputazione ai suoi uomini datati proprio nel periodo della sua reggenza. Provvedimenti, invece, sono scattati per l'ultima catena di comando: Savo, il comandante del Reparto operativo, Marco Iannucci, e quello del Nucleo investigativo, Giuseppe Pischedda, saranno assegnati ad altri ruoli. Quelli che i militari chiamano i «pignoli», ovvero coloro che dovrebbero controllare ciò che accade tra la truppa, non avrebbero avuto alcun sentore di quanto stavano combinando i «lavativi» della Levante. E per verificare se punizioni o annotazioni di sospetti sono finite nei fascicoli «P», quelli per le «Pratiche permanenti», ovvero gli ex «fascicoli personali», gli investigatori della Guardia di finanza e quelli della polizia locale, coordinati dal procuratore Grazia Pradella, anche ieri hanno rovistato nei cassetti degli archivi della caserma. In realtà un'occasione, apparentemente blanda, di approfondimento c'è anche stata. Fu il colonnello Savo, dopo l'ennesimo arresto, a telefonare al maresciallo Orlando. I magistrati quella intercettazione la riassumono così: «L'ufficiale superiore chiedeva se il soggetto arrestato si fosse consegnato oppure se il suo arresto fosse nato da un'attività investigativa (“Quello lì si è voluto consegnare o era un'attività che avevate in corso?")». Alla domanda, Orlando rispondeva, «affermando falsamente», annotano i magistrati, «che l'intervento era stato eseguito dopo un servizio di osservazione organizzato a seguito della ricezione di un'informazione riguardante un nigeriano potenziale spacciatore». Il colonnello incalzò: «Quindi era costruita, so bene, umh!». E Orlando replicò «dicendo che l'attività non era proprio costruita, perché, in realtà, i militari stavano investigando sullo spacciatore già da diverso tempo in virtù dell'informazione rivelatasi attendibile». Il nigeriano era stato pestato e arrestato per detenzione di marijuana. Insomma, forse, qualche esalazione dalle mele marce della Levante cominciava ad arrivare verso i piani più alti della Territoriale dell'Arma.
L'ex amministratore delegato di Mediobanca Alberto Nagel (Imagoeconomica)
Giorgia Meloni ad Ancona per la campagna di Acquaroli (Ansa)
«Nessuno in Italia è oggetto di un discorso di odio come la sottoscritta e difficilmente mi posso odiare da sola. L'ultimo è un consigliere comunale di Genova, credo del Pd, che ha detto alla capogruppo di Fdi «Vi abbiamo appeso a testa in giù già una volta». «Calmiamoci, riportiamo il dibattito dove deve stare». Lo ha detto la premier Giorgia Meloni nel comizio di chiusura della campagna elettorale di Francesco Acquaroli ad Ancona. «C'é un business dell'odio» ha affermato Giorgia Meloni. «Riportiamo il dibattito dove deve stare. Per alcuni è difficile, perché non sanno che dire». «Alcuni lo fanno per strategia politica perché sono senza argomenti, altri per tornaconto personale perché c'e' un business dell'odio. Le lezioni di morale da questi qua non me le faccio fare».
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