2020-07-28
«Con la proroga dell'emergenza altro caos nel conflitto Stato Regioni»
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Parla Davide De Lungo, professore di diritto costituzionale: «Se dovesse arrivare una seconda ondata rischiamo l'ingovernabilità».«Ora occorre ridefinire il rapporto fra Stato e Regioni nella gestione dell'emergenza sanitaria, perché con la pandemia è stato lasciato nel caos e se dovesse arrivare una seconda ondata rischiamo l'ingovernabilità». Secondo Davide De Lungo, avvocato e professore di diritto costituzionale, questo è uno dei nodi fondamentali collegati alla proroga dello stato di emergenza a ottobre, in scadenza il prossimo 31 luglio, su cui il Presidente del Consiglio, è intervenuto oggi in senato.Se, nei primi mesi della pandemia, l'incertezza e l'urgenza hanno in qualche modo reso tollerabili forzature e distorsioni rispetto ai diritti e alle libertà dei cittadini, al sistema delle fonti, alla forma di governo, e, appunto, al riparto di competenze fra Stato e Regioni, adesso tutto ciò, «non è più riproponibile». Superata la fase di rodaggio e sfruttando l'allentamento della crisi, «si ha tutto il tempo per tornare a lavorare con gli strumenti ordinari del sistema, senza portare avanti questo mostruoso diritto dell'emergenza, che il nostro sistema costituzionale non prevede e neppure ammette».Professore, in che modo però si possono ridefinire le modalità di gestione dell'emergenza?«La cosa più urgente da fare è una norma che definisca in modo chiaro come fonti statali e fonti regionali debbano concorrere fra loro: assieme a un "nucleo duro" di previsioni valide per tutto il Paese, occorre stabilire anche in quali settori, con quali tempistiche ed entro quali margini le Regioni possano introdurre discipline differenziate sul proprio territorio».Ovvero?«L'esperienza dei mesi scorsi ha dimostrato come l'emergenza sanitaria possa manifestarsi in forme anche marcatamente diverse nelle varie zone, e quindi non sempre è necessaria un'eccessiva centralizzazione. Al contempo, occorre assicurare efficaci forme di raccordo fra Stato e Regioni: la Conferenza, principale strumento di realizzazione della leale collaborazione, è stata una grande assente di questa fase, e gli unici confronti che si ricordano sono stati quelli al vetriolo sui giornali e in tv».Ci può aiutare a capire meglio?«Allo scoppio della pandemia le Regioni sono andate in ordine sparso, il Governo spesso ha minacciato di adire la Consulta o ha proposto ricorso al Tar: lampante il caso dell'ordinanza della presidente calabrese Santelli. Il conflitto politico, anziché comporsi nelle sedi istituzionali, è deflagrato in un reciproco gioco di scarico delle responsabilità, in cui l'unica vincitrice è stata l'incertezza. Questo è accaduto su vari aspetti, per il ritorno al lavoro di dipendenti e professionisti, per recarsi o meno nelle seconde case, per gestire i flussi dei migranti o per riaprire determinate categorie di imprese e attività».Vuole dire che il problema si è arenato a livello di sola polemica politica?«Si tratta, fuor di dubbio, di una criticità che cova ancora sotto la cenere, o meglio è stata nascosta sotto al tappeto, e nessuno si è ancora preso il disturbo di risolverla. Probabilmente nel timore di innescare di nuovo inevitabili polemiche. Spetta allo Stato, seguendo il riparto dettato dalla Costituzione, operare una divisione chiara delle competenze; questo si sarebbe potuto e dovuto fare fin dal primo decreto-legge, il n. 6 del 2020, quello che ha riconosciuto il ruolo dei Dpcm». Per evitare il caos normativo, che ostacola cittadini e imprese, e diventa un problema economico drammatico, come si può agire?«Assieme alla eventuale proroga dello stato di emergenza bisognerebbe adottare una nuova disciplina organica che chiarisca questi punti».In che modo si potrebbe regolare il rapporto tra Stato e Regioni?