2022-02-05
Putin allineato coi cinesi inguaia l’Occidente
Putin e Xi Jinping al tavolo di Pechino il 4 febbraio 2022 (Ansa)
Il leader russo visita Pechino e fa le sue mosse: aumenta i contratti per fornire gas al Dragone e insieme con Xi Jinping minaccia l’Alleanza atlantica: «Non si allarghi». Il disegno antiamericano attira Erdogan, che punge: «Da Usa e Ue zero soluzioni per Kiev». L’asse sino-russo si è cementato. Ieri, in occasione della cerimonia di apertura dei giochi olimpici di Pechino, si è tenuto un faccia a faccia tra Xi Jinping e Vladimir Putin: il primo incontro di persona che il leader cinese ha avuto con un capo di Stato straniero dall’inizio della pandemia. I due presidenti hanno rinsaldato la propria convergenza, in chiave smaccatamente antiamericana e con un occhio rivolto soprattutto alla crisi ucraina. «L’amicizia tra i due Stati non ha limiti», recita non a caso un comunicato congiunto. «Le parti», vi si legge, «si oppongono a un ulteriore allargamento della Nato e invitano l’Alleanza nordatlantica ad abbandonare i suoi approcci ideologizzati della guerra fredda». Nella stessa nota, Mosca e Pechino hanno condannato anche le cosiddette «rivoluzioni colorate»: il riferimento è a quei sommovimenti politici (riguardanti per esempio la Georgia nel 2003 e la stessa Ucraina nel 2004), che il Cremlino ha sempre ritenuto orchestrati dagli Stati Uniti. Russia e Cina hanno poi espresso irritazione nei confronti dell’Aukus: il recente patto di sicurezza -stipulato tra Washington, Londra e Canberra - che rivolge particolare attenzione all’area dell’Indo-Pacifico. Putin e Xi hanno inoltre significativamente rafforzato la cooperazione energetica. «I nostri operatori petroliferi hanno preparato ottime nuove soluzioni sulle forniture di idrocarburi alla Repubblica popolare cinese», ha dichiarato il presidente russo nel corso del summit. «Ed è stato fatto un passo avanti nel settore del gas, intendo un nuovo contratto per la fornitura di 10 miliardi di metri cubi all’anno alla Cina dall’Estremo Oriente russo». In questo quadro, Gazprom ha quindi reso noto ieri che, in base a un nuovo accordo con la China National Petroleum Corporation, intende portare la fornitura di gas alla Cina a 48 miliardi di metri cubi all’anno. Mosca sta del resto notoriamente usando la leva energetica per disarticolare il fronte europeo: per quanto ieri Boris Johnson abbia cercato di portare il cancelliere tedesco Olaf Scholz su posizioni più dure, Berlino resta ambigua sul dossier ucraino proprio a causa del gasdotto Nord Stream 2. La pressione su Kiev (e anche sulle repubbliche baltiche) frattanto aumenta. La premier lituana, Ingrida Simonyte, ha non a caso espresso ieri «grande preoccupazione» per il massiccio schieramento di truppe russe in Bielorussia. Nel mentre - sempre ieri - il Regno Unito ha dichiarato che, secondo l’intelligence americana, Mosca starebbe «progettando un pretesto» per procedere all’invasione. La tensione aumenta, tenendo tra l’altro conto del fatto che l’offensiva in Crimea fu avviata dai russi subito dopo la conclusione dei giochi olimpici di Sochi del 2014. In un tale quadro, Recep Tayyip Erdogan sembra iniziare a cambiare posizione. Da sempre sostenitore dell’integrità territoriale ucraina, il presidente turco aveva cercato di ritagliarsi il ruolo di mediatore nella crisi in corso. Eppure, proprio ieri, ha criticato duramente il fronte occidentale. «Devo dirlo molto chiaramente: se si presta attenzione, l’Occidente purtroppo non ha contribuito in alcun modo a risolvere questa questione», ha detto mentre tornava da Kiev. Ricordiamo che la Turchia, pur essendo un membro della Nato, coopera con la Russia su vari fronti, contando anche su rapporti non eccessivamente negativi con la Cina. Quella stessa Cina che, in passato, aveva assunto una posizione più defilata sulla questione ucraina, anche perché Pechino e Kiev intrattengono storicamente buone relazioni politiche ed economiche. Che cosa ha spinto dunque il Dragone a schierarsi così pesantemente con Mosca? La risposta è complessa. Ci sono innanzitutto due ragioni che potremmo definire «di superficie»: i cinesi puntano in primis ad aiutare i russi a indebolire le relazioni transatlantiche e, in secondo luogo, vedono in un’invasione dell’Ucraina un potenziale effetto domino che consenta loro di procedere ad attaccare Taiwan (ricordiamo che, il mese scorso, sono riprese massicce incursioni di velivoli da guerra cinesi nello spazio di difesa aereo dell’isola). Esiste poi una ragione più profonda, strutturale, che funge da base per le altre due. Pechino punta evidentemente a creare un blocco eurasiatico da integrare con il proprio espansionismo politico-economico nel continente africano. Un blocco che serve a marginalizzare geopoliticamente gli Stati Uniti. È d’altronde in questo pericoloso progetto che va letta l’importanza strategica, per i cinesi, della Belt and Road Initiative. E qui ci sono due considerazioni da fare. La prima: Joe Biden deve darsi una svegliata. Non è infatti pensabile di contrastare le manovre sino-russe ricorrendo meramente allo strumento delle sanzioni. La seconda: Putin sta correndo un grosso rischio. La situazione dei rapporti tra Mosca e Pechino è invertita rispetto a quella dei primi anni Cinquanta, quando Mao era il «junior partner» di Stalin. Oggi è la Cina ad essere in una posizione preminente. E Mosca rischia seriamente di rimanere soffocata nel suo abbraccio con il Dragone.
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