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2025-03-25
Il progetto dei volenterosi è nato già morto
Emmanuel Macron e Keir Starmer (Getty Images)
Il progetto dei cosiddetti volenterosi pare destinato a naufragare ancora prima che possa prenderne forma concretamente. L’iniziativa intrapresa da Regno Unito e Francia, che ha come obiettivo la formazione di una coalizione in grado di fornire truppe di peacekeeping a sostegno dell’Ucraina in modo da garantire sicurezza nella regione una volta che sarà raggiunto l’accordo di pace con la Russia, sta incontrando non poche difficoltà lungo la strada. Allo scetticismo manifestato da diversi analisti e funzionari militari sulle effettive possibilità di realizzazione e sull’efficacia dell’iniziativa, ai dubbi su quali soldati inviare e quali equipaggiamenti bellici utilizzare e agli interrogativi sul funzionamento del piano senza il supporto degli Stati Uniti, sia a livello di intelligence che di copertura aerea, sono sopraggiunti ieri altri due fattori che non favoriscono il tentativo europeo immaginato da Keir Starmer ed Emmanuel Macron di avere voce in capitolo sullo scenario geopolitico attuale.
In primis il ruolo della Cina. Nei giorni scorsi, infatti, sulla stampa tedesca era circolata la notizia secondo cui il Dragone starebbe valutando la possibilità di spedire i propri militari in missione di peacekeeping e unirsi quindi alla coalizione dei volenterosi, con il Welt am Sonntag, edizione domenicale del quotidiano tedesco Die Welt, che citando fonti diplomatiche europee si è spinto addirittura ad affermare che «l’inclusione della Cina in una coalizione dei volenterosi potrebbe potenzialmente aumentare l’accettazione da parte della Russia di truppe di mantenimento della pace in Ucraina». Tuttavia, ieri, da Pechino è arrivata una secca smentita, con il portavoce del ministero degli Esteri Guo Jiakun che ha parlato di fake news: «Sono notizie del tutto false, la posizione della Cina sulla crisi in Ucraina resta coerente e inequivocabile». Solitamente, quando una notizia circola e poi viene smentita, la verità sta in mezzo e in questa circostanza è probabile che l’indiscrezione di stampa sulla partecipazione cinese al piano europeo in sostegno di Kiev possa essere espressione di un tentativo di coinvolgimento spontaneo da parte di Germania e Francia, con messaggio subliminale rivolto a Washington incluso.
L’altra grana che mette in forte discussione la realizzazione del progetto, fortemente criticata anche dall’inviato speciale Usa Steve Witkoff che lo ha definito «una posa semplicistica», è invece interna al Regno Unito. Diverse fonti militari di alto livello hanno infatti confidato al The Telegraph i propri dubbi sull’iniziativa di Starmer: «Sir Keir si è spinto troppo avanti parlando di truppe sul campo prima di sapere di cosa stesse parlando. Ed è per questo che ora sentiamo parlare meno di questo e più di aerei e navi, che sono più facili da impiegare e non richiedono una base in Ucraina» ha dichiarato un veterano dell’esercito dopo che il quotidiano inglese aveva rivelato la scorsa settimana che tra le proposte discusse dalla coalizione dei volenterosi ci sarebbe quella secondo cui i Typhoon della Raf avrebbero pattugliato i cieli ucraini e fornito copertura aerea alle eventuali truppe di terra. «Non esiste un obiettivo militare definito, né ipotesi strategiche militari ben pianificate. È tutto un teatro politico» ha attaccato un’altra fonte militare. Secondo un funzionario dell’esercito quella di Starmer è soltanto un’iniziativa politica senza alcun senso militare: «Ci sono circa 700.000 soldati russi dentro e intorno all’Ucraina e più di un milione di ucraini sotto le armi», ha spiegato. «Che cosa dovrebbe fare una forza internazionale di 10.000 uomini situata nell’Ovest del Paese, a più di 400 chilometri dalla linea del fronte? Non può nemmeno proteggere sé stessa. Qual è la missione? Qual è la sua legittimità? Quali sono le regole di ingaggio? Come viene comandata, rifornita e alloggiata? Per quanto tempo dovrebbe rimanere lì e perché? Nessuno lo sa». Critiche sul piano dei volenterosi sono piovute anche dall’ex segretario alla Difesa, Ben Wallace: «Putin percepisce che Europa e Regno Unito non hanno abbastanza risolutezza ed è per questo che non ci prende sul serio. Gli ultimi colloqui sulla coalizione sono stati più retorica che sostanza».
