2025-07-26
Raboso da antologia. Celebrato da Goldoni, riscoperto da Soldati
Nella Marca Trevigiana, il vino bevuto dai rematori sulle galere di Venezia torna a nuova vita. Maturando in modi più raffinati.Nelle cronache degli ultimi mesi serpeggia il timore legato all’andamento altalenante di dazi minacciosi tra le due sponde atlantiche, con un serio rischio per le quote del nostro made in Italy, in particolare quello applicato ai piaceri della gola, tra un buon piatto e un calice dal brindisi.Oramai bandiera vinicola della Marca Trevigiana è indubbiamente il prosecco, con pieno merito di quei produttori che hanno saputo tenere alta la qualità senza rincorrere le facili tentazioni dei grandi numeri dal prezzo stracciato. Ma è proprio in questa ottica che va reso il debito onore anche a un’altra eccellenza locale che, anche se non è una star hollywoodiana come il prosecco, ha pari quarti di nobiltà enologica, ovvero il raboso del Piave. Una storia che parte da lontano: le prime testimonianze arrivano dal maestro del teatro rinascimentale, Angelo Beolco, passato alla storia come Ruzante. Animava le serate di Alvise Cornaro, tra le famiglie più illustri del Rinascimento veneto. In un sonetto scritto nel 1521 così presentò l’allora raboso al cardinale Marco Cornaro: «L’è un vin sgarboso c’hel dise bevime e ch’el fa resuscitar i morti». Dalla lirica alla prosa il passo è breve e facilmente intuibile.Ruzante descrive un vino un po’ rustico, che ti attira calice dopo calice, una sorta di elisir di lunga vita. Più concreto Jacopo Agostinetti, un coltivatore della vicina Cimadolmo, alcuni anni dopo: «Èil vino più gradito e più richiesto dai mercanti veneziani». Per diversi motivi. Essendo molto «robusto» per sentori e relativa gradazione, era utile come vino da taglio per rafforzare altre colture «enoicamente» più fragili ma, soprattutto, era un vino che sapeva resistere anche a condizioni non ideali di conservazione, tanto è vero che era il preferito per rifornire le cambuse delle galere commerciali della Serenissima che veleggiavano tra i porti dell’Adriatico.Ogni marinaio ne aveva una dose garantita di circa mezzo litro giornaliero, carburante ideale per dare maggior forza al remo nelle lunghe traversate. Tanto è vero che lo stesso Carlo Goldoni, nei suoi testi, lo promosse quale «vin da viajo», vino da viaggio, senza se e senza ma. Tuttavia, con l’evolversi dei tempi e le contaminazioni con altre coltivazioni, la sua rusticità cominciò a diventare un limite, più che un pregio, se si continuava a trattarlo senza particolari attenzioni. Come ha documentato a fine Ottocento Antonio Carpenè di Conegliano, uno dei padri fondatori della moderna enologia, il raboso, progressivamente, si vide confinato solo al consumo locale, e anche i foresti che momentaneamente sostavano nella terra trevigiana avevano grosse riserve nell’adottarlo ai loro abbinamenti con l’ottima cucina locale. Un andamento altalenante.Nello stesso periodo, la viticoltura del Nord-Est venne devastata da parassiti quali filossera e peronospora. Il raboso fu tra i pochi a resistere, ma non fu sufficiente a riabilitarlo nell’uso quotidiano come un tempo. Infatti l’imporsi di altre coltivazioni lo relegò sempre di più nel dimenticatoio non solo delle osterie, ma anche delle normali cantine di famiglia. Il riscatto iniziò negli anni Settanta del Novecento. Il primo a sostenerlo fu Mario Soldati che, giunto a Fontanelle sulle rive del Piave, emise una diagnosi puntuale: «Per esprimere al meglio le sue caratteristiche ha bisogno di un lungo invecchiamento», anche se, purtroppo, sia tra i pochi produttori rimasti sia tra i consumatori, questo è stato un un tema cui non si è mai prestata la dovuta attenzione.Ma la vera curiosità a Soldati venne da altra riflessione: «È un vino pieno di mistero, forse il segreto sta nel suo terreno». E, in effetti, le grave del Piave, cioè i terreni ghiaiosi che ne fanno corona lungo il suo scorrere dalle Alpi all’Adriatico, fanno la differenza. Il Piave è un fiume carico, a volte, di «devastante potenza nelle sue piene autunnali», con rovinose esondazioni. Ideale bacino nutritivo per l’accumulo dei fermenti che così giungono dai boschi del Comelico e del Cadore, il tutto abbinato alle correnti d’aria che si incrociano tra Nord alpino e Sud marino, base di un microclima del tutto originale.Tra i produttori resistenti, Ivano Cescon, con il suo «Tralcetto», un raboso al cui collo della bottiglia era legato con un nastrino un rametto della vite rabosa. Dopo Mario Soldati quale altro miglior testimone