2019-11-08
Resta ancora un muro da abbattere: la censura sugli orrori dell’Urss
Non solo gli intellettuali di regime, di «araldi» dell'utopia marxista è tuttora piena la nostra storiografia. Ecco perché, a 30 anni dal crollo della dittatura sovietica, è così difficile alzare la cortina su quell'incubo.In questi giorni celebriamo i 30 anni dalla caduta del muro di Berlino, ma assai di rado si ricorda chi lo ha voluto e quello che c'era dietro quel muro: i gulag da cui prese esempio Adolf Hitler; un sistema repressivo inaudito, paragonabile solo a quello nazista, che portò allo sterminio di milioni di persone, in tempo di pace. Talora si scherza, in modo macabro, ricordando che il maggior sterminatore di comunisti fu... il comunista Stalin con le sue purghe, durante le quali, come ricorda nel suo Stalin (Mondadori) Gino Rocca, già giornalista de L'Unità e di Repubblica, circa 5 milioni di cittadini finirono negli ingranaggi della polizia politica, fra 1937 e 1938.Si fa una storia smemorata quando si dimentica di dire che il comunismo non ha interessato un paese di 50 milioni di abitanti per vent'anni, come è successo per esempio al fascismo, ma miliardi di persone, generando, secondo una cifra assai prudenziale, 100 milioni di morti (è la cifra proposta dal team guidato da Stéphane Courtois ne Il libro nero del comunismo del 1997, mentre Solzenicyn, in Arcipelago gulag, parla di 66 milioni di vittime tra il 1917 ed il 1959 nella sola Unione Sovietica). Proporre una storia strumentale è anche fingere che tutti i muri siano uguali. Sentiamo spesso paragonare il muro di Berlino «ai tanti muri che esistono anche oggi». Di modo che il muro di Berlino diviene una semplice scusa per parlare di attualità secondo la propria faziosità politica. Si tratta di una falsificazione. Anzitutto perché quei muri - come quello tra gli Usa e il Messico, voluto da Clinton, Bush e Obama prima ancora che da Trump - non imprigionano ma «difendono». Ma torniamo al comunismo. Si insegnava ai bambini, nella Germania comunista: «Lenin ha spiegato che quest'epoca in cui non esisteranno più le lacrime ha un nome: non si chiama Natale né primavera. Tenete a mente questa parola difficile: si chiama comunismo» (citato da Neubert nel Libro nero del comunismo europeo, Mondadori). Eppure 3,5 milioni di tedeschi, prima del muro del 1961, scapparono da tanta felicità. E altrettanto fece un altro milione, con il muro. Nonostante la Stasi e il terrore. Il sociologo Marzio Barbagli, nel suo studio sul suicidio nella storia (Congedarsi dal mondo, Il Mulino) rammenta che in Urss «nel 1924-25 vi fu un forte aumento dei suicidi», non solo tra i dissidenti ma «tra gli iscritti al partito», tra coloro che professavano la fede del regime. Stalin - il quale aveva affermato a gran voce «la vita è diventata più bella» - condannò il fatto, spiegando che il suicidio era il mezzo più semplice per lasciare il mondo, tradendo il Paese e sputando «per l'ultima volta sul partito». «In ogni caso», continua Barbagli, «il governo smise di pubblicare statistiche e studi sull'argomento». Allora perché del comunismo si parla ancora così poco, o in modo così ambiguo? Elenco brevemente alcuni motivi. Il primo: l'Urss ha vinto la guerra mondiale; si seduta al tavolo degli accusatori, non degli imputati, beneficiando di tanta storiografia servile. Il secondo: la formidabile gerarchia del partito ha permesso di tenere segreti che altri non avrebbero saputo custodire. Ha anche imposto ad artisti, letterati, scienziati di essere sempre «apostoli» del comunismo. Sono esistiti una «scienza comunista», un'«arte comunista», un «romanzo comunista»... Terzo motivo: ogni volta che diventava evidente l'insucceso, si trovavano capri espiatori da incolpare: i «trotskisti», i «fascisti», i «controrivoluzionari», i «clericali»... Quarto: i comunisti sovietici sono riusciti a mettere a libro paga studiosi, giornalisti, scrittori del mondo libero. Valerio Riva nel suo L'oro di Mosca e tanti altri hanno svelato, con materiali d'archivio, quanti miliardi sono affluiti costantemente dal Pcus verso questi intellettuali. Al di là dei soldi, poi, va considerata l'abilità propagandistica di personaggi come il comunista tedesco Willi Münzenberg, che negli anni Venti e Trenta, attraverso il suo impero editoriale in Occidente, ha compiuto un capolavoro, ribaltando il postulato bolscevico: «Non più il rivoluzionario contro il resto del mondo, ma il resto del mondo contro il fascista»; il Bene contro il Male. È stato lui a capire l'importanza di «costruire il comunismo con mani non comuniste», arruolando di continuo intellettuali, scrittori, editori in battaglie direttamente o indirettamente filo-comuniste (vedi Martino Cervo, Willi Münzenberg, il megafono di Stalin, Cantagalli). Tra queste battaglie, anche le grottesche «marce della pace» organizzate nel dopoguerra dai vari partiti comunisti europei, impegnati a presentarsi per ciò che non erano. In generale, come nota la storica Anne Applebaum, nel suo La cortina di ferro. La disfatta dell'Europa dell'Est (Mondadori), la direttiva era chiara: «Il termine “fascista" sarebbe stato usato, in puro stile orwelliano, per definire quegli antifascisti che erano semplicemente anche anticomunisti. E ogni volta che la definzione venne ampliata, seguirono arresti».Quinto: molti di questi «intellettuali» si sono messi volontariamente al servizio dell'utopia per una deformazione mentale tipica della categoria. Un solo fatto, a dimostrarlo: nella nostra Italia, con il crollo del fascismo, moltissimi di coloro che avevano collaborato con riviste e rivistine del regime, da Eugenio Scalfari a Giorgio Bocca, da Vasco Pratolini a Renato Guttuso, passeranno, una volta finita la guerra, non alla Dc o ai partiti liberali, ma al Partito comunista (Paolo Buchignani, Fascisti rossi, Mondadori). Pronti a imporre la loro narrazione, anche a costo di negare l'evidenza. Come ai tempi delle «sedicenti Brigate rosse».