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2021-01-17
«Re Conte» riapre le seconde case. Ma serve una traduzione del dpcm
Nel caos della iper regolamentazione governativa in materia di Covid, ci sarebbe almeno una piccola - quasi simbolica - ragione per rallegrarsi: il nuovo dpcm appena entrato in vigore pone infatti riparo a uno degli svarioni precedenti, eliminando l'assurdo divieto di raggiungere la seconda casa, anche se ubicata in un'altra regione.
Lo si desume indirettamente dal confronto tra le norme natalizie e il nuovo dpcm. Nel decreto di Natale si leggeva: «È comunque consentito il rientro alla propria residenza, domicilio, abitazione, con esclusione degli spostamenti verso le seconde case ubicate in altra regione». Invece, nell'ultimo dpcm il passaggio che esclude esplicitamente le seconde case fuori regione è saltato.
Se n'è accorto tra i primi il presidente di Confedilizia, Giorgio Spaziani Testa, che ha commentato su Twitter: «La previsione della possibilità di raggiungere le seconde case anche fuori regione è l'opportuna correzione di un evidente errore compiuto nei provvedimenti precedenti». Tra l'altro, i proprietari immobiliari sono un bersaglio ormai sadicamente scelto dai giallorossi: lo Stato impone di continuare a pagare Imu e Tasi (e sulle seconde case si tratta di somme molto importanti), impedisce ai cittadini di raggiungerle, e se per caso hanno dato in affitto un immobile e l'inquilino non paga, non permette ai proprietari nemmeno di provare a far scattare lo sfratto. Con tanti saluti al diritto di proprietà, allo Stato di diritto e a un minimo di buon senso.
Tuttavia, colpisce il fatto che questa piccola ritrovata libertà debba essere - per così dire - desunta indirettamente e implicitamente, attraverso un'opera di confronto tra vecchia e nuova regolamentazione. Intendiamoci bene, in termini di tecnica normativa, questa dovrebbe essere la normalità: tutto ciò che non è vietato è per definizione permesso. E ciò che resta non regolato deve essere considerato automaticamente libero, possibile, non soggetto a restrizioni.
Ma questo sarebbe normale se vivessimo in un Paese di cultura - anche giuridica - liberale classica: poche norme, scritte chiaramente, pochi divieti e tutto il resto libero e consentito. Al contrario, come tutti sanno, qui in Italia è vero esattamente l'inverso: in ogni materia, si assiste a un affastellarsi confuso e ossessivo di regole, peraltro continuamente modificate, il che costringe anche il cittadino più diligente e scrupoloso a uno sforzo mostruoso per non sbagliare, per essere costantemente aggiornato. Anche perché - tragicamente - la legge non ammette ignoranza. Morale: ragionevolezza suggerirebbe che, se qualcosa era vietato fino a ieri e oggi diventa invece consentito, la novità fosse valorizzata in modo esplicito, evidente, immediatamente comprensibile a tutti, senza dover consultare l'avvocato.
Perché i tg pubblici, in larga misura così sensibili ai desiderata del governo, non hanno dato la notizia con evidenza? Perché il governo non ha chiarito apertis verbis la novità, nella sua comunicazione debordante? Ancora ieri sera alle 20, nelle Faq del sito www.governo.it, il quadro dei quesiti e delle ipotesi era fermo in attesa di aggiornamento.
E non si tratta di un caso isolato, ma di un vizio. Si pensi anche al tema delle mascherine. All'articolo 1 del nuovo decreto si legge testualmente: «È fatto obbligo sull'intero territorio nazionale di avere sempre con sé dispositivi di protezione delle vie respiratorie, nonché obbligo di indossarli nei luoghi al chiuso diversi dalle abitazioni private e in tutti i luoghi all'aperto a eccezione dei casi in cui, per le caratteristiche dei luoghi o per le circostanze di fatto, sia garantita in modo continuativo la condizione di isolamento rispetto a persone non conviventi». Come si vede, a una lettura attenta della norma, resterebbe la possibilità teorica di non indossare la mascherina (pur dovendola avere con sé) quando ci siano condizioni di ragionevole «isolamento». Eppure, nella comunicazione di governo, esperti e media amici (cioè quasi tutti), questo aspetto non viene mai valorizzato, e invece si insiste sempre su un obbligo generalizzato, ossessivo, quasi senza eccezioni.
