2018-10-01
«Reddito di cittadinanza? Ci penso io. Così cambierò i centri per l’impiego»
Parla Mimmo Parisi, l'esperto indicato da Luigi Di Maio per riformare le strutture che gestiranno il sussidio: «Negli Stati Uniti ci sono riuscito, proverò anche in Italia. So che è una sfida difficile, ma non impossibile».L'uomo cui il governo italiano intende affidare l'ideazione del nuovo sistema dei Centri per l'impiego, la complessa struttura pubblica che dal 2019 gestirà la delicata riforma del reddito di cittadinanza, parla con La Verità dalla sua casa in mattoncini e legno in riva al lago di Starkville, una cittadina di 20-30.000 abitanti nel cuore del Mississippi: «Mi consulterò con mia moglie Michelle, perché l'impegno che mi è stato proposto è serio», dice Domenico Parisi in un italiano che sa molto d'America. «Domani (cioè oggi, ndr) darò una risposta al ministro. Però io sono un positivo, e quindi credo che sarà un sì: perché mi sento moralmente impegnato, al 150%, e anche Michelle è felice che possa essere utile al mio Paese».A rivelare il nome del professore italoamericano è stato Luigi Di Maio, ministro del Lavoro, con un laconico messaggio pubblicato su Facebook nel pomeriggio di venerdì 28 settembre: «Quello accanto a me nella foto è Mimmo Parisi, un professore di origini pugliesi che lavora da 30 anni in America. Ci darà una grossa mano per fare i nuovi centri impiego dell'Italia». Ecco, se alla fine la sua missione andrà davvero in porto, dopo aver trascorso negli Stati Uniti 26 dei suoi 52 anni Parisi darà ben più che una mano al suo Paese natale. Ma quella sul suo nome, va detto, sembra la classica scelta azzeccata. Perché in America il professore è una vera autorità in materia, e lo è sia a livello accademico, sia sul campo. Dal 2004, lavorando per due diversi governatori del Mississippi, uno dei più poveri Stati americani, Parisi ne ha completamente trasformato il sistema dei job center, i centri per l'impiego: «Dovevamo creare una struttura efficiente, affidabile e responsabilizzante», spiega. «Abbiamo puntato sulla piena informatizzazione, per mettere in contatto diretto le aziende e chi cercava lavoro». Parisi ha coinvolto 55.000 aziende, tutte collegate online con i job center. «Appena si crea una nuova opportunità di lavoro», dice il professore, «il sistema lo segnala ai centri e ai disoccupati potenzialmente interessati per formazione e curriculum». Il sistema Parisi funziona alla grande: solo negli ultimi cinque anni, in Mississippi, la disoccupazione è crollata dal 7,6 al 4,8%. E il metodo, grazie al successo, ha contagiato molti altri Stati americani, che continuano a copiare le sue idee. «Sì, abbiamo dato un contributo a modificare molte politiche federali», ammette lo studioso. Certo, dall'alto della sua esperienza Parisi è consapevole che in Italia la digitalizzazione è molto arretrata: «Ma 14 anni fa era così anche in Mississippi», obietta. «Per le grandi riforme strutturali servono sempre tempo e convinzione. In questo, il ministro Di Maio mi pare più che convinto. Io non lo conoscevo, però nelle due ore che abbiamo trascorso assieme m'è sembrato consapevole delle difficoltà, ma soprattutto della necessità di cambiare». L'incontro tra i due è avvenuto lo stesso venerdì del messaggio postato su Facebook. «Non ci eravamo mai visti prima», racconta Parisi, «ma il suo staff aveva saputo che quel giorno ero a Roma per parlare a una conferenza all'Università La Sapienza: il tema era proprio il rapporto tra digitalizzazione e mondo del lavoro. Invitato al ministero, con Di Maio abbiamo parlato di tutto quello che lui vorrebbe fare. Mi è piaciuto il suo entusiasmo e mi ha stupito la sua conoscenza approfondita del mio lavoro».Quel lavoro che Parisi ha impugnato come un'arma contro la povertà e la disoccupazione, un lavoro insistito e quasi accanito, lo si capisce ancora meglio scavando un poco nella sua vita. Che fin dai suoi primi giorni, a Ostuni, di certo non dev'essere stata facile: «La mia mamma», racconta, «era una ragazza madre e fu costretta a lasciarmi in un istituto. Qui sono stati bravissimi, mi hanno sempre fatto studiare e grazie a loro sono riuscito a laurearmi alla Cattolica di Milano. Ma poi non avevo alcun mezzo, così sono stato obbligato a emigrare. In America sono arrivato nel 1992: avevo la mia valigia e 100 dollari in tutto». Da quel fragile inizio, Parisi è riuscito ad approfondire i suoi studi all'Università della Pennsylvania e a diventare docente di sociologia negli atenei del Mississippi, dove si è occupato di segregazione e disoccupati, di formazione professionale e d'informatica applicata. A Starkville ha creato il National strategic planning and analysis research center, che è un modello di efficienza. Ma Parisi che cosa pensa del reddito di cittadinanza grillino? «Non so se sia l'idea giusta», risponde, «ma sono filosoficamente d'accordo: nessuno dovrebbe vivere in povertà. Tutto, però, va fatto a termine e senza assistenzialismo. La giusta risposta politica, anche qui negli Usa, è dare un sussidio ai poveri disoccupati e intanto formarli e trovare loro un lavoro: come nella legge varata nel 1996 da Bill Clinton, e votata anche dai repubblicani». Su Facebook, dopo l'incontro, Di Maio ha scritto di voler investire un miliardo e mezzo di euro per la «missione dei nuovi Centri per l'impiego». Ascoltando quella cifra monstre, dall'altra parte dell'Oceano, Parisi non si scompone affatto: «Il nostro budget in Mississippi, nel 2004, era molto più risicato», commenta. «Qui all'inizio avevamo a disposizione 70 milioni di dollari l'anno, ma ora ne spendiamo meno della metà. E questo proprio grazie alla tecnologia». È decisamente ottimista e positivo, Parisi, ma non è un ingenuo. Sa bene che l'Italia è diversa dall'America («Qui tutto si basa sulla fiducia e sulla responsabilità individuale, in Italia sul sospetto»). Sa che i 552 Centri per l'impiego italiani funzionano poco e male. Sa che ci lavorano 8.189 addetti, che costano 310 milioni l'anno e producono meno del 3% delle assunzioni. Sa anche che da noi non troverà rose e fiori, ma ostilità preconcetta e nemici. «Sono consapevole che non sarà facile», dice. «Ma sa come facciamo qui in America a distinguere il vincitore dal perdente? Di fronte a ogni sfida cruciale, il perdente dice: è impossibile. Il vincitore invece dice: sì è molto difficile, ma non impossibile».
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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