se non Gino Veronelli? Lo sperimenta nella cantina di Giorgio Cecchetto a Tezze di Piave: «Sua nasità», così lo descrive, «è una realtà fascinosa per acidità, profumi e struttura». È giunto il momento del riscatto grazie non solo ai produttori, con le nuove generazioni che si rivelano più sensibili all’eredità delle radici, ma grazie anche ai suoi sostenitori, riuniti nel dicembre nel 1996 per fondare la Confraternita del raboso del Piave, ora presieduta da Mario Barbieri. Ha una mission molto chiara: promuoverne la conoscenza, la valorizzazione e la diffusione, a tutti livelli. Nella ristorazione come nella quotidianità familiare e, soprattutto, nel reclutare giovani talenti tra coltivatori e produttori. Immancabile il logo con il leone serenissimo a ricordare le antiche origini, con una sorta di corona in cui da un lato vi è la torre civica del Comune di Vazzola, dove la confraternita è stata fondata, dall’altro il richiamo a una vite, riunite da una stilizzazione dei sassi che accompagnano il corso del Piave, quello che dà nutrimento alle vigne.Come in tutte le ritualità delle varie confraternite, non manca il tocco di colore, vuoi nell’intronizzazione dei nuovi confratelli, così come nell’inno dedicato, intonato dal tenore Renato Zuin: «Quando ti assaggio sento un’ebrezza che forte mi assale, o terra mia e fiume che ci avete donato il nostro raboso, quello che mi dà orgoglio e passione e mi fa sentire un leone». Ma chi ha saputo tratteggiarlo al meglio forse è stato Paolo Luciani, sommelier e poeta in libera uscita: «Il raboso è sanguigno, irruento, caratteriale. Se gli si doma il carattere, senza snaturarlo, se gli si lascia sbrigliato il suo travolgente istinto di purosangue, avendogli indicato la direzione da seguire, regala suggestioni seducenti e indelebili». Viene voglia di armarsi di cavatappi, ma ancora una sosta è necessaria, prima di liberare gli «enormoni»: «È come una donna che cela la propria intensa sensualità sotto le mentite spoglie di una apparente ritrosia». Immaginate di avere davanti a voi i tratti della Valentina di Guido Crepax e chiudete la porta agli occhi curiosi, perché adesso il contatto con il raboso diventa intimo, sempre sotto la guida di Paolo Luciani: «È un vino in crescita che sta studiando da grande», anche perché «si esalta in un matrimonio d’amore con il cibo» posto che «i vini importanti non nascono per gli assoli, ma per dare il meglio di sé in duetto con la grande gastronomia». Riaprite la porta e condividete a tavola con degni compari di palato i vari abbinamenti in cui il raboso si può valorizzare, nelle diverse varianti con le quali può esprimersi.E qui è il momento di rendere il dovuto omaggio al già citato Giorgio Cecchetto che lo ha adottato con una convinzione: «Servirsi della tradizione come un trampolino verso il futuro». Sua l’intuizione di favorirne la migliore maturazione testando botti realizzate con legni diversi: dal gelso al ciliegio o l’acacia. Concorrente in versione rosè del prosecco, ma anche intrigante nella variante passita, un’autentica eccellenza. Raboso che, a seconda delle sue elaborazioni può far incrociare i calici con del risotto al radicchio ma, soprattutto, con la selvaggina, dalla beccaccia alla lepre, ma anche con carni alla griglia, arrosto di maiale, salendo di grado per arrivare, assieme al passito, con degni formaggi erborinati e financo torte al cioccolato.Se Carlo Goldoni aveva classificato il raboso come vino da viaggio per marinai, ora si è evoluto a vino da viaggio a tutto menù. Brindare per credere.
Emmanuel Macron (Getty Images). Nel riquadro Virginie Joron
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L'evento organizzato dal quotidiano La Verità per fare il punto sulle prospettive della transizione energetica. Sul palco con il direttore Maurizio Belpietro e il vicedirettore Giuliano Zulin, il ministro dell'Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, il presidente di Regione Lombardia Attilio Fontana, il presidente di Ascopiave Nicola Cecconato, il direttore Ingegneria e realizzazione di Progetto Terna Maria Rosaria Guarniere, l'Head of Esg Stakeholders & Just Transition Enel Maria Cristina Papetti, il Group Head of Soutainability Business Integration Generali Leonardo Meoli, il Project Engineering Director Barilla Nicola Perizzolo, il Group Quality & Soutainability Director BF Spa Marzia Ravanelli, il direttore generale di Renexia Riccardo Toto e il presidente di Generalfinance, Boconi University Professor of Corporate Finance Maurizio Dallocchio.
Kim Jong-un (Getty Images)