Siamo alle solite. Un tratto caratteristico dei sistemi autoritari e illiberali è proprio l'incertezza del diritto, sorella dell'ipertrofia normativa: lo Stato regola tutto, e con ciò rende tutto incerto, lasciando il cittadino nel panico, e di fatto lo induce, lo espone all'errore e alla multa. È questa la forma mentis del legislatore giallorosso: nemico della libertà e della proprietà, sospettoso verso le scelte individuali (e, su un altro piano, verso le autonomie territoriali), ossessivamente regolatore e centralizzatore. E se per caso, per una volta, fa saltare un divieto, nemmeno te lo fa sapere con chiarezza, in modo da consentirti di fare una scelta a cuor leggero. No, vuole che sia tu a scoprirlo, magari rimanendo nel dubbio e vivendo costantemente nel timore di essere sanzionato, colto in fallo, beccato in flagranza. In una parola, facendo sentire gli italiani colpevoli anche a casa propria.
Mezza Italia ora si ribella ai divieti
Conteggi da rifare dopo una decisione troppo penalizzante. La Lombardia da oggi torna in zona rossa, ovvero nel regime normativo più restrittivo, che dovrebbe durare almeno fino al 31 gennaio, previsto dal dpcm varato dal governo venerdì pomeriggio, ma il presidente della Regione, Attilio Fontana, non ci sta. Ha già inviato una lettera al ministro della Salute, Roberto Speranza, ed è pronto anche un ricorso al Tar contro l'imposizione del cambio di colore alla regione più colpita dalla pandemia Covid. «Questa decisione è inutilmente punitiva poiché basata su dati vecchi che non tengono conto della situazione reale», ha detto Fontana. In sostanza, limitazioni troppo restrittive, che prendono in considerazione soltanto la velocità di diffusione del contagio e non il numero dei ricoverati in terapia intensiva rispetto alla popolazione, che invece colloca la Regione a metà classifica nazionale.
L'ordinanza di Speranza considera «un'incidenza dei contagi superiore a 50 casi ogni 100.000 abitanti e uno scenario di tipo 3 con un livello di rischio alto», ma si richiama anche «l'evolversi della situazione epidemiologica a livello internazionale e il carattere particolarmente diffusivo dell'epidemia da Covid-19». Nel ricorso il governatore, con i suoi legali, spalleggiato dalla sua vice nonché nuovo assessore al Welfare, Letizia Moratti, cita dati e documenti atti a dimostrare che in Lombardia la situazione è migliorata e quindi la Regione può essere promossa in fascia arancione. Nel dossier regionale si riporta il report della settimana dal 4 al 10 gennaio, con 13.469 casi per data diagnosi/prelievo, mentre nella settimana precedente c'erano stati 13.721 casi, con un trend quindi in leggerissima diminuzione (-1,8%). L'Rt in base al quale la Lombardia è in zona rossa è quello stimato al 30 dicembre ed è pari a 1,4 (Ci: 1,38-1,43). «Si segnala che nella settimana dal 21dicembre 2020 al 27 dicembre 2020 si sono verificati 10.920 casi e si ricorda altresì che Rt è calcolato sulla data inizio sintomi e non su data diagnosi/prelievo: è pertanto coerente con il dato di incremento di circa 3.000 casi nella settimana dal 28 dicembre 2020 al 3 gennaio 2021 rispetto alla settimana dal 21 dicembre 2020 al 27 dicembre 2020 che il valore di Rt sia salito».
