
L'Agcom prepara un protocollo per fermare le bufale diffuse online. L'iniziativa rischia però una deriva pericolosa: anche fatti veri, se usati contro persone o istituzioni, sarebbero considerati «malainformazione». Ma in realtà si tratta di semplici opinioni.Per stare tranquilli, possiamo pure raccontarci (come recita la prima di ben 54 pagine di malloppo) che è solo il «rapporto tecnico di un tavolo tecnico». Tecnica al quadrato. Ma c'è ben poco di tecnico quando è in gioco il bene più sacro di tutti: la libertà d'espressione. Una robina a cui la Costituzione dedica l'articolo 21: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione».Ecco, gli altri «mezzi di diffusione». È arrivata Internet, e l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, la stessa che spesso - a parere di molti - dorme o riposa davanti a macroscopiche faziosità dell'informazione radiotelevisiva, ha pensato bene di occuparsi della «garanzia del pluralismo e della correttezza dell'informazione sulle piattaforme digitali». Insomma, vogliono che clicchiamo sicuri. E così alcuni scienziati hanno redatto un rapporto dal titolo: La strategia della disinformazione online e la filiera dei contenuti fake.Molta fuffa già letta e già sentita, una riproposizione burocratica di una saggistica ormai vasta sulle fake news, sulla post verità (post truth) in rete, molta lagna tipica di certo progressismo. Hanno perso su Brexit, contro Trump, in Brasile, e ovviamente in Europa a causa dei «cattivi populisti»? Sono stati stracciati nonostante controllassero giornali, radio e tv? Elementare, Watson: allora è colpa della rete, dove quei birbaccioni degli elettori trovano informazioni alternative. Nasce così la tentazione inconfessabile di passare al setaccio l'informazione online, e di distribuire patenti e pagelle. Andate a pagina 10 del rapporto e, con tanto di tabellina, troverete i tre gironi dell'inferno secondo i «tecnici» (dicono loro: sono categorie «note e accreditate da anni nella letteratura scientifica internazionale»). Il girone più maledetto di tutti è quello della «disinformazione online»: si tratta delle situazioni in cui la notizia è falsa. Ma agli scienziati non basta la falsità del contenuto. A riprova della perversione del nemico, individuano altri due peccati: la «contagiosità» (cioè la facilità di circolazione in rete) e il «dolo» (cioè il falso è stato costruito volontariamente). E comunque su questo punto nulla da eccepire: una notizia falsa è indifendibile. Punto e basta. Il girone più leggero è quello della «misinformazione online» (che in romanesco si potrebbe tradurre «so' ragazzi»). Insomma, scrivono i tecnici, anche qui i contenuti sono «non veritieri» o «riportati in modo non accurato», magari perfino «suscettibili di essere recepiti come reali», ma «non creati con un intento doloso». E quindi, calcisticamente parlando, basta che l'arbitro redarguisca a voce l'autore del fallo, senza cartellini né gialli né rossi. Ma occhio alla categoria intermedia, la «malainformazione online». Tenetevi forte, perché si sale sulla giostra. Si tratta di una «categoria di contenuti informativi fondati su fatti reali (avete letto bene: fatti reali), anche a carattere privato, divulgati su Internet e contestualizzati in modo da poter essere anche virali e veicolare un messaggio con il preciso intento di danneggiare una persona, un'organizzazione o un Paese, o affermare/screditare una tesi». Vi siete spaventati? Ne avete tutte le ragioni. Secondo questi scienziati, non andrebbe bene nemmeno dire cose vere, se l'intenzione è quella di affermare o screditare una tesi (ma tutti scrivono per sostenere un'opinione o per attaccarne un'altra: è la libertà di parola!) o per danneggiare qualcuno (pure un Paese!). Ipotizziamo: se dico una cosa vera su Renzi, ma qualcuno pensa che io voglia danneggiarlo, devo forse essere sanzionato? Se dico una cosa vera sulla Germania, ma qualcuno immagina che sia dannosa per Berlino, non la posso più scrivere? Era inevitabile che, venuto fuori il documento, si scatenasse un pandemonio online. Ad accendere (giustamente) il fuoco è stato Benedetto Ponti, docente all'Università di Perugia di Diritto amministrativo. Ha provato a replicargli, con dubbia efficacia, uno dei commissari Agcom, Antonio Nicita: «Il suo equivoco (questo l'esordio non felicissimo del tweet di Nicita) nasce dal fatto che lei confonde la pacifica libera espressione o opinione rispetto al contenuto della definizione, che evidenzia il preciso intento di rendere virale e screditare con manipolazioni o rivelazioni fuori contesto. Su questo si può precisare». E con ciò Nicita ammette che qualcosa non funziona, e preannuncia future consultazioni per «evitare equivoci indesiderati» visto che «i lavori sono appena iniziati». Ma la frittata è fatta, e Ponti è implacabile: «Sarebbe il caso di rimediare, non di cercare giustificazioni». Ferocemente sarcastico anche il sottosegretario Luciano Barra Caracciolo, che si è chiesto: «L'articolo 21 della Costituzione è stato abrogato in via amministrativa?». E in effetti il tema è proprio che l'Agcom sembra essersi allargata: a notarlo è un fulminante tweet di Alberto Bagnai, presidente della Commissione Finanze del Senato: «Cose che capitano quando non sei previsto dalla Costituzione». Insomma, presa in castagna, l'Agcom arretra, smussa, abbraccia i contestatori. Ma sarebbe troppo comodo derubricare tutto a un caso, a un incidente, a un documento da emendare. È fin troppo chiara (non solo in Italia) la tentazione statalista e autoritaria, di censura morbida ma implacabile, che il politically correct porta con sé. I commissari Agcom possono twittare quanto vogliono per cercare di rassicurare. Ma è roba da dittature, da vecchia Germania Est, far prevalere l'analisi della «intenzione» dello scrivente sulla veridicità della cosa scritta. E chi stabilisce quali siano le mie intenzioni? Uno psichiatra? Una commissione parlamentare? Il ministro pro tempore? Un tavolo tecnico? Un sinedrio di editorialisti «perbene»?I precedenti da «psicopolizia», da polizia del pensiero, non mancano. Già Facebook (e il fondatore Mark Zuckerberg fu giustamente massacrato dai repubblicani nella sua audizione davanti al Parlamento Usa) ha una politica molto discutibile tra «blocchi», storie conservatrici e di destra «tenute basse», e un sospetto di politicizzazione nell'esame dei post. Per non parlare della criticatissima «task force» europea contro le fake news, messa in piedi dalla Commissione Ue. Insomma, quello dell'Agcom di ieri è solo l'ultimo tentativo di una lunga e inquietante serie. Contro questa follia, occorre una rivendicazione di libertà. Non tocca allo Stato (o al superstato Ue) stabilire ciò che è vero. Per carità: se qualcuno si ritiene diffamato, è giusto che usi gli strumenti legali a sua tutela. Ma da qui a dare una definizione di ciò che «si può» e «non si può» dire, addirittura con tanto di processo alle intenzioni, ce ne corre. È solo il lettore a dover essere sovrano: andando o no in edicola, premendo o no i tasti del telecomando, cliccando o non cliccando. Fuori i burocrati dal tempio della libertà.
