2018-04-22
Nell'era della Trasparenza io difendo il segreto
Non è vero che la società in cui viviamo, quella della tarda modernità occidentale, non abbia bandiere o valori. Una ce l'ha, e la agita in ogni momento. È quella della Trasparenza. Ci sono assessorati, ministeri alla trasparenza, e poi naturalmente premi, benemerenze etc. Dai nostri dirigenti politici e dalla maggior parte degli opinionisti la Trasparenza è considerata un valore civico, una qualità morale, un principio estetico, uno stile di comportamento: ciò che è buono e apprezzabile è «trasparente». Una parola che ci fornisce già un'informazione importante: si tratta di qualcosa di assolutamente innaturale. Chiedendocela, promuovendola, ci viene richiesto di adottare una qualità fabbricabile artificialmente, ma che non esiste in natura.Nel mondo vivente, naturale, non c'è infatti nulla di trasparente. Tutto ciò che vive ha in sé un nucleo opaco, di spessore variabile, all'interno del quale si trovano di solito organi e funzioni vitali. La vita non è trasparente e i suoi aspetti più delicati hanno bisogno di involucri, spessori e opacità protettive.Ciò è naturalmente interessante per la mia professione di psicoterapeuta dove appare chiaro che quando qualcuno adotta comportamenti e forme di vita assenti in natura ha maggior probabilità di sviluppare disturbi psicologici di chi si attiene alle abitudini e manifestazioni del mondo vivente. Infatti coloro che di solito si autodefiniscono «trasparenti» non sembra stiano benissimo. Di solito, come racconta la gran parte della letteratura scientifica, semplicemente mentono. Del resto, spingere qualcuno a esprimere qualità assenti in natura, è in genere un'istigazione all'ipocrisia: e così fa la nostra benemerita civiltà. Ma perché lo fa?Perché non ci vuole forti. Infatti quegli spessori, involucri, contenitori più o meno densi che ci rendono opachi, nascondono e proteggono sensori e organi personali e profondi, dove risiedono le nostre forze. Che ogni essere vivente ha bisogno di proteggere dalle aggressioni esterne, per presentarle poi ad altri individui quando si sente sicuro, magari persino amato, e per finalità vitali. Possiamo essere trasparenti quando ciò serve alla nostra vita e quella degli altri, non per una richiesta di un'agenzia impersonale, una moda, o per farci belli su un social network. La vita ha i suoi indispensabili riserbi, mentre questa nostra modernità ha finito (anche per suoi precisi interessi) con l'obbligarci a conformarci ai comportamenti degli altri e a darne scimmiesche e esibizionistiche conferme. Fotografare il piatto che qualcuno ci porta in tavola per pubblicarlo subito su Facebook, invece di guardarlo con attenzione e desiderio (atteggiamenti destinati ad attivare le funzioni di gusto odorato e vista che contribuirebbero efficacemente alla sua digestione) è un'esibizione vanesia, tipica di quel «guardare al di fuori di noi» in attesa di immaginarie gratificazioni (ad esempio i like degli amici), che - osservava la filosofa Simone Weil - è alla base del nostro malessere e debolezza di cittadini dell'Occidente della trasparenza. La Trasparenza non ha a che vedere, oltre che con la vita e vitalità, neppure con la luminosità, al contrario di quanto il suo uso nella comunicazione politically correct suggerisca. Trasparente, infatti, definisce qualcosa che lascia passare lo sguardo e la luce. Ammesso però che luce ci sia. Anche in fisica infatti la luce viene diffusa nell'interazione tra aspetti della materia e onde elettromagnetiche, mentre la trasparenza corrisponde piuttosto a un'inconsistenza di materia. È dunque a questa, all'inconsistenza, all'assenza di contenuti personali che viene condannato l'individuo «trasparente». Egli dovrà nasconderli e fingere di non averli, cadendo nella menzogna e quindi in una situazione di potenziale scissione della personalità, come hanno dimostrato Joseph Gabel, Eugène Minkovski e le scuole psichiatriche e psicologiche che ad essi si sono ispirate. La