Altro punto ribadito è che «la Lombardia sia considerata in zona rossa mentre altre Regioni con tassi di incidenza settimanali molto superiori non abbiano la stessa classificazione: la Lombardia ha circa un terzo dei casi del Veneto, la metà dei casi dell'Emilia Romagna, un dato inferiore al Lazio e al Friuli. Si specifica che inoltre il dato lombardo è inferiore alla media nazionale, pari a 183 casi per 100.000 abitanti».
Uniti nella protesta, oltre ai sindaci dei capoluoghi, tutti gli assessori regionali che definiscono questo lockdown alla Regione più produttiva d'Italia «una vergogna». Oltre ai colori, una delle misure più contestate del nuovo dpcm è il divieto della vendita da asporto per i bar dalle ore 18. «Un provvedimento che non porta vantaggi significativi sul piano della prevenzione e al contrario rischia di rappresentare un ulteriore fattore negativo di tensione sociale ed economica sui territori», ha detto il presidente della Conferenza Stato-Regioni, Stefano Bonaccini. Ma anche i ristoratori si sentono i più colpiti dai decreti e pensano ad altre proteste oltre a #Ioapro di venerdì scorso, così come gli studenti hanno organizzato manifestazioni per domani, giorno in cui nelle Regioni gialle e arancioni le scuole si riapriranno almeno al 50% della presenza.
A Roma, gruppi di 50 istituti superiori manifesteranno sono le finestre del ministero dell'Istruzione, mentre a Milano, dove continuano le occupazioni, viene vanificata dalla fascia rossa la sentenza del Tar che aveva bocciato l'ordinanza regionale sulla sospensione della didattica a distanza al 100% per le scuole superiori.
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Riduci
I «sudditi» scoprono da indiscrezioni di stampa che si può andare nelle dimore di proprietà pure fuori regione Ore dopo, la conferma di Chigi. Ambiguità sulle mascherine: all'aperto non c'è l'obbligo d'indossarle sempre.La Lombardia vuole appellarsi alle toghe contro la zona rossa. Continua la protesta dei ristoratori e si mobilitano anche gli studenti: domani manifesteranno davanti al Miur.Lo speciale contiene due articoli.Nel caos della iper regolamentazione governativa in materia di Covid, ci sarebbe almeno una piccola - quasi simbolica - ragione per rallegrarsi: il nuovo dpcm appena entrato in vigore pone infatti riparo a uno degli svarioni precedenti, eliminando l'assurdo divieto di raggiungere la seconda casa, anche se ubicata in un'altra regione. Lo si desume indirettamente dal confronto tra le norme natalizie e il nuovo dpcm. Nel decreto di Natale si leggeva: «È comunque consentito il rientro alla propria residenza, domicilio, abitazione, con esclusione degli spostamenti verso le seconde case ubicate in altra regione». Invece, nell'ultimo dpcm il passaggio che esclude esplicitamente le seconde case fuori regione è saltato. Se n'è accorto tra i primi il presidente di Confedilizia, Giorgio Spaziani Testa, che ha commentato su Twitter: «La previsione della possibilità di raggiungere le seconde case anche fuori regione è l'opportuna correzione di un evidente errore compiuto nei provvedimenti precedenti». Tra l'altro, i proprietari immobiliari sono un bersaglio ormai sadicamente scelto dai giallorossi: lo Stato impone di continuare a pagare Imu e Tasi (e sulle seconde case si tratta di somme molto importanti), impedisce ai cittadini di raggiungerle, e se per caso hanno dato in affitto un immobile e l'inquilino non paga, non permette ai proprietari nemmeno di provare a far scattare lo sfratto. Con tanti saluti al diritto di proprietà, allo Stato di diritto e a un minimo di buon senso. Tuttavia, colpisce il fatto che questa piccola ritrovata libertà debba essere - per così dire - desunta indirettamente e implicitamente, attraverso un'opera di confronto tra vecchia e nuova regolamentazione. Intendiamoci bene, in termini di tecnica normativa, questa dovrebbe essere la normalità: tutto ciò che non è vietato è per definizione permesso. E ciò che resta non