True
2021-01-25
Se non volete rimborsare le imprese almeno fatele riaprire (in sicurezza)
Ansa
La verità è più semplice di quanto sembri. I danni provocati all'economia dal Covid 19 sono enormi, disastrosi, in taluni casi irreversibili e irrecuperabili. Questo nonostante i vaticini ripetuti dal ministro dell'Economia, Roberto Gualtieri: «Nessuno perderà il posto per colpa del coronavirus», o altri del tipo: «Nessuno sarà lasciato indietro». Evidentemente non ha funzionato e questa non è un'opinione, è una certezza. I conti non tornano. Riassumiamoli per semplicità.
Il 31 marzo del 2021 scadrà il termine al blocco dei licenziamenti e Confindustria stima che dopo il blocco dovremmo avere circa un milione di nuovi disoccupati. Tra l'altro da tempo Confindustria avverte che più si allontana lo sblocco e più avremo conseguenze peggiori. Del resto non è difficile a capirsi: con fatturati ridotti, aiuti inconsistenti e impossibilità di licenziare, molte imprese saranno costrette a chiudere perché hanno speso tutti i loro risparmi (in banca di soldi non gliene danno), e altre strade non ce ne sono. Basterebbe aver passato un mesetto in una impresa e tutto questo risulterebbe estremamente chiaro. Certo, è meno chiaro per chi di mondo delle imprese non sa nulla, salvo due o tre slogan imparati a pappagallo.
Intanto 654.000 persone il posto di lavoro l'hanno già perso, lavoratori a tempo determinato o lavoratori autonomi, oltre ai 200.000 professionisti che hanno cessato l'attività. Le assunzioni nel settore privato sono diminuite del 31%: chiara conseguenza del blocco delle attività. In tutto questo, quello che prima era una separazione è diventata una voragine. E cioè quella che separa i lavoratori del settore pubblico da quelli del settore privato. I garantiti, sempre e comunque, e i non garantiti, mai. Qualcuno potrebbe obiettare che chi decide di mettere su un'attività in proprio deve essere consapevole che si assume tutti i rischi del caso. Si chiama sistema capitalistico perché l'imprenditore anticipa i capitali dell'attività prima di cominciare e, quindi, senza nessuna certezza che l'impresa andrà a buon fine. D'accordo, ma se tu mi vieti di proseguire la mia attività, se tu mi impedisci di aprire la mia attività di pubblico esercizio, per motivi di tutela della salute pubblica, tu devi anche preoccuparti che io possa continuare a campare e se non vuoi che si crei disoccupazione devi fare come negli Usa, dove hanno messo a disposizione fondi perché le imprese mantengano i livelli occupazionali. Insomma: non ci sono altri modi per evitare il disastro economico. Ce n'è solo uno: aiutare le imprese a non fallire perché è da loro che vengono la produzione, il lavoro, il reddito e, quindi, anche il consumo. Il circolo è questo, inutile provare a farlo quadrato.
Quest'anno il numero dei percettori del reddito di cittadinanza arriverà a 4 milioni, un milione in più del numero raggiunto nel 2020. Noi non siamo di quelli che ritengono che non debba esserci un sistema di protezione sociale per chi, soprattutto a una certa età, rimane senza reddito dalla sera alla mattina. È un dovere sociale assicurare a tutti il minimo essenziale per campare. Lo sostenevano anche liberisti come Milton Friedman o Friedrich August von Hayek. Ma l'obiettivo dichiarato era quello di dare un sollievo temporaneo e aiutare, nel frattempo, le persone a rientrare nel mondo del lavoro. Ebbene, quelli che lavorano, secondo le stime dell'Inps, sono appena 200.000. Cioè non ha funzionato. Perché la dignità di una persona viene dal lavoro, non dai sussidi, e il lavoro viene dalle imprese, e il governo questa cosa non la vuol capire. Dice cifre roboanti che se poi vengono divise per il numero dei destinatari risultano ridicole.
