2020-01-23
Psicosi virus cinese: le case farmaceutiche festeggiano in Borsa
Con la sindrome di Wuhan, grandi rialzi per le aziende che fanno i vaccini. Nel 2010 l'Italia buttò via 23 milioni di dosi. Il nuovo virus proveniente dalla Cina - il focolaio è nella città di Wuhan, megalopoli da 11 milioni di abitanti nel cuore della nazione - continua ad alimentare preoccupazioni. Nelle ultime ore sono stati ufficializzati un primo caso ad Hong Kong (ma quelli sospetti sono decine) e negli Stati Uniti, mentre ieri l'Organizzazione mondiale della sanità ha tenuto una seduta straordinaria. Contagi sono stati certificati anche in Thailandia e Giappone, mentre il regime di Kim Jong Un, che guida Corea del Nord, sta valutando la possibilità di chiudere i confini. In Cina, i casi accertati di infezione sono circa 400, mentre il numero complessivo delle vittime per ora si attesta a 17. Anche la task force del ministero della Salute italiano si è riunita ieri mattina per fare il punto (da tre giorni invece sono già attivi controlli sanitari a Fiumicino, unico scalo del Paese collegato a Wuhan con voli diretti). La situazione è indubbiamente seria ma - almeno per il momento - non gravissima. Una precisazione d'obbligo visto che spesso in passato, in occasione di simili malattie, si è scatenato un autentico panico mediatico, con conseguente psicosi globale. Basti ricordare cosa accadde quando si verificò il fenomeno della Sars: soprattutto in Europa si alimentò il timore della pandemia, sfociato nell'acquisto (sconsideratamente) massiccio di farmaci. Ecco: proprio il caso della «Severe acute respiratory syndrome» può rivelarsi istruttivo da questo punto di vista. Il nuovo coronavirus - chiamato 2019-nCoV - appartiene infatti alla stessa famiglia della Sars, che ebbe origine anch'essa in Cina, nella città di Foshan (7 milioni di abitanti) nel 2002. Indubbiamente non si trattò di uno scherzo: secondo quanto riportato dall'Oms, tra il 2002 e il 2003 la patologia provocò circa 800 decessi, determinando anche la morte di Carlo Urbani, il medico italiano che l'aveva identificata. Ciò detto, la stessa organizzazione - nel luglio 2003 - dichiarò che i focolai erano stati contenuti e che il rischio di contagio risultasse di fatto eliminato. Una situazione seria quindi, però non apocalittica. Tanto più che in Europa - nonostante il clima di allarmismo mediatico - il virus fu tenuto strettamente sotto controllo, mentre la Cina ebbe 348 decessi, seguita da Hong Kong (298); Taiwan (84); Canada (38) e Singapore (32).Ma la Sars non è l'unico esempio. Nel 2005, in occasione della cosiddetta influenza aviaria, ci fu chi parlò addirittura di un rischio di 150.000 morti solo in Italia: i decessi alla fine furono alcune centinaia a livello mondiale (616, fra 2013 e 2019, secondo la Fao). Una situazione abbastanza simile si verificò con l'influenza suina nel 2009: l'Oms prefigurò una possibile pandemia, scatenando un'autentica corsa al vaccino. Il risultato furono milioni di fiale che finirono poi distrutte, perché inutilizzate. Nel 2010, La Repubblica riportò che l'Italia da sola aveva acquistato 24 milioni di dosi contro il virus H1N1, al costo complessivo di 184 milioni di euro. Ebbene, su 10 milioni di dosi distribuite alle Asl, ne vennero inoculate alla cittadinanza meno di 900.000. Uno scenario simile si registrò anche in Germania: dopo aver acquistato ingenti quantitativi di vaccini - rimasti poi inutilizzati - i länder tedeschi iniziarono a smaltirli nel 2011, inviandoli agli inceneritori. Su 34 milioni di dosi comprate, ben 29 non vennero usate. A questo proposito, nel 2013, il Journal of Epidemiology & Community Health pubblicò una ricerca secondo cui gli scienziati che nel 2009 avevano maggiormente enfatizzato i rischi dell'influenza suina erano legati - guarda caso - alle grandi industrie farmaceutiche. Quelle stesse industrie che, grazie al timore della pandemia, avevano avuto giri d'affari ciclopici. In questo senso, già nello stesso 2009, l'allora ministro della Sanità polacco, Ewa Kopacz, aveva parlato di «truffa» da parte delle grandi aziende del settore farmaceutico.La situazione quindi è ingarbugliata: nessuno vuole mettere in discussione la serietà del nuovo virus cinese, però - visti i precedenti - sarebbe opportuno evitare allarmismi e psicosi da parte dei media. Perché il rischio che si generi un cortocircuito tra paure incontrollate e grandi interessi economici, come abbiamo visto, è oggettivo. Sotto questo aspetto, non va del resto trascurato un «dettaglio» interessante: come riportato dalla Cnn, le azioni delle case farmaceutiche cinesi sono salite alle stelle lunedì scorso, dopo che Pechino ha reso noti oltre 100 nuovi casi di contagio. Nella fattispecie, oltre una dozzina di aziende quotate a Shanghai e Shenzhen hanno visto rialzi del 10%. Il dato è significativo. Ecco perché, prima di tirare in ballo l'epidemia spagnola (come in passato è stato talvolta fatto), sarebbe forse necessario andare con i piedi di piombo. Allerta e allarmismo sono due concetti ben differenti. E l'allarmismo rischia solo di servire interessi che con la salute c'entrano poco.