Ciononostante, Starmer e Macron non mostrano alcuna intenzione di far abortire l’iniziativa. Incassati questi colpi, i leader di Regno Unito e Francia si ritroveranno giovedì a Parigi per un nuovo vertice a cui parteciperanno anche il premier italiano Giorgia Meloni e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky; mentre ieri, il capo di Stato maggiore della Difesa britannica Tony Radakin, dopo aver respinto le critiche al piano definendole «sciocchezze» in quanto «le discussioni in corso sono serie», ha ricevuto a Whitehall il suo omologo francese per discutere di cooperazione tra i due Paesi e ribadire la determinazione della coalizione nel garantire la sicurezza dell’Ucraina. Tutto questo nelle ore in cui in Arabia Saudita, a Riad, si intensificavano i colloqui di pace tra le delegazioni di Russia e Stati Uniti.
Ursula alza il salario ai burocrati: è la settima volta in appena 3 anni
Nonostante gli spettri della crisi economica e un ruolo politico sempre più marginale, per l’Unione europea c’è comunque una certezza. L’aumento di stipendio dei suoi circa 66.000 dipendenti.
Preciso come un orologio, il ritocco arriverà in busta paga da aprile. Il settimo incremento a partire dall’inizio del 2022. Per carità, un aggiustamento dovuto, un arrotondamento del salario che dipende dall’inflazione. Che però stride a fronte di un’Europa che dal 2019 è cresciuta solo del 5% rispetto al 12% degli Usa, impegnata più a proteggere, e quindi a introdurre una miriade di norme e vincoli burocratici su privacy, dati e clima piuttosto che focalizzarsi sulla crescita, e che un po’ cozza a fronte di stipendi più che rotondi. I funzionari nei gradi più alti passeranno infatti dagli attuali 23.262 euro a ben 25.229 euro al mese. Chiaramente parliamo del solo stipendio, perché per chi lavora nelle istituzioni europee sono previste una lunga serie di indennità, da quelle per la casa, per l’istruzione o le trasferte. Secondo il quotidiano tedesco Bild, in questi anni anche lo stipendio dei commissari sarebbe aumentato e di ben 2.200 euro al mese arrivando a mensilità pari a circa 28.400 euro. Non sarebbe da meno il presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, che sempre secondo i calcoli di Bild, ormai vedrebbe il proprio operato premiato con 2.700 euro in più al mese per uno stipendio pari a circa 34.800 euro.
Il ritocco per dipendenti e funzionari, in realtà, doveva arrivare già nel 2024. Poi però, evidentemente a fronte di un Natale molto generoso che sotto l’albero al terzo piano dell’Europarlamento dedicato ad Altiero Spinelli aveva fatto trovare un aumento del 4,1%, e di un ulteriore aumento del 3% che era arrivato nei primi sei mesi dello scorso anno, un aumento totale dell’8,3% in un solo anno deve essere sembrato troppo persino a Bruxelles.
E così, con la stessa delicatezza con cui le pagine del sito dell’Unione europea dedicate ai salari mensili, definiscono «servants», letteralmente «servitori», i propri stipendiati, evidentemente si è pensato bene di utilizzare la cosiddetta «clausola di moderazione» e recuperare il rimanente 1,2% nei primi mesi del 2025.
Quanto agli stipendi base dei funzionari, escluse le somme forfettarie esentasse, dai 3.361 euro percepiti a partire dai primi del 2024, dal prossimo aprile si arriverà a 3.645 euro.
Va detto che di norma gli stipendi vengono aumentati una volta all’anno con effetto retroattivo al 1° luglio in base all’andamento dei salari nei servizi pubblici degli Stati membri nonché dell’inflazione e quindi del costo della vita a Bruxelles e in Lussemburgo. Ma proprio a causa della forte inflazione degli ultimi anni, l’Unione europea ha applicato una sorta di regolamentazione speciale che prevede che parte dell’aumento venga pagata il primo gennaio. Per questo, la busta paga dei dipendenti dell’Ue, dal 2022 lievita solitamente il primo di gennaio e di luglio. Quanto all’anno in corso, se il tasso di inflazione non dovesse scendere, potrebbero esserci addirittura tre aumenti e dopo l’integrazione per il 2024 di aprile, da metà anno si potrebbe effettuare un aumento anticipato con effetto retroattivo a partire da gennaio. Il restante aumento scatterebbe successivamente, a luglio.