Le direzioni di marcia non possono essere che due: consentire ad alcune attività di riaprire al più presto nel rispetto dei distanziamenti sociali vari (piscine e palestre, solo per esempio, delle quali, solo in Lombardia, chiuderà, secondo Confartigianato, il 35%). E soldi alle imprese sui conti correnti. Siccome la seconda misura è improbabile che venga messa in campo, perché se ci fosse stata la volontà di farlo, e soprattutto la competenza per farlo, potrebbe essere già stata presa, rimane la seconda alternativa, che deve essere presa con urgenza. Gli epidemiologi non devono fare terrorismo, devono indicare strade oltre la semplice chiusura per la riapertura delle attività economiche. Vadano un po' meno in televisione e studino queste misure. E in fretta.
La vera crisi è la nostra ma se ne sono dimenticati
Dopo quasi due mesi passati a esaminare curriculum, don Ivano Brambilla, parroco di Cortina d'Ampezzo, si prepara a scegliere il nuovo sacrestano della chiesa dei Santi Filippo e Giacomo. Paziente come Giobbe, ha vagliato la sbalorditiva mole di domande arrivate: 720. Ragazzi, padri, signore, universitari, diplomati, laureati. Disoccupati, soprattutto. «Disperati che non sanno più dove sbattere la testa per mantenere le famiglie», ammette don Ivano. Perché quelli con sincera vocazione sono un manipolo, ci racconta. Il resto sono uomini e donne stremati dal Covid che, dalla Sicilia alla Valtellina, sperano in un ormai chimerico posto fisso: 1.300 euro al mese, in servizio le domeniche e i festivi, tredicesima e quattordicesima.
«La prego, scriva che sono chiuse le candidature», implora il prete. «Non ha idea delle mail disperate che continuano a mandarci». Con il cuore appesantito da quelle centinaia di richieste d'aiuto, il parroco adesso deve decidere chi sarà il fortunato a cui affidare le chiavi della sua chiesa. Ma continua a crucciarsi: «E a tutti gli altri chi penserà?».
Già. Eppure, anche ai 719 aspiranti sacrestani sulle Dolomiti il governo aveva promesso un futuro senza patemi. Il ministro dell'Economia, Roberto Gualtieri, illustre storico marxista, da mesi va rasserenando gli animi. Dallo scorso aprile, reitera il dogma: «Nessuno perderà il posto per colpa del coronavirus». Tranquilli, quindi: «Non sarà lasciato indietro nessuno». Ed eccoci qui, invece, a piantare croci sul pregresso e fare il segno della croce per il futuro. Da quando la pandemia è arrivata in Italia, 7 milioni di persone sono rimaste almeno qualche settimana senza lavoro: quasi 1 su 3.
rischio disoccupati
Solo il blocco dei licenziamenti ha evitato, calcola Bankitalia, 600.000 nuovi disoccupati. La misura è garantita fino al 31 marzo, salvo ulteriori proroghe. A quel punto, avverte Confindustria, si rischia almeno 1 milione di disoccupati. Più si ritarda il rientro alla normalità, ripetono gli imprenditori, e peggiori saranno le conseguenze. Intanto, 654.000 persone il posto l'hanno già perso: lavoratori autonomi o a tempo determinato, come i giovani impiegati negli alberghi e nei ristoranti. L'angosciante numero, diffuso dal Censis, sembra però non fare statistica. Così come quello dei 200.000 professionisti che hanno smesso di esercitare. Per non parlare di chi vivacchiava con i lavoretti in nero: ben 5 milioni, un esercito di invisibili che ha finito per inabissarsi senza far rumore.
Il crollo dei contratti a termine rientra invece nel calo degli occupati. L'ultimo, funereo, dato l'ha appena diffuso l'Inps: a ottobre 2020, rispetto a un anno prima, sono stati bruciati 662.000 impieghi. Le assunzioni nel settore privato sono diminuite, nello stesso periodo, del 31%. Vola nel mentre il numero dei percettori del reddito di cittadinanza: si stima che quest'anno arriveranno a 4 milioni, 1 milione in più del picco raggiunto nel 2020. Ma fra questi, aggiunge l'istituto previdenziale, lavoravano appena in 200.000. Dunque, come ampiamente previsto, il trionfante «abbiamo abolito la povertà», scandito dall'allora ministro dello Sviluppo oggi promosso alla Farnesina, insomma Luigino Di Maio, andrebbe riformulato nel meno consolante «abbiamo abolito il lavoro».
