2019-09-28
Referendum, la Lega piazza la trappola per fregare la Corte
Il Carroccio schiera cinque Regioni contro il proporzionale. E mette una delega nel quesito per evitare il no della Consulta.«È indetto referendum popolare per deliberare l'abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge, quando lo richiedono 500.000 elettori o cinque Consigli regionali». Recita così l'articolo 75 della Costituzione, che dunque consente di innescare il meccanismo referendario non solo attraverso le firme raccolte per strada ai banchetti, ma pure attraverso la deliberazione di cinque Regioni. Ed è sfruttando questa seconda opzione che la Lega, seguita dagli alleati sul territorio di Fdi e Fi, ha prodotto un voto in cinque Consigli regionali: Veneto, Sardegna, Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Piemonte (e in queste ore potrebbe arrivare anche la Liguria). Diversi retroscena, nei giorni scorsi, hanno molto ricamato su una presunta freddezza sul piano nazionale di Forza Italia, non confermata però nei fatti: in un fazzoletto di giorni, le maggioranze di centrodestra nei Consigli regionali si sono pronunciate in modo puntuale. Il termine era quello del 30 settembre, e infatti lunedì ci sarà la consegna del quesito e delle delibere da parte dei promotori.L'oggetto del quesito referendario è un «ritaglio» del Rosatellum (sistema elettorale in parte proporzionale e in parte maggioritario), per cancellare tutti i riferimenti alla quota proporzionale, e lasciando in piedi il resto, trasformando ciò che rimane in un sistema integralmente uninominale maggioritario. Il sogno - da decenni - dei bipolaristi, anzi dei bipartitisti all'anglosassone: due schieramenti, due candidati in ogni collegio, chi vince viene eletto e chi perde va a casa, e -sul piano nazionale - un'assoluta chiarezza tra chi avrà il compito di governare e chi svolgerà le funzioni dell'opposizione. Una rivoluzione contro il ritorno della partitocrazia, delle decine di partiti e partitini pronti a scindersi e a ricomporsi in modo incomprensibile. Se tutto andasse per il verso giusto, tra fine gennaio-inizio febbraio la Corte costituzionale dovrebbe dare via libera al quesito, e poi si dovrebbe andare al voto in una domenica compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno 2020.Attenzione, però. Gli antichi appassionati di referendum (e in particolare di referendum elettorali) sanno che esiste un ultimo e fatale ostacolo, chiamato Corte costituzionale. Sempre lei. Non a caso, sfidando (anzi, sollecitando!) un'accusa di vilipendio che nessuno ebbe mai il coraggio di muovergli, per decenni un leader referendario come Marco Pannella chiamava la Consulta «suprema cupola della mafiosità partitocratica». E come mai quest'epiteto? Perché la Corte, attraverso una giurisprudenza chiaramente antireferendaria, volta a sottrarre molto spesso agli italiani la possibilità di votare, si è via via inventata una serie di criteri per rendere sempre più complicata l'ammissibilità dei quesiti. In teoria, il già citato articolo 75 della Costituzione parlerebbe chiarissimo, lasciando ampio spazio all'iniziativa referendaria e limitandosi a escludere solo tre materie (leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali). Per evidenti ragioni, insomma, non puoi fare un referendum per abolire una tassa, ad esempio. Ma su tutto il resto sì. E invece? E invece, sentenza dopo sentenza, contraddicendo la semplicità della previsione costituzionale, la Corte ha messo giù un elenco infinito di criteri ulteriori e insidiosissimi. Alcuni dei quali perfidamente aggiunti la volta successiva per rendere impossibili quesiti diligentemente redatti dai promotori secondo le indicazioni della sentenza precedente. E così per la Corte il quesito non può essere «manipolativo», deve essere «omogeneo», non deve risultare «poco chiaro». E soprattutto - ecco il trappolone - in materia elettorale non devono rimanere «vuoti normativi»: in caso di vittoria del sì, insomma, deve esserci una legge immediatamente utilizzabile. Gli avversari della Lega già attaccano proprio su questo fronte: sostengono che, se il quesito passasse, occorrerebbe riscrivere i collegi elettorali, e dunque la legge non sarebbe di pronto uso. Su questo, il papà del quesito, Roberto Calderoli, ha una risposta molto seria, che fa leva su una delega al governo per disegnare nuovi collegi entro 60 giorni. Di più: Calderoli (che si conferma geniale) ha spiegato alla Verità che ci sono almeno due precedenti (più, volendo, anche un terzo in una sentenza della Consulta) che corroborano il suo tentativo. Il primo è proprio il Rosatellum, che a suo tempo non previde nessuna «leggina ponte» in caso di scioglimento immediato delle Camere prima che i collegi fossero riscritti; il secondo riguarda l'ormai prossimo taglio dei parlamentari, che a sua volta richiederebbe una ovvia risistemazione dei collegi. Risposte convincentissime.Ma con la Corte non si sa mai. Per questo l'altra sera Matteo Salvini ha messo le mani avanti: «State tranquilli, proveranno a fermare anche questo referendum, ma raccoglieremo milioni di firme». In fondo il leader leghista ha già indicato la strada: e l'eventuale trappolone anti referendum rischia di essere un autogol per la Corte e i suoi corifei. Pensateci: prima qualcuno decide di non concedere le elezioni politiche agli italiani. Poi (naturalmente, sarebbe auspicabile il contrario) qualcun altro tenta di impedire la tenuta di un referendum. Poi qualcun altro ancora (in Parlamento) prova a cucinare una legge ancora più proporzionale. E a quel punto diventa matematico raccogliere firme su un altro quesito, che attacchi l'eventuale leggina nel frattempo approvata dalle Camere. Sarà chiara la differenza tra chi si barricherà nel palazzo, e chi proverà a dare la parola agli italiani.