regolato deve essere considerato automaticamente libero, possibile, non soggetto a restrizioni. Ma questo sarebbe normale se vivessimo in un Paese di cultura - anche giuridica - liberale classica: poche norme, scritte chiaramente, pochi divieti e tutto il resto libero e consentito. Al contrario, come tutti sanno, qui in Italia è vero esattamente l'inverso: in ogni materia, si assiste a un affastellarsi confuso e ossessivo di regole, peraltro continuamente modificate, il che costringe anche il cittadino più diligente e scrupoloso a uno sforzo mostruoso per non sbagliare, per essere costantemente aggiornato. Anche perché - tragicamente - la legge non ammette ignoranza. Morale: ragionevolezza suggerirebbe che, se qualcosa era vietato fino a ieri e oggi diventa invece consentito, la novità fosse valorizzata in modo esplicito, evidente, immediatamente comprensibile a tutti, senza dover consultare l'avvocato. Perché i tg pubblici, in larga misura così sensibili ai desiderata del governo, non hanno dato la notizia con evidenza? Perché il governo non ha chiarito apertis verbis la novità, nella sua comunicazione debordante? Ancora ieri sera alle 20, nelle Faq del sito www.governo.it, il quadro dei quesiti e delle ipotesi era fermo in attesa di aggiornamento.E non si tratta di un caso isolato, ma di un vizio. Si pensi anche al tema delle mascherine. All'articolo 1 del nuovo decreto si legge testualmente: «È fatto obbligo sull'intero territorio nazionale di avere sempre con sé dispositivi di protezione delle vie respiratorie, nonché obbligo di indossarli nei luoghi al chiuso diversi dalle abitazioni private e in tutti i luoghi all'aperto a eccezione dei casi in cui, per le caratteristiche dei luoghi o per le circostanze di fatto, sia garantita in modo continuativo la condizione di isolamento rispetto a persone non conviventi». Come si vede, a una lettura attenta della norma, resterebbe la possibilità teorica di non indossare la mascherina (pur dovendola avere con sé) quando ci siano condizioni di ragionevole «isolamento». Eppure, nella comunicazione di governo, esperti e media amici (cioè quasi tutti), questo aspetto non viene mai valorizzato, e invece si insiste sempre su un obbligo generalizzato, ossessivo, quasi senza eccezioni. Siamo alle solite. Un tratto caratteristico dei sistemi autoritari e illiberali è proprio l'incertezza del diritto, sorella dell'ipertrofia normativa: lo Stato regola tutto, e con ciò rende tutto incerto, lasciando il cittadino nel panico, e di fatto lo induce, lo espone all'errore e alla multa. È questa la forma mentis del legislatore giallorosso: nemico della libertà e della proprietà, sospettoso verso le scelte individuali (e, su un altro piano, verso le autonomie territoriali), ossessivamente regolatore e centralizzatore. E se per caso, per una volta, fa saltare un divieto, nemmeno te lo fa sapere con chiarezza, in modo da consentirti di fare una scelta a cuor leggero. No, vuole che sia tu a scoprirlo, magari rimanendo nel dubbio e vivendo costantemente nel timore di essere sanzionato, colto in fallo, beccato in flagranza. In una parola, facendo sentire gli italiani colpevoli anche a casa propria. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/re-conte-riapre-le-seconde-case-ma-serve-una-traduzione-del-dpcm-2649962692.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="mezza-italia-ora-si-ribella-ai-divieti" data-post-id="2649962692" data-published-at="1610830509" data-use-pagination="False"> Mezza Italia ora si ribella ai divieti Conteggi da rifare dopo una decisione troppo penalizzante. La Lombardia da oggi torna in zona rossa, ovvero nel regime normativo più restrittivo, che dovrebbe durare almeno fino al 31 gennaio, previsto dal dpcm varato dal governo venerdì pomeriggio, ma il presidente della Regione, Attilio Fontana, non ci sta. Ha già inviato una lettera al ministro della Salute, Roberto Speranza, ed è pronto anche un ricorso al Tar contro l'imposizione del cambio