Insomma, a Bruxelles gli stipendi continuano a salire. Ma l’Unione europea non è l’unica a premiare il proprio operato nonostante tutto. Nonostante avesse chiuso il 2024 in rosso con perdite pari a 7,9 miliardi, la presidente della Banca centrale europea Christine Lagarde ha pensato bene di alzare il proprio stipendio del 4,7% passando da 444.984 mila euro a 466.092. Un incremento che, dati i magri risultati, risulta veramente difficile da spiegare.
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Germania e Francia tirano per la giacca Pechino, che però smentisce qualsiasi coinvolgimento nel piano Macron. E dopo i dubbi manifestati dagli analisti, Starmer incassa il no dei veterani dell’esercito, che ai media confidano: «Non sa di cosa sta parlando».Ursula von der Leyen alza il salario ai burocrati. Causa inflazione, ad aprile ennesimo aumento in busta paga per 66.000 dipendenti.Lo speciale contiene due articoli.Il progetto dei cosiddetti volenterosi pare destinato a naufragare ancora prima che possa prenderne forma concretamente. L’iniziativa intrapresa da Regno Unito e Francia, che ha come obiettivo la formazione di una coalizione in grado di fornire truppe di peacekeeping a sostegno dell’Ucraina in modo da garantire sicurezza nella regione una volta che sarà raggiunto l’accordo di pace con la Russia, sta incontrando non poche difficoltà lungo la strada. Allo scetticismo manifestato da diversi analisti e funzionari militari sulle effettive possibilità di realizzazione e sull’efficacia dell’iniziativa, ai dubbi su quali soldati inviare e quali equipaggiamenti bellici utilizzare e agli interrogativi sul funzionamento del piano senza il supporto degli Stati Uniti, sia a livello di intelligence che di copertura aerea, sono sopraggiunti ieri altri due fattori che non favoriscono il tentativo europeo immaginato da Keir Starmer ed Emmanuel Macron di avere voce in capitolo sullo scenario geopolitico attuale.In primis il ruolo della Cina. Nei giorni scorsi, infatti, sulla stampa tedesca era circolata la notizia secondo cui il Dragone starebbe valutando la possibilità di spedire i propri militari in missione di peacekeeping e unirsi quindi alla coalizione dei volenterosi, con il Welt am Sonntag, edizione domenicale del quotidiano tedesco Die Welt, che citando fonti diplomatiche europee si è spinto addirittura ad affermare che «l’inclusione della Cina in una coalizione dei volenterosi potrebbe potenzialmente aumentare l’accettazione da parte della Russia di truppe di mantenimento della pace in Ucraina». Tuttavia, ieri, da Pechino è arrivata una secca smentita, con il portavoce del ministero degli Esteri Guo Jiakun che ha parlato di fake news: «Sono notizie del tutto false, la posizione della Cina sulla crisi in Ucraina resta coerente e inequivocabile». Solitamente, quando una notizia circola e poi viene smentita, la verità sta in mezzo e in questa circostanza è probabile che l’indiscrezione di stampa sulla partecipazione cinese al piano europeo in sostegno di Kiev possa essere espressione di un tentativo di coinvolgimento spontaneo da parte di Germania e Francia, con messaggio subliminale rivolto a Washington incluso.L’altra grana che mette in forte discussione la realizzazione del progetto, fortemente criticata anche dall’inviato speciale Usa Steve Witkoff che lo ha definito «una posa semplicistica», è invece interna al Regno Unito. Diverse fonti militari di alto livello hanno infatti confidato al The Telegraph i propri dubbi sull’iniziativa di Starmer: «Sir Keir si è spinto troppo avanti parlando di truppe sul campo prima di sapere di cosa stesse parlando. Ed è per questo che ora sentiamo parlare meno di questo e più di aerei e navi, che sono più facili da impiegare e non richiedono una base in Ucraina» ha dichiarato un veterano dell’esercito dopo che il quotidiano inglese aveva rivelato la scorsa settimana che tra le proposte discusse dalla coalizione dei volenterosi ci sarebbe quella secondo cui i Typhoon della Raf avrebbero pattugliato i cieli ucraini e fornito copertura aerea alle eventuali truppe di terra. «Non esiste un obiettivo militare definito, né ipotesi strategiche militari ben pianificate. È tutto un teatro politico» ha attaccato un’altra fonte militare. Secondo un funzionario dell’esercito quella di Starmer è