2020-02-29
Quanto piace il morbo ai nostri intellò: «Il contagio è morte ma fa sentire vivi»
Michela Murgia (Stefania D'Alessandro, Getty Images)
Da Michele Serra a Sandro Veronesi fino a Michela Murgia, la conta dei pazienti eccita i pensatori. Anche perché la colpa ce l'ha «l'uomo in cravatta».Agli scrittori italiani manca terribilmente una guerra. Per la maggior parte di costoro, l'esperienza più estrema affrontata nel corso degli anni è stata la lettura (quando non direttamente la scrittura) di un romanzo di Walter Veltroni. Ovvio, dunque, che il coronavirus abbia rappresentato per molti l'occasione di misurarsi con la Catastrofe e la Disgrazia. Il grande americano William Vollmann, in cerca di territori estremi dello spirito, si metteva lo zaino in spalla e andava nell'Afghanistan dilaniato dal conflitto, i nostri letterati si tolgono le pantofole e scendono sotto casa. I più sprezzanti del pericolo rifiutano persino d'indossare la mascherina. Tutti però - romanzieri, poeti o intellettuali generici - dal confronto con il virus traggono profondi insegnamenti. Laddove la Chiesa (pur con grottesche eccezioni) mostra un atteggiamento cauto e pure una certa attenzione alle parole dei medici, il nuovo clero dei maestri del pensiero si lascia andare a esperienze mistiche, dettaglia in articolesse gravide di significato l'incontro con il Grande Ignoto. Michele Serra, per esempio, ci informa che «il contagio è morte (in minuscola percentuale) ma è anche vita, l'inevitabile cozzo delle traiettorie, dei viaggi, dei corpi in movimento». Già, l'inevitabile cozzo è un po' pure l'inevitabile e sticazzi. Grazie all'epidemia, continua San Michele, «ti senti meno lontano, anzi molto più vicino al medico di Codogno, e al remoto pensionato di Vo' Euganeo». Ah, grazie al cielo che è piovuta la piaga cinese, altrimenti per i nostri fini pensatori le cittadine in questione sarebbero rimaste per sempre shithole countries di trumpiana memoria. La morale di Serra è chiara: «Almeno a questo serve il contagio. Farci sentire, nel vivo della nostra carne, e della nostra paura, e del nostro sacrosanto rifiuto della paura, che di qui al Po, e alla Cina, e all'Iran, i passi sono pochi». Poi il Maestro ci illumina: «Nessun uomo è un'isola». Vero. E neanche un supermercato lo è: ce lo aveva già chiarito lo spot della Conad, anche senza virus.Ovvio, siamo tutti fratelli, il mondo è piccolo e la globalizzazione mormora, e mica possiamo isolarci e chiuderci come vorrebbero quegli idioti illetterati dei sovranisti. Questa è l'opinione prevalente: il coronavirus, dicono gli stimati professionisti della cultura, ci insegna che le destre hanno torto. Tale pensiero si manifesta con diverse gradazioni di astio. Sandro Veronesi, per dire, ritwitta con soddisfazione commenti sull'italiano che avrebbe portato il contagio in Nigeria, poi torna a prendersela con Roberto Burioni, colpevole di aver scritto un libro e di volerlo pure vendere, mentre si sa che l'unico tomo da acquistare è Colibrì del Veronesi medesimo, come ci hanno spiegato circa un miliardo di recensioni amichevoli.Del resto la soddisfazione per le frontiere chiuse agli italiani è comune, specie fra gli immigrazionisti di provata fede. Se a qualcuno di questi osavi ricordare che, grazie alle migrazioni, da noi è tornata la Tbc, ti trattava come fossi Mengele. Ora tutti gongolano per il «contrappasso», dimenticando che in Africa e in altre zone il conto degli eventuali contagiati è quanto meno deficitario. E, in ogni caso, nessuno dei nostri connazionali ha preteso di entrare illegalmente in un altro Paese: semmai si sono mossi per portare denaro, lavoro e altre quisquilie a chi ora li lascia alla porta. Sul Manifesto, però, Marco Bersani riesuma con gusto stereotipi ottocenteschi sul padronato: «Il virus è arrivato via aereo con la cravatta dell'uomo d'affari, non via mare con gli abiti sdruciti del migrante», sentenzia. Primo, non lo sappiamo. Secondo, oggi l'uomo d'affari realmente pericoloso è più facile che indossi abiti sdruciti da guru della Silicon Valley. La cravatta la mette il ristoratore di Milano che si trova il locale vuoto, altroché. Poco importa: il mantra è la celebrazione dei confini aperti. «L'idea che l'apertura verso l'esterno sia pericolosa e foriera di costi per la massa dei cittadini, mentre la chiusura sarebbe allo stesso tempo rassicurante e vantaggiosa» è una bestialità sovranista, sostiene il sociologo Maurizio Ambrosini su Avvenire. Poi aggiunge che ci vorrebbe «reciprocità», come a dire che se noi chiudiamo le frontiere, dobbiamo aspettarci che le chiudano pure gli altri. Piccolo problema: noi le frontiere le abbiamo giusto accostate per qualche mese, gli altri le chiudono eccome. Ma va bene la reciprocità: siamo pronti a ospitare fior di croceristi nigeriani.Fortuna che c'è la scrittrice Chiara Valerio: almeno lei, riscoprendo Venezia «bella e surreale nel silenzio», si è resa conto che «la nostra politica non si occupa più nemmeno della nostra economia». Ecco, diciamo che non c'era bisogno del virus per averne sentore. Quello delle strade deserte e suggestive, in ogni caso, è un topos della nuova letteratura virale. Il più fulgido esempio ce lo ha regalato Michela Murgia, augurandosi che il corona continuasse a diffondersi onde garantire una maggiore «vivibilità» di Milano. Ci siamo permessi di ricordarle, su queste pagine, che l'epidemia ha portato anche una certa «mortalità», specie fra gli anziani, e lei se l'è presa. Ieri ha scritto su Twitter: «E anche stamattina sui giornali filoleghisti (autorevoli, eh, tipo La Verità) scrivono che per trovare meno traffico ho augurato la morte per virus a tutta Italia. La buona notizia è che il virus bene o male passerà. La cattiva è che le idiozie in malafede non muoiono mai». Insultare gli altri per sfuggire alla figuraccia è un metodo antico, molto utilizzato in varie scuole medie del Paese. Ma su una cosa la Murgia ha ragione: le idiozie in malafede sono molto diffuse. Specie da quando lei scrive libri.
Manifestazione a Roma di Ultima Generazione (Ansa)