A novembre Cdp ha formato i propri Consigli e assegnato una cinquantina di poltrone. Ma entro fine marzo si decide la sorte delle grandi partecipate quotate, che spostano davvero il potere. Il Quirinale segue da vicino.L'effetto della fuoriuscita dal governo di Lorenzo Fioramonti è ancora tutto da comprendere. Potrebbe depotenziare il ruolo di Luigi Di Maio dentro i 5 stelle, ma immaginare che ne esca un gruppo parlamentare o addirittura un partito è complicato. Matteo Renzi non vuole certo rinunciare a esercitare il suo personale golden power sul Conte bis. Anche se le recenti inchieste giudiziarie su Open hanno un po' indebolito la presa sui Palazzi, l'ex sindaco di Firenze non desidera certo lasciare ad altri la possibilità di mettere il veto su scelte cruciali e al tempo stesso vuole partecipare alla grande partita delle nomine. Così a Fioramonti potrebbe toccare il ruolo gregario di attrarre qualche deputato grillino e quindi avvicinarlo al Pd di Nicola Zingaretti con l'obiettivo di aiutare il premier e soprattutto il Quirinale nell'imminente decisione di sostituire i vertici e i componenti di Agcom e Privacy.Si era parlato di Nino Rizzo Nervo, anche perché il candidato dei 5 stelle, Roberto Chieppa, già a settembre aveva chiesto di rimanere a Palazzo Chigi. La realtà è che non esistono liste già pronte. I giallorossi hanno spinto più in là la decisione per due semplici motivi.Il primo è perché sanno che una volta mosse le caselle sul Garante delle comunicazioni Silvio Berlusconi avrà un argomento in meno per mantenere l'appoggio esterno al Conte bis. Il secondo motivo è riconducibile al fatto che entrambe le nomine degli organismi sono frutto di un voto parlamentare segreto. Conte e Mattarella sanno che i 5 stelle non sono controllabili e forse per questo il premier immagina che la eventuale costola legata a Fioramonti potrebbe essere più fedele ai diktat provenienti dall'alto e al momento di votare dentro l'urna non farebbe brutte sorprese.Per il resto il ruolo di Camera e Senato sulle nomine finisce qui. La grande abbuffata si gioca nelle stanze delle partecipate pubbliche. Spetta ai giallorossi portare avanti un piano sistematico che è il vero collante della compagine agostana tra Pd e 5 stelle e che impone al governo una lunga sequenza di nomine che consentiranno di blindare i gangli del potere e di permettere a chi guida l'Italia di infilare una a una le tappe che conducono al Paese verso la nomina più importante: a gennaio del 2022 toccherà al presidente della Repubblica. Prima c'è da decidere i nomi degli amministratori delegati che guideranno Eni, Enel, Terna, Mps, Poste dal prossimo maggio, a quel punto per i giallorossi sarà più facile lasciare Palazzo Chigi. Ma i manager nominati resteranno lì per almeno quattro anni e controlleranno una grande fetta del Pil italiano. E chi controlla l'economia oggi, se vuole, conta più di chi siede sulla poltrona da presidente del Consiglio. Il tempo per preparare le liste in vista delle rispettive assemblee non è tantissimo. Il grosso delle scelte avviene però tra oggi e fine aprile del prossimo anno. A quella data chi guida Palazzo Chigi e il Mef avrà assegnato in totale 288 poltrone tra partecipate dirette e controllate di secondo grado. Una cifra enorme che sale a 307 unità se aggiungiamo anche Agcom e Privacy e poi i cda di Inps, Inail e Aifa. Per questo motivo a Roma già si ragiona su quale sarà il peso diretto di Giuseppe Conte, delle anime del Pd e di Renzi come abbiamo scritto sopra. Del resto molte nomine sono ancora figlie dei suoi governi e di quello di Paolo Gentiloni che aveva detto la sua su Alessandro Profumo. In Leonardo potrebbe tornare a pesare la parola di Massimo D'Alema, uomo dietro le quinte di questo esecutivo, con ben quattro ministeri a lui vicini, tra cui capo del Mef. Roberto Gualtieri è stato membro della Fondazione Italianieuropei, ma anche Vincenzo Amendola agli Affari europei è da sempre considerato vicino a D'Alema, come anche Giuseppe Provenzano e Roberto Speranza. L'ex capo dei Ds gode di nuovo vigore anche sul fronte internazionale, anzi non era così potente dai tempi in cui era presidente del Consiglio. Così potente che alcuni analisti romani ipotizzano che abbia preso lo scettro di mediatore tra Usa e Russia che per anni è stato sulla scrivania di Giorgio Napolitano. E se l'analisi è vera lo si capirà presto anche grazie al posizionamento del Cane a sei zampe.Per Eni potrebbe essere confermato Claudio Descalzi, mentre salgono le quotazioni di Marco Alverà, ora amministratore delegato di Snam dove sta facendo molto bene. Su Enel si punta alla riconferma di Francesco Starace, stimato da entrambi gli alleati di governo. Andranno poi riempite le caselle di Poste italiane, Terna ed Enav, dove potrebbero esserci delle conferme rispetto alle scelte fatte dai precedenti governi di centrosinistra ora tornati di forza a Palazzo Chigi. Ci sono però anche nomi nuovi in vista. Ad esempio Fabrizio Palermo non si esclude che faccia un salto in là verso una grande partecipata. Non che Cdp non lo sia, ma le grandi quotate hanno il loro fascino. Insomma, 307 nomi sono tanti e per il momento bastano a tenere assieme questa maggioranza, che resta però ogni giorno che passa più friabile e imprevedibile.