soltanto un’iniziativa politica senza alcun senso militare: «Ci sono circa 700.000 soldati russi dentro e intorno all’Ucraina e più di un milione di ucraini sotto le armi», ha spiegato. «Che cosa dovrebbe fare una forza internazionale di 10.000 uomini situata nell’Ovest del Paese, a più di 400 chilometri dalla linea del fronte? Non può nemmeno proteggere sé stessa. Qual è la missione? Qual è la sua legittimità? Quali sono le regole di ingaggio? Come viene comandata, rifornita e alloggiata? Per quanto tempo dovrebbe rimanere lì e perché? Nessuno lo sa». Critiche sul piano dei volenterosi sono piovute anche dall’ex segretario alla Difesa, Ben Wallace: «Putin percepisce che Europa e Regno Unito non hanno abbastanza risolutezza ed è per questo che non ci prende sul serio. Gli ultimi colloqui sulla coalizione sono stati più retorica che sostanza».Ciononostante, Starmer e Macron non mostrano alcuna intenzione di far abortire l’iniziativa. Incassati questi colpi, i leader di Regno Unito e Francia si ritroveranno giovedì a Parigi per un nuovo vertice a cui parteciperanno anche il premier italiano Giorgia Meloni e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky; mentre ieri, il capo di Stato maggiore della Difesa britannica Tony Radakin, dopo aver respinto le critiche al piano definendole «sciocchezze» in quanto «le discussioni in corso sono serie», ha ricevuto a Whitehall il suo omologo francese per discutere di cooperazione tra i due Paesi e ribadire la determinazione della coalizione nel garantire la sicurezza dell’Ucraina. Tutto questo nelle ore in cui in Arabia Saudita, a Riad, si intensificavano i colloqui di pace tra le delegazioni di Russia e Stati Uniti.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/progetto-volenterosi-nato-gia-morto-2671403667.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="ursula-alza-il-salario-ai-burocrati-e-la-settima-volta-in-appena-3-anni" data-post-id="2671403667" data-published-at="1742893265" data-use-pagination="False"> Ursula alza il salario ai burocrati: è la settima volta in appena 3 anni Nonostante gli spettri della crisi economica e un ruolo politico sempre più marginale, per l’Unione europea c’è comunque una certezza. L’aumento di stipendio dei suoi circa 66.000 dipendenti. Preciso come un orologio, il ritocco arriverà in busta paga da aprile. Il settimo incremento a partire dall’inizio del 2022. Per carità, un aggiustamento dovuto, un arrotondamento del salario che dipende dall’inflazione. Che però stride a fronte di un’Europa che dal 2019 è cresciuta solo del 5% rispetto al 12% degli Usa, impegnata più a proteggere, e quindi a introdurre una miriade di norme e vincoli burocratici su privacy, dati e clima piuttosto che focalizzarsi sulla crescita, e che un po’ cozza a fronte di stipendi più che rotondi. I funzionari nei gradi più alti passeranno infatti dagli attuali 23.262 euro a ben 25.229 euro al mese. Chiaramente parliamo del solo stipendio, perché per chi lavora nelle istituzioni europee sono previste una lunga serie di indennità, da quelle per la casa, per l’istruzione o le trasferte. Secondo il quotidiano tedesco Bild, in questi anni anche lo stipendio dei commissari sarebbe aumentato e di ben 2.200 euro al mese arrivando a mensilità pari a circa 28.400 euro. Non sarebbe da meno il presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, che sempre secondo i calcoli di Bild, ormai vedrebbe il proprio operato premiato con 2.700 euro in più al mese per uno stipendio pari a circa 34.800 euro. Il ritocco per dipendenti e funzionari, in realtà, doveva arrivare già nel 2024. Poi però, evidentemente a fronte di un Natale molto generoso che sotto l’albero al terzo piano dell’Europarlamento dedicato ad Altiero Spinelli aveva fatto trovare un aumento del 4,1%, e di un ulteriore aumento del 3% che era arrivato nei primi sei mesi dello scorso anno, un aumento totale dell’8,3% in un solo anno deve essere sembrato troppo persino a Bruxelles. E così, con la stessa delicatezza con cui le pagine del sito dell’Unione europea dedicate ai salari mensili, definiscono «servants», letteralmente «servitori», i propri stipendiati, evidentemente si è pensato bene di utilizzare la cosiddetta «clausola di moderazione» e recuperare il rimanente 1,2% nei primi mesi del 2025. Quanto agli stipendi