di colore alla regione più colpita dalla pandemia Covid. «Questa decisione è inutilmente punitiva poiché basata su dati vecchi che non tengono conto della situazione reale», ha detto Fontana. In sostanza, limitazioni troppo restrittive, che prendono in considerazione soltanto la velocità di diffusione del contagio e non il numero dei ricoverati in terapia intensiva rispetto alla popolazione, che invece colloca la Regione a metà classifica nazionale. L'ordinanza di Speranza considera «un'incidenza dei contagi superiore a 50 casi ogni 100.000 abitanti e uno scenario di tipo 3 con un livello di rischio alto», ma si richiama anche «l'evolversi della situazione epidemiologica a livello internazionale e il carattere particolarmente diffusivo dell'epidemia da Covid-19». Nel ricorso il governatore, con i suoi legali, spalleggiato dalla sua vice nonché nuovo assessore al Welfare, Letizia Moratti, cita dati e documenti atti a dimostrare che in Lombardia la situazione è migliorata e quindi la Regione può essere promossa in fascia arancione. Nel dossier regionale si riporta il report della settimana dal 4 al 10 gennaio, con 13.469 casi per data diagnosi/prelievo, mentre nella settimana precedente c'erano stati 13.721 casi, con un trend quindi in leggerissima diminuzione (-1,8%). L'Rt in base al quale la Lombardia è in zona rossa è quello stimato al 30 dicembre ed è pari a 1,4 (Ci: 1,38-1,43). «Si segnala che nella settimana dal 21dicembre 2020 al 27 dicembre 2020 si sono verificati 10.920 casi e si ricorda altresì che Rt è calcolato sulla data inizio sintomi e non su data diagnosi/prelievo: è pertanto coerente con il dato di incremento di circa 3.000 casi nella settimana dal 28 dicembre 2020 al 3 gennaio 2021 rispetto alla settimana dal 21 dicembre 2020 al 27 dicembre 2020 che il valore di Rt sia salito». Altro punto ribadito è che «la Lombardia sia considerata in zona rossa mentre altre Regioni con tassi di incidenza settimanali molto superiori non abbiano la stessa classificazione: la Lombardia ha circa un terzo dei casi del Veneto, la metà dei casi dell'Emilia Romagna, un dato inferiore al Lazio e al Friuli. Si specifica che inoltre il dato lombardo è inferiore alla media nazionale, pari a 183 casi per 100.000 abitanti». Uniti nella protesta, oltre ai sindaci dei capoluoghi, tutti gli assessori regionali che definiscono questo lockdown alla Regione più produttiva d'Italia «una vergogna». Oltre ai colori, una delle misure più contestate del nuovo dpcm è il divieto della vendita da asporto per i bar dalle ore 18. «Un provvedimento che non porta vantaggi significativi sul piano della prevenzione e al contrario rischia di rappresentare un ulteriore fattore negativo di tensione sociale ed economica sui territori», ha detto il presidente della Conferenza Stato-Regioni, Stefano Bonaccini. Ma anche i ristoratori si sentono i più colpiti dai decreti e pensano ad altre proteste oltre a #Ioapro di venerdì scorso, così come gli studenti hanno organizzato manifestazioni per domani, giorno in cui nelle Regioni gialle e arancioni le scuole si riapriranno almeno al 50% della presenza. A Roma, gruppi di 50 istituti superiori manifesteranno sono le finestre del ministero dell'Istruzione, mentre a Milano, dove continuano le occupazioni, viene vanificata dalla fascia rossa la sentenza del Tar che aveva bocciato l'ordinanza regionale sulla sospensione della didattica a distanza al 100% per le scuole superiori.
Kaja Kallas (Ansa)
Kallas è il falco della Commissione, quando si tratta di Russia, e tiene a rimarcarlo. A proposito dei fondi russi depositati presso Euroclear, l’estone dice nell’intervista che il Belgio non deve temere una eventuale azione di responsabilità da parte della Russia, perché «se davvero la Russia ricorresse in tribunale per ottenere il rilascio di questi asset o per affermare che la decisione non è conforme al diritto internazionale, allora dovrebbe rivolgersi all’Ue, quindi tutti condivideremmo l’onere».