L’aumento dei tassi reali giapponesi azzoppa il meccanismo del «carry trade», la divisa indiana non è più difesa dalla Banca centrale: ignorare l’effetto oscillazioni significa fare metà analisi del proprio portafoglio.
Il rischio di cambio resta il grande convitato di pietra per chi investe fuori dall’euro, mentre l’attenzione è spesso concentrata solo su azioni e bond. Gli ultimi scossoni su yen giapponese e rupia indiana ricordano che la valuta può amplificare o azzerare i rendimenti di fondi ed Etf in valuta estera, trasformando un portafoglio «conservativo» in qualcosa di molto più volatile di quanto l’investitore percepisca.
Per Ursula von der Leyen è «inaccettabile» che gli europei siano i soli a sborsare per il Paese invaso. Perciò rilancia la confisca degli asset russi. Belgio e Ungheria però si oppongono. Così la Commissione pensa al piano B: l’ennesimo prestito, nonostante lo scandalo mazzette.
Per un attimo, Ursula von der Leyen è sembrata illuminata dal buon senso: «È inaccettabile», ha tuonato ieri, di fronte alla plenaria del Parlamento Ue a Strasburgo, pensare che «i contribuenti europei pagheranno da soli il conto» per il «fabbisogno finanziario dell’Ucraina», nel biennio 2026/2027. Ma è stato solo un attimo, appunto. La presidente della Commissione non aveva in mente i famigerati cessi d’oro dei corrotti ucraini, che si sono pappati gli aiuti occidentali. E nemmeno i funzionari lambiti dallo scandalo mazzette (Andrij Yermak), o addirittura coinvolti nell’inchiesta (Rustem Umerov), ai quali Volodymyr Zelensky ha rinnovato lo stesso la fiducia, tanto da mandarli a negoziare con gli americani a Ginevra. La tedesca non pretende che i nostri beneficati facciano pulizia. Piuttosto, vuole costringere Mosca a sborsare il necessario per Kiev. «Nell’ultimo Consiglio europeo», ha ricordato ai deputati riuniti, «abbiamo presentato un documento di opzioni» per sostenere il Paese sotto attacco. «Questo include un’opzione sui beni russi immobilizzati. Il passo successivo», ha dunque annunciato, sarà «un testo giuridico», che l’esecutivo è pronto a presentare.
Luis de Guindos (Ansa)
Nel «Rapporto stabilità finanziaria» il vice di Christine Lagarde parla di «vulnerabilità» e «bruschi aggiustamenti». Debito in crescita, deficit fuori controllo e spese militari in aumento fanno di Parigi l’anello debole dell’Unione.
A Francoforte hanno imparato l’arte delle allusioni. Parlano di «vulnerabilità» di «bruschi aggiustamenti». Ad ascoltare con attenzione, tra le righe si sente un nome che risuona come un brontolio lontano. Non serve pronunciarlo: basta dire crisi di fiducia, conti pubblici esplosivi, spread che si stiracchia al mattino come un vecchio atleta arrugginito per capire che l’ombra ha sede in Francia. L’elefante nella cristalleria finanziaria europea.
Manfred Weber (Ansa)
Manfred Weber rompe il compromesso con i socialisti e si allea con Ecr e Patrioti. Carlo Fidanza: «Ora lavoreremo sull’automotive».
La baronessa von Truppen continua a strillare «nulla senza l’Ucraina sull’Ucraina, nulla sull’Europa senza l’Europa» per dire a Donald Trump: non provare a fare il furbo con Volodymyr Zelensky perché è cosa nostra. Solo che Ursula von der Leyen come non ha un esercito europeo rischia di trovarsi senza neppure truppe politiche. Al posto della maggioranza Ursula ormai è sorta la «maggioranza Giorgia». Per la terza volta in un paio di settimane al Parlamento europeo è andato in frantumi il compromesso Ppe-Pse che sostiene la Commissione della baronessa per seppellire il Green deal che ha condannato l’industria - si veda l’auto - e l’economia europea alla marginalità economica.