base dei funzionari, escluse le somme forfettarie esentasse, dai 3.361 euro percepiti a partire dai primi del 2024, dal prossimo aprile si arriverà a 3.645 euro. Va detto che di norma gli stipendi vengono aumentati una volta all’anno con effetto retroattivo al 1° luglio in base all’andamento dei salari nei servizi pubblici degli Stati membri nonché dell’inflazione e quindi del costo della vita a Bruxelles e in Lussemburgo. Ma proprio a causa della forte inflazione degli ultimi anni, l’Unione europea ha applicato una sorta di regolamentazione speciale che prevede che parte dell’aumento venga pagata il primo gennaio. Per questo, la busta paga dei dipendenti dell’Ue, dal 2022 lievita solitamente il primo di gennaio e di luglio. Quanto all’anno in corso, se il tasso di inflazione non dovesse scendere, potrebbero esserci addirittura tre aumenti e dopo l’integrazione per il 2024 di aprile, da metà anno si potrebbe effettuare un aumento anticipato con effetto retroattivo a partire da gennaio. Il restante aumento scatterebbe successivamente, a luglio. Insomma, a Bruxelles gli stipendi continuano a salire. Ma l’Unione europea non è l’unica a premiare il proprio operato nonostante tutto. Nonostante avesse chiuso il 2024 in rosso con perdite pari a 7,9 miliardi, la presidente della Banca centrale europea Christine Lagarde ha pensato bene di alzare il proprio stipendio del 4,7% passando da 444.984 mila euro a 466.092. Un incremento che, dati i magri risultati, risulta veramente difficile da spiegare.
iStock
Sempre la storia dimostra che questo tipo di progresso tecnologico è spesso seguito dallo sviluppo di contromisure, non a caso stiamo assistendo alla comparsa di armi anti-drone, queste sia di tipo convenzionale, con un proiettile che viene sparato contro di essi, ma anche del tipo a energia concentrata, ovvero laser. L’evidenza però è che l'uso dei droni abbia cambiato la natura della guerra, con la zona in cui le forze di terra sono vulnerabili ad attacchi letali da parte di mezzi a pilotaggio remoto che si estende tra dieci e sedici chilometri dietro la linea del fronte. Ciò ha reso trincee, posizioni fortificate e veicoli blindati molto più vulnerabili di quanto non lo fossero in precedenza, costringendo l’industria a sviluppare nuovi tipi di protezioni da installare a bordo. Così se inizialmente i droni hanno dimostrato il loro valore nelle operazioni di intelligence, sorveglianza e ricognizione, poi in quello di effettori d’attacco, ora costituiscono anche una forza di difesa restando comunque utili per la raccolta di informazioni in tempo reale e per fornire consapevolezza della situazione del campo di battaglia, come anche a supporto della pianificazione e del comando, nel controllo e nella comunicazione come nell'avvistamento dell'artiglieria.
Un colpo deve costare meno di un proiettile
Uno dei problemi da risolvere per praticare un vero contrasto ai droni sono i costi: un sistema laser, oltre che costoso è anche difficilmente trasportabile e resta comunque vulnerabile a eventuali attacchi, dunque in Ucraina vengono usate le infinitamente più economiche reti che riducono l'efficacia dei droni imbrigliandone le eliche. La Marina britannica ha recentemente annunciato che impiegherà un'arma a energia diretta denominata DragonFire, sistema che come detto, sebbene presenti delle limitazioni, come il costo iniziale, le dimensioni, la necessità di alimentazione elettrica e il fatto di dover avere il bersaglio in vista per colpirlo, a ogni colpo costa soltanto l’equivalente di 12 euro. L’alternativa è usare la radiofrequenza, ovvero un’onda radio, che però in quanto a limitazioni si discosta di poco dall’altro: presenta l’indubbio vantaggio di poter colpire più bersagli contemporaneamente, ma non può distinguere tra i bersagli che ingaggia quali sono amici e quali nemici. Tradotto: nessun mezzo amico può volare quando viene usato tale sistema. Non si risolve il problema neppure con effettori come piccoli missili, che costerebbero più di altri droni: esistono, sia chiaro, ma se per neutralizzare un oggetto del valore di qualche migliaio di dollari se ne impiega uno che costa qualche milione, come è avvenuto nel Mar Rosso durante i primi attacchi dei ribelli Houthi alle navi commerciali, le contromisure si rivelano insostenibili.