In pratica, cioè, l’interpretazione piuttosto avventurosa di Kallas è che tutti gli Stati membri sarebbero responsabili in solido con il Belgio se Mosca dovesse ottenere ragione da qualche tribunale sul sequestro e l’utilizzo dei suoi fondi.
Tribunale sui cui l’intervistata è scettica: «A quale tribunale si rivolgerebbe (Putin, ndr)? E quale tribunale deciderebbe, dopo le distruzioni causate in Ucraina, che i soldi debbano essere restituiti alla Russia senza che abbia pagato le riparazioni?». Qui l’alto rappresentante prefigura uno scenario, quello del pagamento delle riparazioni di guerra, che non ha molte chance di vedere realizzato.
All’intervistatore che chiede perché per finanziare la guerra non si usino gli eurobond, cioè un debito comune europeo, Kallas risponde: «Io ho sostenuto gli eurobond, ma c’è stato un chiaro blocco da parte dei Paesi Frugali, che hanno detto che non possono farlo approvare dai loro Parlamenti». È ovvio. La Germania e i suoi satelliti del Nord Europa non vogliano cedere su una questione sulla quale non hanno mai ceduto e per la quale, peraltro, occorre una modifica dei trattati su cui serve l’unanimità e la ratifica poi di tutti i parlamenti. Con il vento politico di destra che soffia in tutta Europa, con Afd oltre il 25% in Germania, è una opzione politicamente impraticabile. Dire eurobond significa gettare la palla in tribuna.
In merito all’adesione dell’Ucraina all’Unione europea già nel 2027, come vorrebbe il piano di pace americano, Kallas se la cava con lunghe perifrasi evitando di prendere posizione. Secondo l’estone, l’adesione all’Ue è una questione di merito e devono decidere gli Stati membri. Ma nel piano questo punto è importante e sembra difficile che venga accantonato.
Kallas poi reclama a gran voce un posto per l’Unione al tavolo della pace: «Il piano deve essere tra Russia e Ucraina. E quando si tratta dell’architettura di sicurezza europea, noi dobbiamo avere voce in capitolo. I confini non possono essere cambiati con la forza. Non ci dovrebbero essere concessioni territoriali né riconoscimento dell’occupazione». Ma lo stesso Zelensky sembra ormai convinto che almeno un referendum sulla questione del Donbass sia possibile. Insomma, Kallas resta oltranzista ma i fatti l’hanno già superata.
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Riduci
Carlo Messina all'inaugurazione dell'Anno Accademico della Luiss (Ansa)
La domanda è retorica, provocatoria e risuona in aula magna come un monito ad alzare lo sguardo, a non limitarsi a contare i droni e limare i mirini, perché la risposta è un’altra. «In Europa abbiamo più poveri e disuguaglianza di quelli che sono i rischi potenziali che derivano da una minaccia reale, e non percepita o teorica, di una guerra». Un discorso ecumenico, realistico, che evoca l’immagine dell’esercito più dolente e sfinito, quello di chi lotta per uscire dalla povertà. «Perché è vero che riguardo a welfare e democrazia non c’è al mondo luogo comparabile all’Europa, ma siamo deboli se investiamo sulla difesa e non contro la povertà e le disuguaglianze».
Le parole non scivolano via ma si fermano a suggerire riflessioni. Perché è importante che un finanziere - anzi colui che per il 2024 è stato premiato come banchiere europeo dell’anno - abbia un approccio sociale più solido e lungimirante delle istituzioni sovranazionali deputate. E lo dimostri proprio nelle settimane in cui sentiamo avvicinarsi i tamburi di Bruxelles con uscite guerrafondaie come «resisteremo più di Putin», «per la guerra non abbiamo fatto abbastanza» (Kaja Kallas, Alto rappresentante per la politica estera) o «se vogliamo evitare la guerra dobbiamo preparaci alla guerra», «dobbiamo produrre più armi, come abbiamo fatto con i vaccini» (Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea).
