2024-03-19
Denunciare il voto farsa non indebolirà lo zar
L’Occidente si indigna per le elezioni taroccate in Russia. Dovrebbe però farsi delle domande su un leader che è sempre più forte e gode comunque di un consenso nella popolazione, pur con sacche di ribellione. La sterile condanna morale non ci aiuta a reagire.«Certo che sono democratico, il problema è che ci sono solo io. Da quando si è spento Gandhi non ho più nessuno con cui parlare». Con un senso dell’umorismo alla vodka, Vladimir Putin incassa l’87,2% dei consensi elettorali, prende atto che il 76,5% dei russi è comunque andato a votare e dà a tutti l’appuntamento al 2030, quando avrà 77 anni e sarà più giovane di quanto non siano oggi Joe Biden e Donald Trump. Per lui sono questi gli unici numeri che contano, anche perché gli altri rimangono nel database del Cremlino o servono per far ingrossare il fegato alle cancellerie europee dove il concetto di democrazia è molto diverso: dal 1999 a oggi l’ex funzionario del Kgb è stato quattro volte primo ministro e sei volte presidente. Autocrazia in purezza.Tutti sanno che le elezioni in Russia sono plastificate come gli interni di una berlina cinese (per primi i russi), ma questa volta in Occidente è partito l’embolo dell’indignazione collettiva. Con una dichiarazione congiunta i 27 leader dell’Unione Europea guidati da Emmanuel Macron - afflitto in queste settimane da sindrome di Napoleone - le hanno dichiarate «ingiuste e antidemocratiche», poi hanno sottolineato che si sono svolte «in un ambiente altamente represso ed esacerbato dalla guerra illegale di aggressione all’Ucraina». Washington e Bruxelles hanno ricordato che le autorità di Mosca hanno proibito l’ingresso degli osservatori indipendenti dell’Ocse e hanno ribadito che «le elezioni contestualmente tenute nei territori illegalmente occupati sono da considerarsi nulle e non valide».I comunicati dicono il vero ma somigliano stancamente a quelli vergati nel 2014 dopo l’annessione della Crimea, quindi sembrano lievemente lunari perché non tengono conto della realtà fattuale e di una conferma oggettiva: Putin è in sella come e più di prima. Quel Putin che avrebbe dovuto piegarsi sotto il peso delle sanzioni del mondo libero; quel Putin che due anni fa avrebbe dovuto scappare inseguito dal popolo una volta sconfitto nella pianura sarmatica; quel Putin per il quale Biden prefigurava «un’ignominiosa uscita di scena», è più saldo che mai sul piedistallo. È vero che non ha avversari reali (l’unico era Aleksej Navalny, deceduto in circostanze più che sospette un mese fa), ma è altrettanto vero che il risultato dimostra «il consolidamento del sostegno del Paese per il cammino scelto da lui», come ha affermato il portavoce Dmitry Peskov. La Russia è dietro il suo zar. E la guerra ha ottenuto l’effetto di compattare i cittadini in nome del patriottismo e della sicurezza nazionale.Questo non significa che nello Stato più esteso del mondo, con 140 milioni di abitanti, non esista malessere, anzi. Forse per via dello sguardo attento dei media occidentali, questa volta nei tre giorni di urne aperte le opposizioni si sono mostrate più audaci. L’invito della moglie di Navalny (Yulia ha votato a Berlino) a recarsi alle urne a mezzogiorno di domenica per mostrare dissenso numerico, è stato un successo: i seggi si sono riempiti da San Pietroburgo agli Urali e la Russia profonda ha fatto sapere di non essere tutta con Putin. Senza contare alcuni seggi bruciati e blitz di attivisti con la vernice verde per annullare qualche migliaio di schede. Le forze militari hanno controllato le operazioni di voto come sempre, anche se al video fake del soldato che entra in cabina elettorale con il mitra hanno creduto solo alcuni campioni social della sinistra italiana.Chi si stupisce del fatto che Putin sia tornato sappia che non è mai andato via. E se i leader occidentali lo sbertucciano per le singolari modalità di rielezione, uno che di gestione dittatoriale ne sa qualcosa come Xi Jinping è stato il primo a congratularsi per l’exploit, confermando gli stretti rapporti bilaterali con parole di zucchero: «Negli ultimi anni, il popolo russo si è unito per superare le sfide. Credo che sotto la tua guida la Russia sarà in grado di raggiungere maggiori risultati nello sviluppo e nella costruzione nazionale». È curioso notare come sia difficile capire la Russia e il suo concetto di potere istituzionale da Londra, Parigi, Roma dopo tre secoli di letteratura e saggistica. Dopo Lev Tolstoj e gli zar, dopo Iósif Stalin e il terrore, dopo la caduta dell’impero sovietico e la stagione putiniana. Ieri il ministro degli Esteri inglese David Cameron tuonava: «Queste elezioni non sono né libere, né eque. Deploriamo la mancanza di scelta per gli elettori, fondamento di una vera democrazia». Una fotografia reale davanti alla quale vale però la pena ricordare un pensiero dello scrittore francese (profondo amante delle steppe) Emmanuel Carrère attorno alla parola democrazia. «I russi l’hanno provata solo nel periodo di Boris Eltsin, quando si sparava per le strade. Più che della democrazia, sentono il bisogno di qualcuno che li protegga dalla democrazia. E Putin ci sta riuscendo abbastanza bene».Scavallato il weekend elettorale, lo zar ha fatto sapere al mondo che «la priorità della Russia è quella di portare avanti l’operazione militare speciale in Ucraina. Le forze armate avanzano e hanno la meglio su ogni campo di battaglia». È brutto sentirlo dire, significa che la pace è ancora lontana. Ma è anche ciò che si aspetta il suo popolo, quell’87,2% che lo ha votato magari turandosi il naso con due dita. Anche qui, per noi occidentali è impossibile capire. Noi che abbiamo amato Michail Gorbaciov e lo abbiamo portato anche al festival di Sanremo. Alle uniche elezioni alle quali ha preso parte (le più libere di sempre), Gorbaciov ha ottenuto lo 0,5% delle preferenze. Ha fatto peggio di Luigi Di Maio.
Charlie Kirk (Getty Images). Nel riquadro Tyler Robinson