Paradigmatica come la storia dei sacrestani a Cortina, è quella dei rider. C'eravamo abituati, prima della pandemia, a vederli pedalare in sella a biciclette scassate su e giù dai marciapiedi delle città, con quei cubi di plastica fluorescenti penzolanti dalle spalle. Qualche giovane, molti immigrati, tanti clandestini. Era il part time dei ragazzi che volevano alzare qualche euro e di quelli che non avevano altra scelta. Adesso però, con la crisi, vengono arruolati insospettabili che mai avrebbero pensato di riciclarsi come fattorini. Padri di famiglia, lindi e profumati, a bordo di utilitarie. Professionisti a partita Iva, uccellati dal governo con i rimborsi fantasma, nella stremante attesa che passi la buriana. E pure artisti di fama, come il jazzista Adriano Urso, virtuoso del piano che il virus aveva costretto a riconvertirsi al delivery. È morto d'infarto a 40 anni, durante il giro serale delle consegne, mentre spingeva la sua automobilina d'epoca che non ne voleva sapere di ripartire.
tutti a fare i rider
Insomma, se poco prima del Covid erano più di 15.000, i rider oggi sono raddoppiati. Guadagno medio mensile: 850 euro. Nel frattempo quasi 400.000 imprese, denuncia Confcommercio, sono sparite: l'80% a causa del Covid. E il peggio deve arrivare. Solo in Brianza, una delle aree più produttive del Paese, l'associazione stima ad esempio che, tra gli iscritti, 8 ristoratori o esercenti pubblici su 10 temono di non riaprire. Confartigianato aggiunge che in Lombardia il 35% di palestre e piscine rischia di mettere fine all'agonia. Altro esempio: la moda maschile italiana ha già bruciato quasi 2 miliardi di ricavi. È fallita Rifle, storica azienda di jeans fiorentina. E, solo per restare nel denim, è fallita pure la bolognese Jeckerson. Strano. Gualtieri, all'inizio di settembre, parlava di una crescita economica «impetuosa» che sarebbe arrivata nel terzo trimestre. E il 13 ottobre scorso, dunque appena tre mesi fa, il nostro premier, Giuseppe Conte, garantiva: «L'economia sta ricominciando a correre».
Invece, la valanga è appena iniziata. In attesa del consuntivo dell'Istat per il 2020, l'analisi di Veneto Lavoro sembra anticipare la disfatta. Tra mancate assunzioni e rapporti cessati, nella regione sono stati persi 38.000 posti. Mentre in Lombardia la Cisl ha calcolato che, solo nei primi sei mesi del 2020, il virus ha cancellato 110.000 impieghi. I più penalizzati sono, oltre alle donne, sempre i giovani. La Commissione europea, nel suo ultimo rapporto, scrive: aumentano in tutta Europa quelli che non lavorano e non studiano. Fin qui, nulla di sorprendente. Peccato che l'Italia, nel secondo trimestre del 2020, conquisti l'ennesimo e disonorevole primato: i ragazzi inattivi sono 20,7%. Segue, ben distanziata, la Bulgaria: 15,2%.
Per non parlare delle già considerevoli differenze territoriali. Un dossier di Confindustria e del centro studi di Intesa Sanpaolo rivela che il Covid ha perfino accentuato lo storico e incolmabile divario tra Nord e Sud. E il fantomatico «rimbalzo», come ama chiamarlo Gualtieri, nel 2021 sarebbe diversissimo: un ridicolo 1,2% nel Meridione, contro un modesto 4,5% nel resto d'Italia. Allegri, però. Premier e ministro, pure stavolta, hanno l'asso nella manica: i 222 miliardi del Recovery fund. «Il Sud sarà l'avamposto della crescita», promette Giuseppi, che per la verità di posti, o meglio poltrone, se ne intende più di tutti.