Un nuovo problema, costruirli in fretta
A parte l’Ucraina, l’Iran e la Cina, nessuna altra nazione è in grado di produrre droni in modo sufficientemente rapido e puntuale per usarli in modo massiccio. Inoltre, l’evoluzione dei droni stessi è tanto rapida che nessuna forza armata può permettersi di tenere in magazzino un arsenale di unità che invecchierebbero in pochi mesi. Ciò ha creato una vulnerabilità critica nelle catene di approvvigionamento delle componenti dei droni, in particolare la dipendenza dell'Occidente da parti e materiali di origine cinese che presentano ovvi rischi per continuità di fornitura, possibili intrusioni software e quindi pericolo per conflitti futuri.
Un rebus tra materiali, costi e normative green
Per risolvere la situazione occorre una nuova corsa alla produzione protetta basandola sulla cooperazione internazionale, costruendo solide alleanze per la produzione di droni tra i membri della Nato concentrandosi sulla produzione coordinata e sempre sull'innovazione. Il tutto per realizzare catene di approvvigionamento sovrane: investire nella produzione nazionale di componenti critici, inclusi semiconduttori e sensori, per ridurre la dipendenza da materiali di origine asiatica. Ciò perché oltre Pechino, si è anche persa la certezza della continuità di produzione proveniente da Taiwan. Un altro metodo è standardizzare la produzione di droni concentrandosi sulla produzione scalabile. La chiamano resilienza ma si tratta di sicurezza della catena di approvvigionamento, partendo dal disporre di una riserva di terre rare e di materiali definiti critici. Questa strategia è però resa ancor più difficile dall’applicazione di severe direttive ecologiche da parte dell’Unione europea e degli Usa, dove già talune produzioni non possono essere più fatte con taluni materiali, con il risultato che un numero significativo di componenti risulta oggi non rispondente alle caratteristiche di quelli precedenti. Lo sa bene chi progetta, sempre più in lotta con dichiarazioni per le normative Reach, che comprende migliaia di sostanze chimiche in vari prodotti inclusi abbigliamento, mobili, ed elettronica), e RoHs, la specifica per i dispositivi elettrici ed elettronici che limita le sostanze pericolose come piombo, mercurio, cadmio e altre per proteggere l’ambiente. E si sa che la guerra non è certo ecologica.
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Il ministro degli Esteri del Regno di Giordania Ayman Safadi
Il ministro degli Esteri giordano Ayman Safadi spiega la partecipazione di Amman all’operazione Usa in Siria contro l’Isis, il ruolo della comunità drusa nella stabilità interna e l’impegno della Giordania per la pace e la sicurezza nella Striscia di Gaza. «Questi terroristi vogliono ricostituire lo Stato Islamico», avverte.
Nell’attacco alle posizioni dello Stato Islamico in Siria Washington ha colpito 70 obiettivi, neutralizzando la cellula che agiva nella provincia orientale siriana di Deir Ezzor. Questi miliziani dell’Isis erano i responsabili dell’attacco di Palmira dove avevano perso la vita tre americani, due militari e un interprete civile ed erano noti per le continue offensive con droni in questa area. L’operazione, denominata Occhio di falco, si è estesa a diverse località della Siria centrale utilizzando caccia, elicotteri d'attacco e artiglieria e agendo insieme all’aviazione della Giordania. Amman ha confermato la sua partecipazione a questa azione militare ribadendo la propria volontà di sradicare lo Stato Islamico dal Medio Oriente. Ayman Safadi è vice primo ministro e ministro degli Esteri del Regno di Giordania da quasi 9 anni ed è un diplomatico di grande esperienza.
Ministro Safadi, la partecipazione delle vostre forze aeree all’operazione degli Usa dimostra il vostro interesse ad essere protagonisti in Medio Oriente.
