2021-08-17
Ecco i primi fondi per le cure a casa. Ma si scordano di aiutare i medici
I 4 miliardi stanziati per l'assistenza domiciliare andranno tutti per l'organizzazione. Dottori infuriati: «Niente risorse per noi».Mai fidarsi degli annunci di Speranza. Tre giorni fa spiegavamo alcune delle potenziali fregature nascoste dietro il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Nello spiegare la situazione, notavamo come il sottosegretario Roberto Garofoli avesse invitato tutti i ministri a presentare una road map che obbligasse i loro dicasteri a usare le forbici per tagliare la spesa di competenza nel triennio 2023-2025. Cioè quando questo governo non sarà sicuramente più in carica. Sempreché, vista l'aria che tira in questa epoca di pandemia, non si decida di sospendere lo svolgimento delle elezioni per evitare i soliti pericolosi assembramenti. Quali le parole d'ordine? L'eterna lotta all'evasione per un fisco più equo (che tradotto vuol dire: più tasse), ma soprattutto spending review. Una suadente, seppur logora, espressione che significa revisione della spesa. E ipotizzavamo un esempio paradossale: minori prestazioni rese dal Servizio sanitario nazionale per finanziare la fighissima telemedicina nelle comunità periferiche più difficilmente accessibili. L'immagine che tre giorni fa ci eravamo fatti in testa era più o meno questa. Il medico di base a distanza vi risponde subito grazie alla potentissima fibra in rete realizzata attraverso il Pnrr (come se oggi nessuno di voi fosse connesso al Web). Il dottore alla fine vi prescrive una risonanza magnetica. E qui purtroppo scoprirete che quella prestazione sarà quasi una chimera. Perché nel frattempo si sarà materializzata la già accennata spending review. Tagli di spesa e minori prestazioni. Con una lista di attesa che invece di sei mesi si allunga a nove, forse dodici. A meno che non decidiate di pagarvela di tasca propria quella risonanza. Ci sarebbe piaciuto che questo fosse rimasto un paradosso. E invece, a quanto pare, questo sembra essere esattamente il quadro delineato ieri da Silvestro Scotti: segretario nazionale della Federazione italiana dei medici di medicina generale. Ma andiamo con ordine. La cronaca di ieri è questa. Si comincia con il lancio di agenzia a effetto: con il Pnrr il ministero della Salute investe «4 miliardi di euro nelle cure domiciliari per portare l'assistenza pubblica e le cure più appropriate in casa dei pazienti». Evviva, penserete: è finita con la tachipirina e la vigile attesa. Finalmente si comincia a curare il Covid a casa? Non proprio. La tachipirina e la vigile attesa rimangono e su quello Roberto Speranza non torna indietro. Quello che ieri è stato approvato da ministero e Regioni è invece un molto più burocratico «nuovo sistema di autorizzazione e accreditamento». Un complesso di norme e regolamenti che fisseranno requisiti elevati e omogenei per tutti i soggetti che erogheranno questi servizi a domicilio. Secondo il ministero un sistema che «garantirà cure con standard avanzati e della medesima qualità su tutto il territorio nazionale». Questa la versione del ministero della Salute. Molto più preoccupato e preoccupante è stato invece il commento del segretario dei medici di base. «Sulle cure domiciliari non si tiene conto del carico sui medici di famiglia», ha detto il segretario Scotti rilevando come non siano stati previsti investimenti specifici per i camici bianchi. Si parla di quattro miliardi. Bei soldi, certo. Che però non andranno né ai medici di base, né per la specialistica ambulatoriale. Questi soldi andranno tutti nella struttura organizzativa. Ma in concreto, sottolinea Scotti, «non c'è nulla per chi poi dovrà concretamente assistere i pazienti a casa, a parte gli infermieri che vengono assunti per questo. Ma quando l'infermiere dovrà chiamare il medico chi chiamerà?». La verità è che la salute è un argomento straordinario sia per fare propaganda un tanto al chilo quanto per fare cassa se si devono racimolare soldi. Lo scorso 31 marzo 2020, a poche settimane dello scoppio della pandemia, la Commissione europea - rimanendo seria - dichiarava che non erano mai stati chiesti all'Italia tagli alla spesa sanitaria essendo questa un'area di competenza nazionale. Anzi, proseguiva il comunicato, la Commissione «ha più volte sottolineato come la spesa italiana fosse più bassa della media Ue». Falso, purtroppo. Gilberto Trombetta - giornalista e candidato sindaco a Roma - li sbugiarda il giorno dopo postando uno studio dell'economista irlandese Emma Clancy che elenca il numero di volte in cui la Commissione Ue ha emanato raccomandazioni nei confronti degli stati membri: 301 in tutto dal 2011 al 2018. Al primo posto le pensioni: alzare l'età per andare a riposo e/o diminuire l'assegno. Oltre un terzo delle raccomandazioni. Subito al secondo posto i tagli alla spesa sanitaria: 63 le raccomandazioni. Seguono i soliti «saggi» consigli per ridurre i salari, precarizzare il lavoro e ridurre la spesa negli ammortizzatori sociali. Mai una volta che si dicesse di spendere di più. Ecco come è arrivata la nostra sanità all'appuntamento col Covid: male. Anni e anni di tagli al bilancio della sanità non potevano non lasciare ferite aperte nel momento del bisogno.
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