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Quest'anno avremo un milione in più di percettori di reddito di cittadinanza. Le assunzioni sono colate a picco (-31%). E intanto s'aggrava la frattura tra garantiti (della Pa) e non garantiti (coloro che operano nel privato).Nessuno perderà il posto: così promise Roberto Gualtieri. Invece sono già andati in fumo 662.000 impieghi. E quando a marzo finirà lo stop ai licenziamenti...Lo speciale contiene due articoli.La verità è più semplice di quanto sembri. I danni provocati all'economia dal Covid 19 sono enormi, disastrosi, in taluni casi irreversibili e irrecuperabili. Questo nonostante i vaticini ripetuti dal ministro dell'Economia, Roberto Gualtieri: «Nessuno perderà il posto per colpa del coronavirus», o altri del tipo: «Nessuno sarà lasciato indietro». Evidentemente non ha funzionato e questa non è un'opinione, è una certezza. I conti non tornano. Riassumiamoli per semplicità.Il 31 marzo del 2021 scadrà il termine al blocco dei licenziamenti e Confindustria stima che dopo il blocco dovremmo avere circa un milione di nuovi disoccupati. Tra l'altro da tempo Confindustria avverte che più si allontana lo sblocco e più avremo conseguenze peggiori. Del resto non è difficile a capirsi: con fatturati ridotti, aiuti inconsistenti e impossibilità di licenziare, molte imprese saranno costrette a chiudere perché hanno speso tutti i loro risparmi (in banca di soldi non gliene danno), e altre strade non ce ne sono. Basterebbe aver passato un mesetto in una impresa e tutto questo risulterebbe estremamente chiaro. Certo, è meno chiaro per chi di mondo delle imprese non sa nulla, salvo due o tre slogan imparati a pappagallo.Intanto 654.000 persone il posto di lavoro l'hanno già perso, lavoratori a tempo determinato o lavoratori autonomi, oltre ai 200.000 professionisti che hanno cessato l'attività. Le assunzioni nel settore privato sono diminuite del 31%: chiara conseguenza del blocco delle attività. In tutto questo, quello che prima era una separazione è diventata una voragine. E cioè quella che separa i lavoratori del settore pubblico da quelli del settore privato. I garantiti, sempre e comunque, e i non garantiti, mai. Qualcuno potrebbe obiettare che chi decide di mettere su un'attività in proprio deve essere consapevole che si assume tutti i rischi del caso. Si chiama sistema capitalistico perché l'imprenditore anticipa i capitali dell'attività prima di cominciare e, quindi, senza nessuna certezza che l'impresa andrà a buon fine. D'accordo, ma se tu mi vieti di proseguire la mia attività, se tu mi impedisci di aprire la mia attività di pubblico esercizio, per motivi di tutela della salute pubblica, tu devi anche preoccuparti che io possa continuare a campare e se non vuoi che si crei disoccupazione devi fare come negli Usa, dove hanno messo a disposizione fondi perché le imprese mantengano i livelli occupazionali. Insomma: non ci sono altri modi per evitare il disastro economico. Ce n'è solo uno: aiutare le imprese a non fallire perché è da loro che vengono la produzione, il lavoro, il reddito e, quindi, anche il consumo. Il circolo è questo, inutile provare a farlo quadrato.Quest'anno il numero dei percettori del reddito di cittadinanza arriverà a 4 milioni, un milione in più del numero raggiunto nel 2020. Noi non siamo di quelli che ritengono che non debba esserci un sistema di protezione sociale per chi, soprattutto a una certa età, rimane senza reddito dalla sera alla mattina. È un dovere sociale assicurare a tutti il minimo essenziale per campare. Lo sostenevano anche liberisti come Milton Friedman o Friedrich August von Hayek. Ma l'obiettivo dichiarato era quello di dare un sollievo temporaneo e aiutare, nel frattempo, le persone a rientrare nel mondo del lavoro. Ebbene, quelli che lavorano, secondo le stime dell'Inps, sono appena 200.000. Cioè non ha funzionato. Perché la dignità di una persona viene dal lavoro, non dai sussidi, e il lavoro viene dalle imprese, e il governo questa cosa non la vuol capire. Dice cifre roboanti