«Il riparto delle competenze andrebbe concordato in Conferenza Stato-Regioni, in un clima di ampia condivisione, e poi trasposto in una fonte statale, da approvare con il pieno coinvolgimento delle Camere».A questo punto non ci sarebbe bisogno di utilizzare ancora lo stato di emergenza…«La decisione deve dipendere dall'andamento della pandemia e dai dati scientifici: aspetti sui quali al momento non siamo in grado di fare pronostici, ma solo auspici. Una decisione di questo tipo, però, deve fondarsi su esigenze straordinarie, concrete e attuali, più che su rischi, sebbene ragionevoli, solo paventati. Poiché ora, per fortuna, l'emergenza si è attenuata e non siamo sotto l'assedio della contingenza, è questa l'occasione per avviare una riflessione chiara, ponderata e completa, che coinvolga tutti i livelli istituzionali, secondo un augurio espresso peraltro anche dalla Presidente della Corte costituzionale Marta Cartabia. Per la verità, già da mesi si sarebbe dovuta porre in agenda questa riflessione sulla governance: mi sembra che ora i tempi siano maturi».Ma non è stato fatto«A mio avviso, nell'ambito degli strumenti già previsti dall'ordinamento, adottando un insieme di regole calibrate anche alla luce dell'esperienza, e degli errori, di questi mesi, abbiamo tutte le risorse per far fronte all'epidemia, senza bisogno di norme o stati eccezionali. Segnalo, peraltro, come la proroga dello stato di emergenza, sebbene assicuri la continuità di molte previsioni e strutture attualmente operanti – come correttamente evidenziato dal presidente del Consiglio – non è senza costi sul piano "pragmatico" dell'immagine che l'Italia offre di sé, agli occhi degli investitori e dei partner europei e internazionali». Cosa pensa del coinvolgimento parlamentare, nella vicenda della pandemia?«Il Parlamento, almeno nella prima fase dell'emergenza, è stato il convitato di pietra della pandemia. Molto si è detto circa la necessità di assicurarne il coinvolgimento effettivo: le Camere sono collocate al centro dell'architettura istituzionale del nostro sistema, e non possono essere escluse dalla determinazione dell'indirizzo politico; ciò vale a maggior ragione, venendo in questione provvedimenti che incidono in misura profonda sia sui diritti e libertà dei cittadini, sia sull'allocazione di risorse economiche rilevantissime. Da questo punto di vista, dunque, bisogna salutare con favore la scelta del Presidente del Consiglio di interloquire con il Parlamento prima di prorogare lo Stato di emergenza; e così pure quanto previsto a maggio dal c.d. "emendamento Ceccanti", che modificando l'art. 2, comma 1, del d.l. n. 19 del 2020, ha previsto un passaggio alle Camere nella procedura d'adozione dei Dpcm. Vorrei però evidenziare una patologia infiltratasi nel sistema in questi mesi, e passata tutto sommato sotto silenzio: la trasformazione del procedimento legislativo e l'approdo a una sorta di monocameralismo di fatto».Mi dica«Se guardiamo agli ultimi atti normativi approvati, la scansione è stata sempre, in linea di massima, questa: il Governo presenta un decreto-legge; la prima Camera "trattiene" il provvedimento, per la conversione, 40 o 50 giorni, modificandolo per lo più in commissione; in aula il testo viene approvato con l'accoppiata maxi emendamento-fiducia; la seconda Camera si limita ad una breve discussione, ma senza reale possibilità di emendarlo considerata la scadenza imminente del termine di conversione di 60 giorni previsto dalla Costituzione, per poi ratificare l'atto, anche qui con il voto di fiducia. L'emergenza non è per sempre: è vero che le cattive abitudini fanno presto a radicarsi, e questa in qualche modo aleggia da tempo nel sistema, ma occorre uno sforzo per superarla». Se dovesse esserci una seconda ondata del virus cosa si augura?«Che non vengano riprodotti tutti i problemi che abbiamo dovuto affrontare nella prima. Qual è stato il principale? Proprio il rapporto, anzi il non rapporto, tra Stato e Regioni, che non possono permettersi di fare i separati in casa. Mi auguro poi che non si radichi nel nostro Paese il "culto dell'emergenza", e che non si operino – sulla scia emotiva di questi mesi – revisioni costituzionali in tal senso. Nonostante la pretesa di razionalizzazione che le clausole emergenziali esprimono, misure derogatorie del diritto costituzionale raramente si contengono all'interno di una funzione di conservazione dell'ordinamento e di rispetto della sua identità, ma tendono ad innescare stati di crisi e concentrazioni di potere che sfuggono al controllo e il cui esito è spesso trasformativo, in peggio, dell'ordine preesistente. Uno scenario francamente estraneo alla cultura liberale che mi appartiene».