«Abbiamo deciso di affiancare gli statunitensi del Centcom perché riteniamo l’Isis un pericolo per tutta la nostra area e soprattutto per la Giordania. Questi terroristi hanno già cercato di infiltrare la nostra nazione, ma la loro propaganda non ha mai attecchito. La Giordania è uno dei 90 paesi che compongono la coalizione globale contro l'Isis, a cui la Siria ha recentemente aderito e questa operazione è l’attuazione pratica dei nostri principi. La nostra aviazione ha agito per impedire ai gruppi estremisti come questo di sfruttare questa regione come una rampa di lancio allo scopo di minacciare la sicurezza dei paesi vicini alla Siria e del Medio Oriente in generale, soprattutto dopo che l'Isis si è riorganizzato e ha ricostruito le sue capacità nella Siria meridionale. In troppi hanno sottovalutato la rinascita di questo network del terrorismo che è proliferato in Africa, dove gestisce traffici di armi, droga e migranti. Con i guadagni di queste attività criminali vogliono ricostituire lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, quella creatura nefasta che aveva conquistato il nord dell’Iraq e tutta la Siria orientale».
Il Medio Oriente è una regione complessa per le diversità culturali e religiose. In Giordania la convivenza sembra funzionare: come vive la sua comunità drusa questo equilibrio?
«Noi drusi siamo un gruppo etno-religioso con una lunga storia e abbiamo sempre lottato per le nazioni dove viviamo. In Giordania la comunità è piccola, ma siamo fieri di essere giordani. In Siria la situazione è complicata per i drusi che sono stati attaccati dai beduini e probabilmente anche da elementi dello Stato Islamico, il nuovo governo di Damasco deve fare di più per difendere le minoranze. Il presidente siriano Ahmed al Shara ha pubblicamente dichiarato di combattere lo Stato Islamico, ma ci sono intere province del sud e dell’est che sono fuori controllo e ci sono ancora troppe armi in Siria».
Il governo israeliano ha dichiarato di non fidarsi del nuovo regime di Damasco, qual è la posizione di Amman?
«Il presidente statunitense Donald Trump ha voluto togliere tutte le sanzioni alla Siria, aprendo un grande credito al nuovo corso. Adesso al Shara deve dimostrare di meritare questa fiducia e lo deve fare pacificando la sua nazione, la Siria è un paese con tante anime: sunniti, sciiti, cristiani e drusi. Washington sta dedicando una grande attenzione al Medio Oriente e questo è positivo. Soltanto il presidente Trump può ottenere una pace duratura e un futuro per la Striscia, la Giordania segue con estrema attenzione ciò che accade a Gaza perché circa il 50% della nostra popolazione è di origine palestinese. Noi siamo totalmente contrari a una divisione della Striscia, il territorio dei palestinese non deve essere toccato ed i confini devono restare gli stessi. La cosa più importante è garantire la sicurezza di tutti, dei palestinesi, degli israeliani ed anche delle nazioni vicine. La Giordania ha sempre represso la presenza di Hamas sul suo territorio, chiudendone gli uffici ed esiliandone i funzionari nel 1999. Negli ultimi anni abbiamo aumentato la sicurezza alle frontiere per ostacolare il contrabbando di armi, collegato ad Hamas che nel passato ha tentato di destabilizzare la Giordania».
Quale futuro per la Striscia di Gaza?
«Dobbiamo difendere la pace e ricostruire un posto dove gli abitanti di Gaza possano vivere. Il nostro sovrano ed il nostro governo hanno più volte dichiarato di essere favorevoli ad un maggior impegno degli europei nella Striscia. La Giordania ha relazioni eccellenti con l’Italia. Sua Maestà il Re Abdullah II di Giordania a marzo ha incontrato Giorgia Meloni e ha espresso apprezzamento per la solida cooperazione tra le due nazioni nell’assistenza umanitaria a Gaza. Il presidente del Consiglio italiano ha voluto sottolineare ancora una volta il ruolo svolto dalla Giordania, come una forza di pace e di dialogo determinante per il futuro di tutta l’area».
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Nuove accuse tra Cambogia e Thailandia lungo il confine conteso. Phnom Penh denuncia bombardamenti con caccia F-16, Bangkok parla di attacchi notturni cambogiani. Oltre mezzo milione di sfollati mentre proseguono i negoziati.
La crisi tra Cambogia e Thailandia torna ad aggravarsi lungo il confine conteso. Phnom Penh accusa Bangkok di aver intensificato i bombardamenti con caccia F-16, mentre le autorità thailandesi parlano di attacchi cambogiani durante la notte. Le accuse incrociate arrivano mentre sono in corso negoziati per un cessate il fuoco e il numero degli sfollati supera il mezzo milione.