che se poi vengono divise per il numero dei destinatari risultano ridicole.Le direzioni di marcia non possono essere che due: consentire ad alcune attività di riaprire al più presto nel rispetto dei distanziamenti sociali vari (piscine e palestre, solo per esempio, delle quali, solo in Lombardia, chiuderà, secondo Confartigianato, il 35%). E soldi alle imprese sui conti correnti. Siccome la seconda misura è improbabile che venga messa in campo, perché se ci fosse stata la volontà di farlo, e soprattutto la competenza per farlo, potrebbe essere già stata presa, rimane la seconda alternativa, che deve essere presa con urgenza. Gli epidemiologi non devono fare terrorismo, devono indicare strade oltre la semplice chiusura per la riapertura delle attività economiche. Vadano un po' meno in televisione e studino queste misure. E in fretta.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/rimborsare-imprese-almeno-riaprire-sicurezza-2650121942.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-vera-crisi-e-la-nostra-ma-se-ne-sono-dimenticati" data-post-id="2650121942" data-published-at="1611571546" data-use-pagination="False"> La vera crisi è la nostra ma se ne sono dimenticati Dopo quasi due mesi passati a esaminare curriculum, don Ivano Brambilla, parroco di Cortina d'Ampezzo, si prepara a scegliere il nuovo sacrestano della chiesa dei Santi Filippo e Giacomo. Paziente come Giobbe, ha vagliato la sbalorditiva mole di domande arrivate: 720. Ragazzi, padri, signore, universitari, diplomati, laureati. Disoccupati, soprattutto. «Disperati che non sanno più dove sbattere la testa per mantenere le famiglie», ammette don Ivano. Perché quelli con sincera vocazione sono un manipolo, ci racconta. Il resto sono uomini e donne stremati dal Covid che, dalla Sicilia alla Valtellina, sperano in un ormai chimerico posto fisso: 1.300 euro al mese, in servizio le domeniche e i festivi, tredicesima e quattordicesima. «La prego, scriva che sono chiuse le candidature», implora il prete. «Non ha idea delle mail disperate che continuano a mandarci». Con il cuore appesantito da quelle centinaia di richieste d'aiuto, il parroco adesso deve decidere chi sarà il fortunato a cui affidare le chiavi della sua chiesa. Ma continua a crucciarsi: «E a tutti gli altri chi penserà?». Già. Eppure, anche ai 719 aspiranti sacrestani sulle Dolomiti il governo aveva promesso un futuro senza patemi. Il ministro dell'Economia, Roberto Gualtieri, illustre storico marxista, da mesi va rasserenando gli animi. Dallo scorso aprile, reitera il dogma: «Nessuno perderà il posto per colpa del coronavirus». Tranquilli, quindi: «Non sarà lasciato indietro nessuno». Ed eccoci qui, invece, a piantare croci sul pregresso e fare il segno della croce per il futuro. Da quando la pandemia è arrivata in Italia, 7 milioni di persone sono rimaste almeno qualche settimana senza lavoro: quasi 1 su 3. rischio disoccupati Solo il blocco dei licenziamenti ha evitato, calcola Bankitalia, 600.000 nuovi disoccupati. La misura è garantita fino al 31 marzo, salvo ulteriori proroghe. A quel punto, avverte Confindustria, si rischia almeno 1 milione di disoccupati. Più si ritarda il rientro alla normalità, ripetono gli imprenditori, e peggiori saranno le conseguenze. Intanto, 654.000 persone il posto l'hanno già perso: lavoratori autonomi o a tempo determinato, come i giovani impiegati negli alberghi e nei ristoranti. L'angosciante numero, diffuso dal Censis, sembra però non fare statistica. Così come quello dei 200.000 professionisti che hanno smesso di esercitare. Per non parlare di chi vivacchiava con i lavoretti in nero: ben 5 milioni, un esercito di invisibili che ha finito per inabissarsi senza far rumore. Il crollo dei contratti a termine rientra invece nel calo degli occupati. L'ultimo, funereo, dato l'ha appena diffuso l'Inps: a ottobre 2020, rispetto a un anno prima, sono stati bruciati 662.000 impieghi. Le assunzioni nel settore privato sono diminuite, nello stesso periodo, del 31%. Vola nel mentre il numero dei percettori del reddito