Trasparenza di qualcuno che vive e respira è innanzitutto una finzione. Il trasparente è solo bugiardo. Fortemente sollecitato però dalle autorità a mostrarsi il più inconsistente possibile.Questo divieto della consistenza e di contenuti personali, potenziali generatori di valori individuali ed autonomi, questa coazione a mostrare tutto di sé, ha poi come risultato la produzione d'immense zone d'ombra, anche collettive, di cui oggi anche l'attualità è periodicamente costretta ad occuparsi. Come il dark Web (l'Internet oscuro, in cui confluiscono tutte le iniziative «non trasparenti», dalla pornografia più pesante all'organizzazione di eserciti clandestini), alla shadow finance, a tutte le altre attività che il codice linguistico e comportamentale del politicamente corretto rende tabù, e in questo modo mantiene lontane dalla coscienza, in questo modo incrementandole e anche proteggendole. L'invito alla trasparenza in realtà esprime comunque un invito all'inconsistenza. Perché però la nostra modernità occidentale ci vuole inconsistenti?Il maggiore forse tra gli studiosi contemporanei della questione, il filosofo e antropologo culturale Byung-Chul Han, dell'Università di Berlino, ritiene che lo faccia per le sue caratteristiche fortemente autoritarie, che preferiscono sudditi deboli a cittadini capaci di critica. Con il suo obbligo di trasparenza la nostra società ha ottenuto un risultato che neppure autoritarismi ipermilitarizzati avevano sperato: che le persone autodenunciassero le proprie inclinazioni più strane e segrete, fotografandole e documentandole in vario modo, come ci raccontano le cronache e le vicende del traffico di dati sensibili tra le community del Web e agenzie specializzate che li rivendono ai potenziali compratori. «L'autoilluminazione è più efficace dell'illuminazione fatta da un altro, perché si unisce a un sentimento di libertà», spiega Han. Naturalmente il passaggio da soggetti autonomi a osservatori e delatori di noi stessi e dei nostri «amici» ha costi sociali, psicologici e fisici, molto elevati. Il primo, triste, è la totale scomparsa di fiducia negli altri. Ognuno controlla l'altro, proprio perché non si fida. E il Web diventa strumento di esibizione, lettera di denuncia, controllo, castigo, in crescendo deliranti, che spesso si concludono malissimo, come le cronache raccontano. Anche qui, lo psicologo è costantemente alle prese con le devastazioni che l'uso ispirato alla trasparenza obbligatoria di Web, Internet, e community produce nelle relazioni personali e affettive.Nella Trasparenza inoltre, qualità innaturale e gelida, inconsistente, finisce ogni amore ed Eros richiude stanco le sue ali potenti. Per muoverle occorrerebbero fantasia, desiderio, intuizione. Tutte cose tutt'altro che trasparenti, intraviste nella penombra, nell'ambiguità capace di amare più aspetti e di rispettare segreti. La trasparenza, questa perversione oggi obbligatoria e premiata, diventa così responsabile (ad esempio) di molti femminicidi, gesti deplorati da autorità che contemporaneamente elargiscono le «medaglie alla Trasparenza», il colpevole dei quali non sopporta le ambiguità (spesso immaginate) dell'amata. Ma l'amore, come diceva Georg Simmel, rispetta con delicatezza «la proprietà privata interiore, che limita il diritto alla domanda con il diritto al segreto». Come accade nella saghe delle donne selvatiche, il cui nome deve rimanere sconosciuto. Il vivente non è mai trasparente, caratteristica lucida e anaffettiva. L'amore per l'altro richiede distanza ricorda Han, e moltissimi altri prima di lui. È necessario (scriveva già Nietzsche) un nuovo illuminismo, che spenga molte luci dannose (anche per risparmiare energie che servono altrove). Trasparente è soltanto l'immagine pornografica, concorda tutta la cultura contemporanea che si è occupata della questione, da Jean Baudrillard a Walter Benjamin a Giorgio Agamben. Liberateci quindi, senza ulteriori ipocrisie, dall'appiccicosa fandonia della trasparenza.