Secondo il ministero della Difesa cambogiano, l’aeronautica thailandese avrebbe impiegato caccia F-16, sganciando almeno quaranta bombe nell’area del villaggio di Chok Chey. L’episodio viene descritto come un’ulteriore escalation militare in una zona già colpita da ripetuti raid. La versione di Bangkok è opposta. I media thailandesi riferiscono che, durante la notte, le forze cambogiane avrebbero condotto attacchi massicci lungo il confine nella provincia sud-orientale di Sa Kaeo, provocando danni a diverse abitazioni civili.
Nel frattempo, le due parti hanno avviato un nuovo ciclo di colloqui, iniziato mercoledì e destinato a durare quattro giorni, con l’obiettivo dichiarato di porre fine ai combattimenti. L’incontro si svolge in territorio thailandese, presso un valico di frontiera nella provincia di Chanthaburi, secondo quanto riferito da funzionari di Phnom Penh. Sul piano diplomatico si registra anche un coinvolgimento diretto degli Stati Uniti. Il primo ministro cambogiano Hun Manet ha reso noto di aver avuto un colloquio telefonico con il segretario di Stato americano Marco Rubio, durante il quale si è discusso di «come garantire un cessate il fuoco lungo il confine tra Cambogia e Thailandia».
Alla base delle tensioni c’è una disputa storica sulla delimitazione di circa 800 chilometri di confine, che affonda le radici nell’epoca coloniale. Il confronto armato si è riacceso con forza nel corso dell’anno. A luglio, cinque giorni di scontri avevano provocato circa 40 morti e costretto 300.000 persone ad abbandonare le proprie abitazioni, prima di una tregua che successivamente è fallita.
L’impatto umanitario resta pesante. Secondo le autorità cambogiane, oltre mezzo milione di persone è stato costretto a lasciare case e scuole nelle ultime due settimane di combattimenti. In una nota, il ministero dell’Interno di Phnom Penh ha parlato di 518.611 sfollati, denunciando che «oltre mezzo milione di cambogiani, tra cui donne e bambini, stanno soffrendo gravi difficoltà a causa dello sfollamento forzato dalle loro case e scuole per sfuggire al fuoco di artiglieria, ai razzi e agli attacchi aerei dei caccia F-16 thailandesi». In precedenza, Bangkok aveva indicato in circa 400.000 il numero degli sfollati sul proprio territorio. Il portavoce del ministero della Difesa thailandese, Surasant Kongsiri, ha affermato che il numero di persone accolte nei rifugi è in diminuzione, pur restando superiore alle 200.000 unità. Kongsiri ha inoltre invitato gli abitanti dei villaggi a rientrare con cautela, avvertendo che «potrebbero esserci ancora mine o bombe pericolose». Dal punto di vista militare, Phnom Penh ha sottolineato come le forze thailandesi abbiano continuato le operazioni dall’alba del 21 dicembre, segnalando combattimenti anche nei pressi del tempio khmer di Preah Vihear, risalente a 900 anni fa. La Cambogia ha inoltre ricordato il divario di risorse tra i due eserciti, a vantaggio di Bangkok. Secondo i dati ufficiali, il bilancio complessivo degli scontri è salito ad almeno 41 morti, di cui 22 thailandesi e 19 cambogiani. Le ostilità più recenti sono riprese il 12 dicembre, mentre una precedente ondata di violenze, a luglio, aveva causato 43 vittime in pochi giorni.
La crisi è ora all’attenzione dell’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico. I ministri degli Esteri dell’Asean, compresi quelli di Thailandia e Cambogia, si riuniscono il 22 dicembre a Kuala Lumpur per discutere del conflitto. Entrambi i governi hanno espresso l’auspicio che l’incontro contribuisca a ridurre le tensioni. La portavoce del ministero degli Esteri thailandese, Maratee Nalita Andamo, ha definito il vertice «un’importante opportunità per entrambe le parti». Bangkok ha tuttavia ribadito alcune condizioni preliminari, chiedendo a Phnom Penh di annunciare per prima un cessate il fuoco e di cooperare nelle operazioni di sminamento lungo il confine. In un comunicato, il governo thailandese ha precisato che un accordo potrà essere raggiunto «solo se basato principalmente su una valutazione della situazione sul campo da parte dell’esercito thailandese».
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