2018-06-24
Quando l’omerico Mieli s’appisola la Grande storia diventa piccola
Due sfondoni dell'ex direttore del Corriere nella trasmissione su Rai 3. La principessa Mafalda non fu affatto arrestata in Bulgaria. E poi quel collegamento senza senso tra Napoleone III e Vittorio Emanuele III...Anche Omero a volte si addormentava. Accade non solo ai poeti ma anche agli storici; è accaduto quindi anche a Paolo Mieli, conduttore e trait d'union dell'ultima puntata de La Grande storia in onda su Rai3. Il celebrato ex direttore del Corriere della Sera e volto di Rai Storia (e non solo) si è «appisolato» un paio di volte durante l'ultima parte del programma, quella tessuta con competenza e bel taglio divulgativo da Fabio Toncelli attorno al tema “Le auto del re". Nell'intervento finale a commento, Mieli è scivolato sulla figura di Mafalda di Savoia e su un collegamento tra Napoleone III e Vittorio Emanuele III. Si parlava della fuga del 9 settembre 1943 della famiglia reale, del capo del governo Pietro Badoglio, dei ministri militari e dei vertici dell'esercito a Ortona, quando lo storico ha voluto ricordare la principessa Mafalda, tenuta all'oscuro del disastro italiano nell'imminenza della proclamazione dell'armistizio e della decisione di abbandonare Roma, prima verso Pescara e poi verso Ortona, appunto, per raggiungere Brindisi.Mieli ha sottolineato che Mafalda venne arrestata in Bulgaria, quindi deportata in un lager nazista. Solo che le cose non andarono affatto così. La principessa, in quei convulsi giorni precedenti l'armistizio (sottoscritto il 3 settembre), in effetti era a Sofia in visita alla sorella Giovanna, che aveva sposato il re Boris III, morto in circostanze misteriose il 28 agosto 1943, secondo alcuni avvelenato su ordine di Hitler. Poi per l'Italia le cose erano precipitate e lei aveva perso i contatti con la famiglia. L'11 settembre sulla pista dell'aeroporto di Pescara, dove il 9 si era tenuto il consiglio della Corona per decidere il da farsi, era atterrato un Savoia Marchetti Sm 75 pilotato dal capitano Cattaneo, che a bordo aveva proprio Mafalda. Era stato il comandante Martinetti-Bianchi a riassumerle cosa era accaduto. Mafalda si era quindi recata a Chieti, dove era stato radunata la divisione Legnano ormai in fase di dissolvimento, e dove aveva pernottato in hotel, prima di raggiungere Roma. Era angosciata dalla sorte dei quattro figli Maurizio, Enrico, Otto ed Elizabeth avuti dal marito Filippo d'Assia, che si trovano nella capitale. Confidava nell'aiuto del Vaticano (e segnatamente di monsignor Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI) e soprattutto nel passaporto tedesco. Si riteneva al riparo dalla bufera della storia che investiva l'Italia e i Savoia. Il 22 settembre, grazie a Montini, riusciva a rivedere i figli. Poi, però, era stata convocata dal capo della polizia tedesca a Roma, l'Ss Herbert Kappler, con la scusa di metterla in contatto telefonico col marito a Kassel. Era una trappola. Mafalda veniva arrestata e portata prima a Berlino e deportata poi a Buchenwald con il falso nome di Frau von Weber, dove morirà il 28 agosto 1944 e verrà sepolta come anonima nella tomba 262. Niente Bulgaria, dunque.È improprio dire, come ha fatto Mieli, che Napoleone III venne fatto prigioniero dai tedeschi dopo la battaglia di Sedan (31 agosto - 2 settembre 1870). Casomai dai prussiani, considerato pure che quella guerra si chiama universalmente franco-prussiana e non franco-tedesca. Il Reich tedesco sarebbe stato infatti proclamato nel salone degli specchi di Versailles solo il 18 gennaio 1871: la Francia era stata sconfitta dalla Prussia del re Guglielmo I Hohenzollern, non dalla Germania di cui sarebbe diventato imperatore solo qualche mese dopo.Era impropria non solo la citazione, ma soprattutto la similitudine azzardata da Mieli per spiegare le motivazioni della fuga di Vittorio Emanuele III, il quale non si rifaceva minimamente all'esperienza della prigionia di Napoleone III, quanto piuttosto a quella di Leopoldo III del Belgio, fratello di Maria José, ostaggio di Hitler dopo l'invasione e la resa del 1940. Lo aveva detto chiaramente il Savoia al generale Paolo Puntoni, il 28 luglio 1943: «Non voglio correre il rischio di fare la fine del re dei belgi. Non ho alcuna intenzione di cadere nelle mani di Hitler e di diventare una marionetta di cui il Führer possa muovere i fili a seconda dei suoi capricci». L'ignobile fuga da Roma, in ogni caso, non era neppure assimilabile a precedenti storici di abbandono della capitale motivato dall'esigenza della continuità dello Stato, come ha sostenuto Mieli. Perché quanto accaduto sia nella prima sia nella seconda guerra mondiale, con ben altri esempi di dignità (si pensi alla nobile figura di re Haakon VII di Norvegia), era conseguenza di un'invasione, mentre nel caso dell'Italia la fuga dei Savoia e del governo era la premessa che la consentì, assieme alla debellatio dell'esercito lasciato senza ordini e alla vendetta tedesca, con uccisioni indiscriminate e oltre 600.000 deportati nei lager, nonché l'innesco alla guerra civile. La consulenza storica, in trasmissioni come La Grande storia, dovrebbe filtrare certi errori e non generarli.
La leggendaria bacchetta svela le ragioni che l’hanno portato a fondare una vera e propria Accademia per direttori d’orchestra, che dal 2015 gira il mondo per non disperdere quel patrimonio di conoscenze sul repertorio operistico che ha ereditato dai giganti della scuola italiana.