Una divergenza formidabile. La conferma plastica che l’Europa dei diritti, nella quale ogni minoranza possibile viene tutelata, si sta dimenticando di salvaguardare quelli dei cittadini comuni che alzandosi al mattino non hanno come priorità la misura dell’elmetto rispetto alla circonferenza cranica, ma il lavoro, la famiglia, il destino dei figli e la difesa dei valori primari. Il ceo di Banca Intesa ricorda che il suo gruppo ha destinato 1,5 miliardi per combattere la povertà, sottolinea che la grande forza del nostro Paese sta «nel formidabile mondo delle imprese e nel risparmio delle famiglie, senza eguali in Europa». E sprona le altre grandi aziende: «In Italia non possiamo aspettarci che faccia tutto il governo, se ci sono aziende che fanno utili potrebbero destinarne una parte per intervenire sulle disuguaglianze. Ogni azienda dovrebbe anche lavorare perché i salari vengano aumentati. Sono uno dei punti di debolezza del nostro Paese e aumentarli è una priorità strategica».
Con l’Europa Carlo Messina non ha finito. Parlando di imprenditoria e di catene di comando, coglie l’occasione per toccare in altro nervo scoperto, perfino più strutturale dell’innamoramento bellicista. «Se un’azienda fosse condotta con meccanismi di governance come quelli dell’Unione Europea fallirebbe». Un autentico missile Tomahawk diretto alla burocrazia continentale, a quei «nani di Zurigo» (copyright Woodrow Wilson) trasferitisi a Bruxelles. La spiegazione è evidente. «Per competere in un contesto globale serve un cambio di passo. Quella europea è una governance che non si vede in nessun Paese del mondo e in nessuna azienda. Perché è incapace di prendere decisioni rapide e quando le prende c’è lentezza nella realizzazione. Oppure non incidono realmente sulle cose che servono all’Europa».
Il banchiere è favorevole a un ministero dell’Economia unico e ritiene che il vincolo dell’unanimità debba essere tolto. «Abbiamo creato una banca centrale che gestisce la moneta di Paesi che devono decidere all’unanimità. Questo è uno degli aspetti drammatici». Ma per uno Stato sovrano che aderisce al club dei 27 è anche l’unica garanzia di non dover sottostare all’arroganza (già ampiamente sperimentata) di Francia e Germania, che trarrebbero vantaggi ancora più consistenti senza quel freno procedurale.
Il richiamo a efficienza e rapidità riguarda anche l’inadeguatezza del burosauro e riecheggia la famosa battuta di Franz Joseph Strauss: «I 10 comandamenti contengono 279 parole, la dichiarazione americana d’indipendenza 300, la disposizione Ue sull’importazione di caramelle esattamente 25.911». Un esempio di questa settimana. A causa della superfetazione di tavoli e di passaggi, l’accordo del Consiglio Affari interni Ue sui rimpatri dei migranti irregolari e sulla liceità degli hub in Paesi terzi (recepito anche dal Consiglio d’Europa) entrerà in vigore non fra 60 giorni o 6 mesi, ma se va bene fra un anno e mezzo. Campa cavallo.
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Riduci
Luca Casarini. Nel riquadro, il manifesto abusivo comparso a Milano (Ansa)
Quando non è tra le onde, Casarini è nel mare di Internet, dove twitta. E pure parecchio. Dice la sua su qualsiasi cosa. Condivide i post dell’Osservatore romano e quelli di Ilaria Salis (del resto, tra i due, è difficile trovare delle differenze, a volte). Ma, soprattutto, attacca le norme del governo e dell’Unione europea in materia di immigrazione. Si sente Davide contro Golia. E lotta, invitando anche ad andare contro la legge. Quando, qualche giorno fa, è stata fermata la nave Humanity 1 (poi rimessa subito in mare dal tribunale di Agrigento) Casarini ha scritto: «Abbatteremo i vostri muri, taglieremo i fili spinati dei vostri campi di concentramento. Faremo fuggire gli innocenti che tenete prigionieri. È già successo nella Storia, succederà ancora. In mare come in terra. La disumanità non vincerà. Fatevene una ragione». Questa volta si sentiva Oskar Schindler, anche se poi va nei cortei pro Pal che inneggiano alla distruzione dello Stato di Israele.
