2019-12-17
Processo contro l’Eni. Spunta il terzo Victor presunto super teste
Domani sarà in aula l'ennesimo testimone chiamato dall'accusa Il primo era l'uomo sbagliato, il secondo fu ricusato dal giudice.Nel presepe del processo di Natale ci sono tre pastori esotici e strani. Arrivano dalla Nigeria, porterebbero la prova della più grande e presunta tangente mai pagata da un'azienda italiana (800 milioni di dollari), e hanno lo stesso nome. Victor. Due sono fantasmi accompagnatori, uno è reale e si presenterà domani in tribunale a Milano con l'etichetta di superteste contro l'Eni. Fra le condizioni per deporre aveva chiesto di entrare con il volto mascherato in un'aula senza pubblico né giornalisti, ma l'allure da Tommaso Buscetta gli è stata negata dal giudice, Marco Tremolada, estenuato dalle derive impressioniste di una storia che dura da cinque anni.Il capo d'imputazione è corruzione internazionale. Gli imputati sono l'ad Claudio Descalzi, il suo predecessore Paolo Scaroni, i manager Roberto Casula e Ciro Antonio Pagano, l'Eni come azienda, la Shell, alleata degli italiani nell'affaire africano, e Luigi Bisignani, l'uomo che continua a sussurrare ai potenti. I pm sono Sergio Spadaro e Fabio De Pasquale, vecchia conoscenza di Tangentopoli (inchieste Gabriele Cagliari, Chicchi Pacini Battaglia e Antonio Di Pietro). Il grande accusatore - ma anche coimputato, una specie di pentito - è l'ex dirigente Eni Vincenzo Armanna, licenziato due volte per irregolarità sulle note spese.Armanna punta il dito indice sui manager per tre episodi. Alcuni incontri di Scaroni e Descalzi con l'ex presidente nigeriano Jonathan Goodluck; il trasporto di 50 milioni di dollari in contanti dentro due trolley pesanti mezza tonnellata con un piccolo aereo noleggiato dall'Eni (vicenda stroncata dal pilota che ha dimostrato che non sarebbe mai riuscito a decollare); la presenza del faccendiere Emeka Obi, condannato a 4 anni per corruzione internazionale, come intermediario unico degli italiani in Nigeria. Per supportare l'accusa, un anno fa Armanna chiede di far testimoniare Victor Nawfar, capo della sicurezza della residenza dell'ex presidente nigeriano. De Pasquale definisce il colpo di scena «una prova decisiva». Però il testimone in videoconferenza delude i pm limitandosi a dire: «Non conosco gli imputati, non conosco neppure Armanna, non so nulla dei 50 milioni». Peraltro mai trovati.Il grande accusatore cambia l'avvocato (che nel frattempo lo aveva abbandonato) e si affida ad Angelo Staniscia, legale molto noto per avere fra i suoi clienti anche la famiglia Spada. La nuova richiesta alla corte è sorprendente: «Interrogate un altro Victor, quello vero». Con tante scuse per aver sbagliato testimone. Il giudice rigetta l'istanza «in mancanza di alcun elemento atto a dimostrarne il carattere di novità». Il processo prosegue con un ulteriore colpo di scena: Armanna chiede, questa volta supportato dai pm, di sentire un terzo signore nigeriano, un capo della polizia in pensione di nome Isaac Eke, che si faceva chiamare Victor. Siamo ai confini del surreale, ma non si potrà dire che la Procura ha lasciato qualcosa di intentato: è lui l'uomo che domani si presenta in aula. Poiché non conosce il tribunale e rischia di perdersi verrà accompagnato dai pm, procedura che ha lasciato esterrefatti gli avvocati perché irrituale. A un teste terzo non è consentito venire in contatto con le parti prima della deposizione. Ecco tre Victor e un processo che diventa un feuilleton ottocentesco a puntate. È partito tutto nel 2013 da un esposto dell'Ong internazionale Global witness nel quale si ipotizzava che il pagamento di parte della concessione (gli 800 milioni su un totale di un miliardo e 300 milioni) non sarebbe finito al governo nigeriano in carica - e di conseguenza al popolo con scuole e ospedali - ma nelle tasche di uomini politici corrotti, soprattutto di Dan Etete, ex ministro del petrolio. Per la pubblica accusa quelle erano tangenti e l'Eni sapeva. La compagnia sostiene di avere semplicemente pagato la concessione; l'ha fatto a Londra attraverso la banca JP Morgan, operazione controllata dall'antiriciclaggio inglese (la Soca), al tempo presieduta da Theresa May. Altri due procedimenti aperti sul caso, a Londra e a Washington, si sono conclusi con un nulla di fatto. Negli Usa, dove a indagare era l'Fbi, il giudice ha chiuso l'inchiesta. E un testimone americano chiamato alla sbarra a Milano ha detto curiosamente: «Noi non abbiamo trovato niente, speriamo che troviate qualcosa voi». La posta in palio è enorme e il tempo gioca contro gli interessi del Paese. L'Eni è la più grande azienda italiana, partecipata al 30% dallo Stato; in primavera ci sarà il rinnovo delle cariche e una sentenza tirata per le lunghe diventerebbe un fatto politico, togliendo ai vertici attuali la possibilità d'una riconferma. Proprio per accorciare i tempi i difensori hanno tagliato il 90% dei testimoni ma non hanno fatto i conti con la saga dei tre Victor. Ma c'è un altro aspetto strategico. La concessione Opl 245 al largo delle coste della Nigeria è un giacimento dal valore immenso e tutti i player mondiali attendono che scada (2021) per portarcela via. Lo scandalo ha fin qui impedito di estrarre un bicchiere di greggio e il governo nigeriano, che non riesce a incamerare il suo 50%, potrebbe ascoltare le sirene cinesi o francesi e dirottare la concessione altrove. Domani in quell'aula, davanti al Victor uno e trino, la partita giudiziaria è il meno.
Giorgia Meloni ad Ancona per la campagna di Acquaroli (Ansa)
«Nessuno in Italia è oggetto di un discorso di odio come la sottoscritta e difficilmente mi posso odiare da sola. L'ultimo è un consigliere comunale di Genova, credo del Pd, che ha detto alla capogruppo di Fdi «Vi abbiamo appeso a testa in giù già una volta». «Calmiamoci, riportiamo il dibattito dove deve stare». Lo ha detto la premier Giorgia Meloni nel comizio di chiusura della campagna elettorale di Francesco Acquaroli ad Ancona. «C'é un business dell'odio» ha affermato Giorgia Meloni. «Riportiamo il dibattito dove deve stare. Per alcuni è difficile, perché non sanno che dire». «Alcuni lo fanno per strategia politica perché sono senza argomenti, altri per tornaconto personale perché c'e' un business dell'odio. Le lezioni di morale da questi qua non me le faccio fare».
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