2021-03-24
Rileggere Guy Debord contro le balle su voto a 16 anni e cittadinanza facile
Guy Debord (Getty images=
Il pensatore francese è l’antidoto alle «battaglie di civiltà» di una sinistra scollegata dal proprio elettorato In un’Europa senza storia, slabbrata da conflitti sociali, l’immigrazione incontrollata può diventare letaleEra il 1998 e Nanni Moretti, disperato, si rivolgeva all’uomo che occupava lo schermo televisivo: «D’Alema, di’ una cosa di sinistra!». Per comprendere in profondità quanto siano mutati i progressisti da allora, non bisogna fare altro che risolvere una semplice questione: qual è, oggi, una «cosa di sinistra»? Ventitré anni fa, Moretti si aspettava dal suo segretario di riferimento che tenesse testa a Silvio Berlusconi, schierandosi dalla parte dei giudici. Ora, invece, che cosa potrebbe aspettarsi da Enrico Letta? Beh, probabilmente niente di più di ciò che Letta ha detto e fatto in queste ultime settimane. Un tempo dire «una cosa di sinistra» significava parlare di classe operaia o giù di lì. Poi è diventato «di sinistra» opporsi a Berlusconi, a ogni costo. E adesso è «di sinistra» parlare dei «diritti delle minoranze», dai migranti agli Lgbt. Intendiamoci: tanti elettori progressisti, probabilmente, sono ancora convinti che dire «una cosa di sinistra» significhi parlare di lavoro. Ma i «leader» della sinistra hanno da tempo raggiunto uno stadio superiore d’evoluzione. Poiché del lavoro e della classe operaia se ne sbattono allegramente, ripiegano sulle battaglie decorative. Sempre le stesse: frontiere aperte, diritti a pioggia, ecologismo. Non che ci credano davvero, ma fa parte dello spettacolo. Ecco perché, al fine di sbriciolare la gran parte della retorica liberal, è utile rivolgersi al pensatore che meglio di ogni altro ha compreso il carattere spettacolare della società occidentale: Guy Debord (1931-1994). La casa editrice Eleuthera ha da poco pubblicato una raccolta di saggi del grande intellettuale francese (Ecologia e psicogeografia), fondatore dell’Internazionale situazionista, comunista sui generis e, appunto, autore del fondamentale La società dello spettacolo. I testi dell’antologia risultano tutti parecchio attuali, a partire da quello del 1971 intitolato Il pianeta malato, che sembra scritto apposta per gli odierni seguaci di Greta Thunberg. «L’inquinamento», attaccava Debord, «è oggi alla moda: esattamente come la rivoluzione. Si impadronisce di tutta la vita della società ed è rappresentato illusoriamente nello spettacolo. È la chiacchiera stordente in una pletora di scritti e di discorsi erronei e mistificatori, e prende nei fatti tutti alla gola. Si espone ovunque in quanto ideologia e guadagna terreno come processo reale». Persino «i padroni della società», notava Debord, «sono ora costretti a parlare dell’inquinamento […] Il settore più moderno dell’industria si lancia su diversi palliativi dell’inquinamento come su di un nuovo sbocco, tanto più redditizio in quanto si può utilizzare e manipolare una buona parte del capitale monopolizzato dallo Stato«. Con un lampo di preveggenza, il francese aveva descritto la Green Economy con 59 anni d’anticipo. Transizione ecologica compresa. Sentite qua: «La sedicente lotta contro l’inquinamento, per il suo lato statuale e regolamentare, andrà innanzitutto a creare nuove specializzazioni, nuovi servizi ministeriali, jobs (lavoretti) e avanzamenti burocratici». Un quadro perfetto. Almeno quanto quello che Debord disegna occupandosi, nel 1985, della «questione degli immigrati». Le sue riflessioni in proposito sarebbero estremamente utili per i politici che oggi vanno cianciando di ius soli, ma è difficile credere che qualcuno pensi di recuperarle. La sua