di cittadinanza: si stima che quest'anno arriveranno a 4 milioni, 1 milione in più del picco raggiunto nel 2020. Ma fra questi, aggiunge l'istituto previdenziale, lavoravano appena in 200.000. Dunque, come ampiamente previsto, il trionfante «abbiamo abolito la povertà», scandito dall'allora ministro dello Sviluppo oggi promosso alla Farnesina, insomma Luigino Di Maio, andrebbe riformulato nel meno consolante «abbiamo abolito il lavoro». Paradigmatica come la storia dei sacrestani a Cortina, è quella dei rider. C'eravamo abituati, prima della pandemia, a vederli pedalare in sella a biciclette scassate su e giù dai marciapiedi delle città, con quei cubi di plastica fluorescenti penzolanti dalle spalle. Qualche giovane, molti immigrati, tanti clandestini. Era il part time dei ragazzi che volevano alzare qualche euro e di quelli che non avevano altra scelta. Adesso però, con la crisi, vengono arruolati insospettabili che mai avrebbero pensato di riciclarsi come fattorini. Padri di famiglia, lindi e profumati, a bordo di utilitarie. Professionisti a partita Iva, uccellati dal governo con i rimborsi fantasma, nella stremante attesa che passi la buriana. E pure artisti di fama, come il jazzista Adriano Urso, virtuoso del piano che il virus aveva costretto a riconvertirsi al delivery. È morto d'infarto a 40 anni, durante il giro serale delle consegne, mentre spingeva la sua automobilina d'epoca che non ne voleva sapere di ripartire. tutti a fare i rider Insomma, se poco prima del Covid erano più di 15.000, i rider oggi sono raddoppiati. Guadagno medio mensile: 850 euro. Nel frattempo quasi 400.000 imprese, denuncia Confcommercio, sono sparite: l'80% a causa del Covid. E il peggio deve arrivare. Solo in Brianza, una delle aree più produttive del Paese, l'associazione stima ad esempio che, tra gli iscritti, 8 ristoratori o esercenti pubblici su 10 temono di non riaprire. Confartigianato aggiunge che in Lombardia il 35% di palestre e piscine rischia di mettere fine all'agonia. Altro esempio: la moda maschile italiana ha già bruciato quasi 2 miliardi di ricavi. È fallita Rifle, storica azienda di jeans fiorentina. E, solo per restare nel denim, è fallita pure la bolognese Jeckerson. Strano. Gualtieri, all'inizio di settembre, parlava di una crescita economica «impetuosa» che sarebbe arrivata nel terzo trimestre. E il 13 ottobre scorso, dunque appena tre mesi fa, il nostro premier, Giuseppe Conte, garantiva: «L'economia sta ricominciando a correre». Invece, la valanga è appena iniziata. In attesa del consuntivo dell'Istat per il 2020, l'analisi di Veneto Lavoro sembra anticipare la disfatta. Tra mancate assunzioni e rapporti cessati, nella regione sono stati persi 38.000 posti. Mentre in Lombardia la Cisl ha calcolato che, solo nei primi sei mesi del 2020, il virus ha cancellato 110.000 impieghi. I più penalizzati sono, oltre alle donne, sempre i giovani. La Commissione europea, nel suo ultimo rapporto, scrive: aumentano in tutta Europa quelli che non lavorano e non studiano. Fin qui, nulla di sorprendente. Peccato che l'Italia, nel secondo trimestre del 2020, conquisti l'ennesimo e disonorevole primato: i ragazzi inattivi sono 20,7%. Segue, ben distanziata, la Bulgaria: 15,2%. Per non parlare delle già considerevoli differenze territoriali. Un dossier di Confindustria e del centro studi di Intesa Sanpaolo rivela che il Covid ha perfino accentuato lo storico e incolmabile divario tra Nord e Sud. E il fantomatico «rimbalzo», come ama chiamarlo Gualtieri, nel 2021 sarebbe diversissimo: un ridicolo 1,2% nel Meridione, contro un modesto 4,5% nel resto d'Italia. Allegri, però. Premier e ministro, pure stavolta, hanno l'asso nella manica: i 222 miliardi del Recovery fund. «Il Sud sarà l'avamposto della crescita», promette Giuseppi, che per la verità di posti, o meglio poltrone, se ne intende più di tutti.
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
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Merito-Dicembre-2025.pdf
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