2021-08-13
La riforma Cartabia ha scordato di usare semplicità e coerenza e fa ricco l’avvocato
Lungi dallo scoraggiare le impugnazioni puramente dilatorie, ingolfa gli uffici giudiziari ma aumenta gli affari degli studi legali.Pezo el tacòn del buso. Questo detto popolare veneto che, tradotto, vuol dire «peggio la toppa del buco», sembra potersi perfettamente adattare alla riforma del processo penale delineata nel disegno di legge recentemente approvato dalla Camera, nella parte in cui prevede una nuova disciplina della prescrizione del reato, in sostituzione di quella, a suo tempo fortemente (e giustamente) criticata introdotta, per ostinata volontà soprattutto dei 5 stelle, con la legge n. 3 del 2019. Con questa legge si era stabilito, nell'essenziale, che il corso della prescrizione, sempre decorrente dalla data in cui il reato era stato commesso, rimanesse sospeso a tempo indeterminato a far tempo dalla pronuncia della sentenza di primo grado fino al momento in cui il procedimento fosse stato definito con sentenza irrevocabile.Ciò comportava, e ancora comporta, che, nel caso di impugnazione della sentenza di primo grado (anche da parte del pubblico ministero, ove essa sia stata di assoluzione) l'imputato può rimanere nella posizione di eterno giudicabile, magari fino al termine della sua vita, in piena violazione, tra l'altro, della regola della cosiddetta «durata ragionevole del processo» prevista dall'art. 111 della Costituzione; violazione, quella anzidetta, dalla quale, in base alla legge n.89/2001 (legge Pinto), può conseguire l'onere, per lo Stato (e, quindi, per la collettività), di corrispondere allo stesso imputato che ne faccia richiesta una «equa riparazione» economica, di importo spesso tutt'altro che indifferente. Per rimediare, in parte, a tali inconvenienti erano già state proposte, dall'allora ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, nell'ambito del disegno di legge per una più ampia riforma del processo penale presentato il 13 marzo 2020, varie modifiche del testo normativo, la più importante delle quali prevedeva che la sospensione del termine di prescrizione non operasse quando la sentenza di primo grado fosse stata di assoluzione. Questa strada è stata però abbandonata con la formulazione del maxiemendamento al suddetto disegno di legge, firmato da Marta Cartabia, nuova ministra della Giustizia, e approvato, come si è detto, nei giorni scorsi dalla Camera. Con esso, nell'essenziale, si stabilisce che, salvo il caso di delitti punibili con l'ergastolo, il corso della prescrizione non è più sospeso, ma cessa definitivamente con la pronuncia della sentenza di primo grado e si fissano dei termini entro i quali debbono essere definiti gli eventuali giudizi di impugnazione, in appello ed in cassazione, a pena di improcedibilità (cioè, in pratica, di estinzione del processo) in caso di loro mancata osservanza; termini, quelli anzidetti, che possono essere, in varia misura, prorogati dal giudice procedente«quando il giudizio di impugnazione è particolarmente complesso, in ragione del numero delle parti o delle imputazioni o del numero o della complessità delle questioni di fatto o di diritto da trattare». Ed è appunto questo il «tacòn» che rischia di essere peggiore del «buso» che, con esso, si vorrebbe riparare. Il sistema introdotto con la legge n. 3/2019, infatti, pur con tutti i suoi difetti, aveva almeno il pregio della semplicità e della coerenza rispetto all'obiettivo dichiarato, che era quello di impedire a qualsiasi costo che, una volta pronunciata la sentenza di primo grado, l'imputato potesse sperare, proponendo appello e poi ricorso per cassazione, di conseguire l'impunità per effetto del sopraggiungere della prescrizione del reato prima che la condanna fosse divenuta irrevocabile. Tanto la semplicità quanto la coerenza risultano invece del tutto assenti nel nuovo sistema che, con la riforma Cartabia, dovrebbe subentrare al precedente, essendo esso caratterizzato, in particolare, da una duplicità di previsioni in evidente contraddizione logica l'una con l'altra. Infatti, da una parte, l'aver limitato l'efficacia della prescrizione alla pronuncia della sentenza di primo grado risponde al chiaro scopo di scoraggiare impugnazioni pretestuose e puramente dilatorie; dall'altra, l'aver previsto che, quando queste ultime vengano comunque proposte, la loro mancata definizione entro i termini stabiliti (ed eventualmente prorogati) produca l'estinzione del processo, da considerarsi, nella sostanza, un effetto del tutto assimilabile a quello della prescrizione, significa aver fatto rientrare dalla finestra, per giunta peggiorato, ciò che si è inteso cacciare dalla porta. E perché peggiorato? Perché i suddetti termini, pur tenendo conto di tutte le possibili proroghe, possono frequentemente risultare, di fatto, assai più ristretti di quelli della prescrizione, anche con riguardo a reati tutt'altro che trascurabili. Basti pensare, ad esempio, che l'omicidio non aggravato, il cui termine prescrizionale ordinario è di anni 24 (corrispondente al massimo della pena prevista dalla legge), se giudicato in primo grado a distanza, mettiamo, di tre anni dal momento in cui è stato commesso (eventualità tutt'altro che improbabile), potrebbe diventare improcedibile, nella peggiore delle ipotesi (per l'imputato), allo scadere dei successivi sei anni, per un totale, quindi, di soli nove anni. E ciò supponendo che si sia ancora nel periodo transitorio, la cui durata è prevista fino al 31 dicembre 2024 e nel corso del quale il termine per la definizione del giudizio d'appello potrebbe essere prorogato fino ad un massimo di quattro anni e quello per la definizione del giudizio di cassazione fino ad un massimo di due anni. Successivamente al 31 dicembre 2024 le prospettive, per l'imputato, sarebbero poi ancora migliori perché il termine per il giudizio d'appello sarebbe prorogabile fino ad un massimo di soli tre anni e quello per il giudizio di cassazione fino ad un massimo di soli un anno e mezzo, per un totale, quindi, di quattro anni e mezzo. E di esempi del genere potrebbero farsene a decine, con riguardo anche a reati meno gravi dell'omicidio semplice, quali la rapina aggravata e l'estorsione aggravata, il cui termine prescrizionale ordinario è di anni venti, fino a giungere al furto in abitazione ed al furto con strappo; reati, questi ultimi, il cui termine prescrizionale ordinario è di anni sette ma, essendo frequentemente giudicati in primo grado con il rito direttissimo, a seguito di arresto in flagranza, potrebbero facilmente diventare anch'essi improcedibili, in base alla nuova disciplina, in un tempo sensibilmente inferiore. La progettata riforma, quindi, lungi dallo scoraggiare la proposizione di impugnazioni puramente dilatorie, avrebbe semmai l'effetto, in moltissimi casi, di incentivarle maggiormente, con ulteriore, deprecabile aggravio degli uffici giudiziari. Con il che, però, un risultato positivo sarebbe comunque raggiunto, anche se un po' diverso da quello dichiaratamente perseguito dai riformatori: il risultato, cioè, costituito da un prevedibile aumento del volume d'affari degli studi legali. Vedremo poi in un prossimo articolo quali ulteriori criticità, di diversa natura, appaiono riscontrabili nel disegno di legge in questione. Pietro DubolinoPresidente di sezione a riposo della Corte di cassazione