Chi volesse approfondire il suo pensiero, poi, potrebbe andare a leggersi L’Unità del 10 dicembre scorso, il cui titolo è già un programma: Per salvare i migranti dobbiamo forzare le leggi. Nel testo, che risparmiamo al lettore, spiega come l’Ue si sia piegata a Giorgia Meloni e a Donald Trump in materia di immigrazione. I sovranisti (da quanto tempo non sentivamo più questo termine) stanno vincendo. Bisogna fare qualcosa. Bisogna reagire. Ribellarsi. Anche alle leggi. Il nostro, sempre attento ad essere politicamente corretto, se la prende pure con gli albanesi che vivono in un Paese «a metà tra un narcostato e un hub di riciclaggio delle mafie di mezzo mondo, retto da un “dandy” come Rama, più simile al Dandy della banda della Magliana che a quel G.B. Brummel che diede origine al termine». Casarini parla poi di «squadracce» che fanno sparire i migranti e di presunte «soluzioni finali» per questi ultimi. E auspica un modello alternativo, che crei «reti di protezione di migranti e rifugiati, per sottrarli alle future retate che peraltro avverranno in primis nei luoghi di “non accoglienza”, così scientificamente creati nelle nostre città da un programma di smantellamento dei servizi sociali, educativi e sanitari, che mostra oggi i suoi risultati nelle sacche di marginalità in aumento».
Detto, fatto. Qualcuno, in piazzale Cuoco a Milano, ha infatti pensato bene di affiggere dei manifesti anonimi con le indicazioni, per i migranti irregolari, su cosa fare per evitare di finire nei centri di permanenza per i rimpatri, i cosiddetti di Cpr. Nessuna sigla. Nessun contatto. Solo diverse lingue per diffondere il vademecum: l’italiano, certo, ma anche l’arabo e il bengalese in modo che chiunque passi di lì posa capire il messaggio e sfuggire alla legge. Ti bloccano per strada? Non far vedere il passaporto. Devi andare in questura? Presentati con un avvocato. Ti danno un documento di espulsione? Ci sono avvocati gratis (che in realtà pagano gli italiani con le loro tasse). E poi informazioni nel caso in cui qualcuno dovesse finire in un cpr: avrai un telefono, a volte senza videocamera. E ancora: «Se non hai il passaporto del tuo Paese prima di deportarti l’ambasciata ti deve riconoscere. Quindi se non capisci la lingua in cui ti parla non ti deportano. Se ti deportano la polizia italiana ti deve lasciare un foglio che spiega perché ti hanno deportato e quanto tempo deve passare prima di poter ritornare in Europa. È importante informarci e organizzarci insieme per resistere!».
Per Sara Kelany (Fdi), «dire che i Cpr sono “campi di deportazione” e “prigioni per persone senza documenti” è una mistificazione che non serve a tutelare i diritti ma a sostenere e incentivare l’immigrazione irregolare con tutti i rischi che ne conseguono. Nei Cpr vengono trattenuti migranti irregolari socialmente pericolosi, che hanno all’attivo condanne per reati anche molto gravi. Potrà dispiacere a qualche esponente della sinistra o a qualche attivista delle Ong - ogni riferimento a Casarini non è casuale - ma in Italia si rispettano le nostre leggi e non consentiamo a nessuno di aggirarle». Per Francesco Rocca (Fdi), si tratta di «un’affissione abusiva dallo sgradevole odore eversivo».
Casarini, da convertito, diffonde il verbo. Che non è quello che si è incarnato, ma quello che tutela l’immigrato.
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