Ambrogio Cartosio (Imagoeconomica). Nel riquadro, Anna Gallucci
La pm nella delibera del 24 aprile 2024: «Al procuratore Ambrogio Cartosio non piacque l’intercettazione a carico del primo cittadino di Mezzojuso», sciolto per infiltrazione mafiosa. Il «Fatto» la denigra: «Sconosciuta».
Dopo il comunicato del senatore del Movimento 5 stelle Roberto Scarpinato contro la pm Anna Gallucci era inevitabile che il suo ufficio stampa (il Fatto quotidiano) tirasse fuori dai cassetti le presunte valutazioni negative sulla toga che ha osato mettere in dubbio l’onorabilità del politico grillino. Ma il quotidiano pentastellato non ha letto tutto o l’ha letto male.
Federico Cafiero De Raho (Ansa)
L’ex capo della Dna inviò atti d’impulso sul partito di Salvini. Ora si giustifica, ma scorda che aveva già messo nel mirino Armando Siri.
Agli atti dell’inchiesta sulle spiate nelle banche dati investigative ai danni di esponenti del mondo della politica, delle istituzioni e non solo, che ha prodotto 56 capi d’imputazione per le 23 persone indagate, ci sono due documenti che ricostruiscono una faccenda tutta interna alla Procura nazionale antimafia sulla quale l’ex capo della Dna, Federico Cafiero De Raho, oggi parlamentare pentastellato, rischia di scivolare. Due firme, in particolare, apposte da De Raho su due comunicazioni di trasmissione di «atti d’impulso» preparati dal gruppo Sos, quello che si occupava delle segnalazioni di operazione sospette e che era guidato dal tenente della Guardia di finanza Pasquale Striano (l’uomo attorno al quale ruota l’inchiesta), dimostrano una certa attenzione per il Carroccio. La Guardia di finanza, delegata dalla Procura di Roma, dove è approdato il fascicolo già costruito a Perugia da Raffaele Cantone, classifica così quei due dossier: «Nota […] del 22 novembre 2019 dal titolo “Flussi finanziari anomali riconducibili al partito politico Lega Nord”» e «nota […] dell’11 giugno 2019 intitolata “Segnalazioni bancarie sospette. Armando Siri“ (senatore leghista e sottosegretario fino al maggio 2019, ndr)». Due atti d’impulso, diretti, in un caso alle Procure distrettuali, nell’altro alla Dia e ad altri uffici investigativi, costruiti dal Gruppo Sos e poi trasmessi «per il tramite» del procuratore nazionale antimafia.
Donald Trump e Sanae Takaichi (Ansa)
Il leader Usa apre all’espulsione di chi non si integra. E la premier giapponese preferisce una nazione vecchia a una invasa. L’Inps conferma: non ci pagheranno loro le pensioni.
A voler far caso a certi messaggi ed ai loro ritorni, all’allineamento degli agenti di validazione che li emanano e ai media che li ripetono, sembrerebbe quasi esista una sorta di coordinamento, un’«agenda» nella quale sono scritte le cadenze delle ripetizioni in modo tale che il pubblico non solo non dimentichi ma si consolidi nella propria convinzione che certi principi non sono discutibili e che ciò che è fuori dal menù non si può proprio ordinare. Uno dei messaggi più classici, che viene emanato sia in occasione di eventi che ne evocano la ripetizione, sia più in generale in maniera ciclica come certe prediche dei parroci di una volta, consiste nella conferma dell’idea di immigrazione come necessaria, utile ed inevitabile.
Adolfo Urso (Imagoeconomica)
Il titolare del Mimit: «La lettera di Merz è un buon segno, dimostra che la nostra linea ha fatto breccia. La presenza dell’Italia emerge in tutte le istituzioni europee. Ora via i diktat verdi o diventeremo un museo. Chi frena è Madrid, Parigi si sta ravvedendo».
Giorni decisivi per il futuro del Green Deal europeo ma soprattutto di imprese e lavoratori, già massacrati da regole asfissianti e concorrenza extra Ue sempre più sofisticata. A partire dall’auto, dossier sul quale il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, ha dedicato centinaia di riunioni.