posizione è semplice quanto radicale: è inutile pensare di integrare gli stranieri dal momento che la nostra civiltà si sta già disintegrando. «Non possiamo più assimilare nessuno», scriveva. «Né i giovani, né i lavoratori francesi, e neppure i provinciali o le vecchie minoranze etniche […], perché Parigi, città distrutta, ha perso il suo ruolo storico che era quello di fare dei francesi». Potremmo trasportare questa considerazione ai giorni nostri: fatichiamo a rendere italiani i figli di famiglie radicate qui da generazioni, davvero pensiamo di poter trasformare in italiani gli stranieri di seconda o terza generazione concedendo la cittadinanza facile? «Ci si sciacqua la bocca», diceva Debord, «usando un linguaggio semplicemente pubblicitario, con la pomposa espressione “diversità culturali”. Quali culture? Non ce ne sono più». Significa, in soldoni, che l’unico modo per attrare nella propria orbita culturale qualcuno che proviene da un mondo differente è avere una identità robusta. Ma quella europea, da tempo, si va sfaldando. Debord se la prendeva con i responsabili della degradazione della lingua: «È davvero francese quello che parlano gli analfabeti di oggi, o Fabius o Francoise Castro o B. H. Levy?». E ancora: «Quanti stranieri ci sono effettivamente in Francia? (E non solo per status giuridico, colore e faccia). E’ evidente che ce ne sono così tanti che ci si dovrebbe chiedere piuttosto: quanti francesi restano e dove sono? (E cosa caratterizza adesso un francese?) Quanto di francese resterà tra un po’? Si sa che la natalità e in calo […]. D’altro canto, la contraccezione è diffusa e l’aborto è libero. Quasi tutti i bambini in Francia sono stati voluti. Ma non liberamente! L’elettore-consumatore non sa quello che vuole. “Sceglie” qualcosa che magari non gli piace».Per il pensatore francese, il declino della cultura europea è iniziato e proseguito con la americanizzazione, termine un po’ datato che indica il livellamento prodotto dalla globalizzazione. Una società del genere, così fragile, non è in grado di accogliere grandi massi. «Il rischio dell’apartheid? È davvero concreto, ed è più che un rischio; è una fatalità già presente (con la sua logica dei ghetti, degli scontri razziali e, un giorno, degli spargimenti di sangue). Una società che si decompone per intero è evidentemente meno adatta ad accogliere senza troppi contrasti una grande quantità di immigrati di quanto avrebbe potuto esserlo una società coerente e relativamente felice». I disastri degli ultimi anni (in Francia e nel resto d’Europa, dall’esplosione delle banlieue al terrorismo) dimostrano quanto, purtroppo, avesse ragione Debord. Ecco perché sarebbe il caso di prendere in esame seriamente le sue considerazioni. Se si vuole integrare qualcuno non serve dargli la cittadinanza in un lampo, né consentirgli di votare a 16 anni: «E soprattutto», sosteneva l’infiammato Guy, «non è votando che ci si assimila. Dimostrazione storica che il voto non è nulla, neppure per i francesi». Servirebbe, piuttosto, uscire dalle gabbie mentali in cui la globalizzazione neutralizzante ci ha rinchiuso. Ricostruire (magari, aggiungiamo noi, recuperando un pizzico di patriottismo) e rinsaldare il patrimonio culturale che ci appartiene da secoli e che stiamo gettando al vento per seguire la (apparentemente) più comoda via del pensiero unico. Quello a cui si abbeverano i liberal di oggi, a partire dal nuovo segretario del Pd. Enrico Letta ama la Francia, e di sicuro ha letto Debord. Ma, per metterne in pratica i consigli, gli servirebbe un po’ di amore in più per l’Italia.
Lo ha dichiarato il presidente del Consiglio europeo in occasione del suo incontro con il premier greco Kyriakos Mitsotakis.