
Il fondatore di Facebook ammette le sue responsabilità dopo lo scoppio del caso Cambridge Analytica. Ma nel 2010 il sito Business Insider rivelò le sue intenzioni: «Ho nomi e indirizzi di tutti, e me li danno loro». Facebook è nei guai e Mark Zuckerberg rompe il silenzio: «Abbiamo la responsabilità di proteggere i vostri dati, e se non siamo in grado di farlo non ci meritiamo di fornirvi i nostri servizi». Inizia così un lungo comunicato del fondatore del più popolare dei social network, che arriva a diversi giorni dallo scoppio del caso. Lo scorso fine settimana il Guardian e il New York Times hanno infatti scoperchiato uno scandalo, in parte già noto, che ha provocato un tonfo in borsa del social network fondato da Mark Zuckerberg, oltre a minacciare conseguenze giudiziarie e politiche. La vicenda riguarda l'utilizzo dei dati di 50 milioni di utenti della piattaforma online da parte di una società di marketing, Cambridge analytica, della quale, per un periodo, fu vicepresidente Steve Bannon, guru della campagna elettorale di Donald Trump. Servendosi di un'app che raccoglieva legalmente le preferenze degli utilizzatori di Facebook, Cambridge analytica ha creato un enorme database, che poi è stato trasmesso al team di Trump per consentirgli di calibrare gli spot elettorali su internet quasi ad personam. La cessione dei dati a soggetti terzi era proibita dal regolamento sulla privacy di Facebook, ma il social ha oscurato la pagina della società di marketing, che si era autodenunciata, soltanto quando il polverone si era già alzato. Così, in pochi giorni, Facebook in borsa ha bruciato 50 miliardi di dollari. Nella giornata di ieri, il titolo ha perso altri due punti percentuali, per poi risalire leggermente nel pomeriggio. Addirittura, Zuckerberg sarebbe arretrato di due posizioni nella classifica degli uomini più ricchi del mondo (finora era al quinto posto). Da sottolineare che, una ventina di giorni fa, il fondatore del social network aveva venduto circa 500 milioni delle sue azioni. Ufficialmente, la mossa rientrava in un piano annunciato nel 2015, che dovrebbe portare Zuckerberg a cedere il 99% delle sue quote di Facebook, al fine di finanziare un ente benefico creato insieme alla moglie. La tempistica, tuttavia, lascerebbe ipotizzare che egli fosse consapevole delle difficoltà imminenti. Ad aggravarne la situazione, c'è la mobilitazione virale #DeleteFacebook (eliminare Facebook), cui ha partecipato anche il fondatore di Whatsapp, Brian Acton, in cattivi rapporti con Zuckerberg, dopo l'acquisizione della nota app di messaggistica da parte della sua società. Il caso Cambridge analytica avrà pure strascichi di altra natura. A San José, in California, è partita una class action contro Facebook, che, inoltre, potrebbe essere messo sotto inchiesta dai procuratori degli Stati di New York e del Massachusetts. Richieste di chiarimenti sono arrivate da alcuni deputati del Congresso statunitense, dall'agenzia federale delle telecomunicazioni e dal Parlamento britannico, che ha convocato in udienza Zuckerberg per ottenere delucidazioni sull'eventuale ruolo del «datagate» nella campagna per la Brexit. Il clamore era tale che, come detto, ieri sera è arrivata una dichiarazione pubblica. Oltre ad ammettere errori, l'ad di Facebook ha spiegato tutti i passi tenuti fin qui a difesa della privacy, indicando però con il suo tipico stile le prossime tappe in agenda per migliorare servizi e tutela degli utenti. La sensazione è che l'importanza delle indagini di mercato di Cambridge Analytica sia stata sovrastimata. I progressisti faticano a farsi una ragione delle vittorie dei cosiddetti populisti e, come nella fase della «negoziazione», tipica dell'elaborazione di un lutto, cercano spiegazioni alternative a quella più semplice: che gli elettori siano stanchi dell'ideologia globalista e, perciò, boccino le vecchie classi dirigenti. Tra l'altro, non si capisce perché, se i social danno una mano a Barack Obama, alle primavere arabe, o ai sedicenti attivisti per i diritti umani in Siria, allora dovremmo guardare fiduciosi alla nuova frontiera della democrazia digitale, mentre, se lanciano Trump e Farage, i media additino il mostro dei «big data». Nondimeno, bisogna riconoscere che un problema esiste. E che questo problema non è rappresentano da Bannon o da Breitbart, bensì dallo stesso Zuckerberg: costui, infatti, ha creato una macchina capace di trasformarsi in uno strumento di controllo occulto, penetrando a fondo nella vita delle persone le quali, magari un po' ingenuamente, non usano internet stando sul piede di guerra, pronti a respingere ogni potenziale attacco alla loro privacy. Nel 2010, Business Insider pubblicò uno scambio di messaggi che sarebbe avvenuto, poco dopo la creazione di Facebook, tra Zuckerberg e un suo compagno dell'università, dal quale si evinceva come l'ideatore del social network, alla bisogna, fosse disponibile a diffondere informazioni personali degli iscritti (in quel caso, studenti di Harvard): «Sono i ragazzi ad avermi fornito i loro dati, si fidano di me...maledetti coglioni [Dumb fucks nell'originale]». L'ossessione di Zuckerberg per la «società aperta» lo avrebbe convinto a comprimere surrettiziamente il diritto alla riservatezza degli utenti del suo social network? L'idea era di metterli di fronte alla frittata fatta, sperando che trovassero meraviglioso un mondo senza privacy. È un potere di interferenza che, psicosi antiTrump a parte, dovrà essere ridimensionato.
Christine Lagarde (Ansa)
I tassi restano fermi. Forse se ne parlerà a dicembre. Occhi sulla Francia: «Pronti a intervenire per calmare i mercati».
Peter Mandelson, amico di Jeffrey Epstein, e Keir Starmer (Getty)
Il primo ministro: «Rimosso per rispetto delle vittime». Pochi giorni fa lo difendeva.
Il problema non sono i conti pubblici, ma il deficit della bilancia commerciale. Dovuto a una moneta troppo forte, che ha permesso acquisti all’estero illimitati. Ora per tornare competitivi serve rigore, ma senza poter smorzare le tensioni sociali con la svalutazione.