Un’azienda sanitaria torinese vieta al personale di usare le parole «islamico», «trans» e «giovane» perché offensive. È l’ultimo delirio woke che s’abbatte sulla lingua italiana.distruggere la lingua e il pensiero. Tra queste c’è l’Asl Torino 5 che comprende una fetta importante della provincia torinese (il chierese e il carmagnolese). Il direttore generale Bruno Osella, con l’approvazione del direttore amministrativo e di quello sanitario, ha appena licenziato una incredibile guida al «linguaggio inclusivo» che fornisce al personale una serie di precise indicazioni su come esprimersi all’interno delle strutture sanitarie. Nell’introduzione, Osella spiega di essere ben consapevole che i problemi della sanità sono tanti e complessi, per lo più economici. Ma si dice anche convinto che l’attenzione al linguaggio venga prima di tutto, e che la lotta alle discriminazioni sia fondamentale e inevitabile. A proposito delle linee guida dichiara senza problemi: «Questo documento ha anche un valore ideologico, nel senso che vogliamo ribadire ancora una volta qual è la nostra idea in tema di equità e di uguaglianza. Le persone sono diverse una dall’altra, siamo unici nella nostra diversità e la diversità costituisce una ricchezza, non un limite. Siamo l’istituzione che ha come scopo quello di prendersi cura degli altri, come possiamo farlo se non abbiamo radicato dentro di noi un profondo senso di umanità? Nutriamo, anche con il nostro linguaggio, l’umano che è nell’uomo».Nella Asl torinese esiste un Comitato unico di garanzia, presieduto da Damiana Massara, il quale «svolge un ruolo consultivo e propositivo all’interno dell’Azienda con la funzione di stimolare l’attenzione sui bisogni di equità, parità e benessere organizzativo». A quanto risulta, nel primo anno di attività ha «approfondito il tema del linguaggio inclusivo» e le linee guida sono il risultato di questo lavoro.«L’uso consapevole delle parole, interrogarsi sul linguaggio che usiamo, può aiutare a riflettere sugli automatismi mentali con cui pensiamo alle persone che incontriamo», dice Massara. «Le parole trasmettono concetti e spesso anche giudizi, non esistono parole sbagliate esiste un modo di usare le parole che ha effetti aggressivi, che respingono chi abbiamo di fronte».Rispetto, amore, accoglienza: bellissimi ma inconsistenti concetti. In realtà il vademecum in questione è soltanto - come sempre accade in questi casi - una prepotente forma di controllo dell’espressione e di conseguenza del pensiero. Del resto i promotori lo dichiarano esplicitamente. E basta dare una scorsa al documento per rendersi conto di dove si vada a parare. Esso mette al bando termini volgari e chiaramente offensivi (dice per esempio che non ci si può rivolgere a una donna chiamandola gnocca o figa: c’era proprio bisogno di dirlo). Ma ovviamente non si ferma lì: per evitare di dire parolacce basta la buona educazione, per modificare i pensieri della popolazione serve qualcosa di più. Le linee guida, di conseguenza, forniscono «alcune indicazioni sulle regole di base della comunicazione e sulle strategie di gestione della terminologia presente nei documenti sanitari e amministrativi, nonché nelle comunicazioni in generale della nostra azienda. Si tratta, in particolare, di strategie pratiche su come evitare il maschile sovraesteso, laddove possibile, e di consigli generali su come parlare in modo rispettoso per orientarsi nelle principali aree della diversity: genere, etnia, disabilità e orientamento sessuale».L’Asl impone ai dipendenti «una riflessione e una revisione critica dell’uso quotidiano delle parole. Questo processo», spiega, «implica non solo una modifica delle forme linguistiche, ma anche un cambiamento culturale che riconosca e valorizzi la presenza e il contributo di tutti i generi nella società. Ad esempio, la creazione di neologismi, l’uso di termini non marcati dal genere o l’introduzione di forme inclusive nei titoli professionali sono strategie che possono contribuire a rappresentare meglio la realtà contemporanea. Lo sforzo richiesto per adottare un linguaggio più inclusivo, almeno nelle fasi iniziali, non sarà trascurabile, poiché il linguaggio è fatto di automatismi e abitudini e molte espressioni discriminatorie sono inconsapevolmente radicate nella società. Queste espressioni fanno parte della lingua comune e spesso passano inosservate, essendo cristallizzate nel tempo e riprodotte automaticamente». Capito? Serve un bello sforzo affinché le strutture del linguaggio e quelle del pensiero siano modificate in profondità, e si possa finalmente cancellare le storture che affliggono la nostra cultura.Facciamo qualche esempio pratico. Il vademecum proibisce di utilizzare parole come negro o bangla. E fin qui, siamo ancora, appunto, nell’ambito della buona creanza. Ma è proibito usare anche clandestino, perché «l’espressione rinforza stereotipi negativi. Usare eventualmente migrante». Clandestino è offensivo? Certo che no, indica una condizione giuridica, niente altro. Ma bisogna fare in modo che la gente inizi a pensare che tutti i migranti sono regolari e hanno diritto a restare, dunque cancelliamo il termine sgradito. Allo stesso modo è vietato dire extracomunitario: «Questo termine ha una forte connotazione negativa; non verrebbe mai usato in relazione a una persona francese, o americana. Usare l’area geografica di provenienza o la nazionalità». Peccato che extracomunitario non si userebbe per i francesi perché sono, appunto, comunitari. Ma sorvoliamo. Al bando anche l’espressione «di colore», poiché «rimanda a uno sguardo eurocentrico e bianco centrico dove la bianchezza è considerata la norma e la normalità. Quando si parla di persone nere è meglio usare il termine nero, nera al suo posto». È grottesco, perché di colore viene usato da anni proprio in ossequio al politicamente corretto.Vietato dire zingaro (da sostituire con rom o sintu), vietato anche nomade che sarebbe spregiativo. Si deve dire musulmano e non islamico. E non bisogna usare la parola razza perché «fa riferimento alla teoria razzista secondo cui i tratti soggettivi identitari erano determinati unicamente dalle caratteristiche fisiche e somatiche. Utilizzare eventualmente etnia» (spiegazione, questa, non solo stupida ma anche ignorante).Non si può dire trans ma bisogna usare il termine transgender. Cambio di sesso, espressione per niente offensiva che si limita a descrivere la realtà, deve essere sostituita con «affermazione di genere»: come a dire che chi cambia sta in realtà affermando il suo «vero» genere. E ancora, bisex va sostituto da bisessuale; «relazioni dello stesso sesso» deve diventare «relazioni dello stesso genere».Persino l’utilizzo della parola giovane va fortemente limitato. Ad esempio, se parlate di un collega, è «preferibile mettere l’accento sulle sue competenze, sui risultati ottenuti o sulla professionalità dimostrata piuttosto che l’età». In questo modo non si commette peccato di ageismo e non si offendono gli anziani.Tutto questo, ormai è evidente, non dipende dal desiderio di rendere il mondo più buono e giusto. Deriva piuttosto dalla paura della realtà. Si teme il mondo reale e si cerca di evitarlo chiudendosi in un paradiso linguistico artificiale. A ben vedere, si tratta di una patologia. Ma all’Asl, invece di curarla, preferiscono diffonderla: meraviglie del mondo nuovo.
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