Il simulatore a telaio basculante di Amedeo Herlitzka (nel riquadro)
Gli anni Dieci del secolo XX segnarono un balzo in avanti all’alba della storia del volo. A pochi anni dal primo successo dei fratelli Wright, le macchine volanti erano diventate una sbalorditiva realtà. Erano gli anni dei circuiti aerei, dei raid, ma anche del primissimo utilizzo dell’aviazione in ambito bellico. L’Italia occupò sin da subito un posto di eccellenza nel campo, come dimostrò la guerra Italo-Turca del 1911-12 quando un pilota italiano compì il primo bombardamento aereo della storia in Libia.
Il rapido sviluppo dell’aviazione portò con sé la necessità di una crescente organizzazione, in particolare nella formazione dei piloti sul territorio italiano. Fino ai primi anni Dieci, le scuole di pilotaggio si trovavano soprattutto in Francia, patria dei principali costruttori aeronautici.
A partire dal primo decennio del nuovo secolo, l’industria dell’aviazione prese piede anche in Italia con svariate aziende che spesso costruivano su licenza estera. Torino fu il centro di riferimento anche per quanto riguardò la scuola piloti, che si formavano presso l’aeroporto di Mirafiori.
Soltanto tre anni erano passati dalla guerra Italo-Turca quando l’Italia entrò nel primo conflitto mondiale, la prima guerra tecnologica in cui l’aviazione militare ebbe un ruolo primario. La necessità di una formazione migliore per i piloti divenne pressante, anche per il dato statistico che dimostrava come la maggior parte delle perdite tra gli aviatori fossero determinate più che dal fuoco nemico da incidenti, avarie e scarsa preparazione fisica. Per ridurre i pericoli di quest’ultimo aspetto, intervenne la scienza nel ramo della fisiologia. La svolta la fornì il professore triestino Amedeo Herlitzka, docente all’Università di Torino ed allievo del grande fisiologo Angelo Mosso.
Sua fu l’idea di sviluppare un’apparecchiatura che potesse preparare fisicamente i piloti a terra, simulando le condizioni estreme del volo. Nel 1917 il governo lo incarica di fondare il Centro Psicofisiologico per la selezione attitudinale dei piloti con sede nella città sabauda. Qui nascerà il primo simulatore di volo della storia, successivamente sviluppato in una versione più avanzata. Oltre al simulatore, il fisiologo triestino ideò la campana pneumatica, un apparecchio dotato di una pompa a depressione in grado di riprodurre le condizioni atmosferiche di un volo fino a 6.000 metri di quota.
Per quanto riguardava le capacità di reazione e orientamento del pilota in condizioni estreme, Herlitzka realizzò il simulatore Blériot (dal nome della marca di apparecchi costruita a Torino su licenza francese). L’apparecchio riproduceva la carlinga del monoplano Blériot XI, dove il candidato seduto ai comandi veniva stimolato soprattutto nel centro dell’equilibrio localizzato nell’orecchio interno. Per simulare le condizioni di volo a visibilità zero l’aspirante pilota veniva bendato e sottoposto a beccheggi e imbardate come nel volo reale. All’apparecchio poteva essere applicato un pannello luminoso dove un operatore accendeva lampadine che il candidato doveva indicare nel minor tempo possibile. Il secondo simulatore, detto a telaio basculante, era ancora più realistico in quanto poteva simulare movimenti di rotazione, i più difficili da controllare, ruotando attorno al proprio asse grazie ad uno speciale binario. In seguito alla stimolazione, il pilota doveva colpire un bersaglio puntando una matita su un foglio sottostante, prova che accertava la capacità di resistenza e controllo del futuro aviatore.
I simulatori di Amedeo Herlitzka sono oggi conservati presso il Museo delle Forze Armate 1914-45 di Montecchio Maggiore (Vicenza).
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