L’articolo 117 ci vincola ai trattati internazionali: da qui deriva l’arbitrio delle toghe. Si deve ripristinare il primato della politica.
L’articolo 117 ci vincola ai trattati internazionali: da qui deriva l’arbitrio delle toghe. Si deve ripristinare il primato della politica.Presidente di sezione a riposo della Corte di CassazioneUna delle più pericolose, tra le varie mine vaganti disseminate nella nostra Costituzione, è certamente quella contenuta nell’articolo 117 che, nel testo sciaguratamente sostituito dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, prevede che la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni sia esercitata nel rispetto non solo (come sarebbe ovvio) della Costituzione, ma anche «dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali». Ciò comporta che l’efficacia di tali vincoli viene a essere formalmente equiparata a quella delle norme costituzionali, per cui, in caso di contrasto con le norme interne, queste ultime debbono essere dichiarate incostituzionali, salvo solo il caso - come più volte affermato dalla stessa Corte - che operi il cosiddetto «controlimite», costituito dalla salvaguardia, in ogni caso, dei «principi fondamentali» della nostra Costituzione. L’eventuale incostituzionalità si profila, in particolare, nel caso di contrasto tra norme interne e direttive europee, le quali non hanno, di regola, diretta efficacia nell’ordinamento di ogni singolo Stato ma impegnano quest’ultimo a recepirle con propri provvedimenti che, in Italia, hanno forma, in genere, di decreti legislativi. Sono, quindi, questi ultimi, al pari di ogni altra norma interna, preesistente o successiva, a correre il rischio dell’incostituzionalità qualora si ravvisi un contrasto con le direttive. L’anomalia di tale disciplina consiste nel fatto che essa deroga al fondamentale e da sempre indiscusso principio secondo cui, essendo lo Stato e non ogni singolo cittadino il contraente dell’obbligo derivante da un accordo internazionale (quale è anche quello di adesione all’Unione europea), solo allo Stato - e per esso all’autorità politica che di volta in volta lo rappresenta - spetta di stabilire se, a seconda delle circostanze, l’osservanza di quell’obbligo sia o meno politicamente conveniente. E la convenienza va valutata con riguardo alle conseguenze, positive o negative, di qualsivoglia natura, che, a seconda della scelta, si produrrebbero tanto sul piano internazionale quanto su quello interno. Va da sé, naturalmente, che, trattandosi di scelta affidata all’autorità politica, sarà poi questa a risponderne, politicamente, ai suoi cittadini, in tutti i modi possibili e immaginabili, a seconda del tipo di ordinamento vigente nello Stato. L’abnorme risultato, invece, della «costituzionalizzazione» delle direttive - cui si accompagna quella delle decisioni della Corte di giustizia dell’Unione europea che ne indichi la corretta interpretazione - è quello che viene a scomparire il potere, proprio dell’autorità politica, di compiere la suddetta valutazione. Infatti, anche quando l’attuazione di una direttiva sia da ritenere in radicale e grave contrasto con gli interessi nazionali, questi vengono necessariamente a soccombere a fronte della eventuale constatazione, nel giudizio di costituzionalità, che la norma interna con la quale si è inteso salvaguardarli non è conforme alla direttiva, per cui non può che essere soppressa. E non varrebbe osservare in contrario che l’inosservanza di una direttiva europea, comportando la possibilità di una procedura d’infrazione da parte dell’Unione a carico dello Stato inadempiente, si tradurrebbe, per quest’ultimo, in un danno che sarebbe sempre e comunque suo interesse evitare. Lo Stato che sia ritenuto colpevole dell’infrazione, infatti, ai sensi dell’articolo 260 del Tfue (Trattato sul funzionamento dell’Unione europea), può essere soltanto condannato, dalla Corte di giustizia, al pagamento di una non meglio precisata «somma forfettaria» o «penalità»; e non è detto che ciò non dia luogo, per esso, a un danno minore di quello che, nella sua valutazione, potrebbe derivargli dalla puntuale attuazione della direttiva. Vero è che, nei rapporti internazionali, dovrebbe sempre valere il principio del pacta sunt servanda (i patti vanno osservati). Altrettanto vero è, però, che non è certo il giudice nazionale ad aver titolo per imporre alla legittima autorità politica del proprio Paese di attenersi al detto principio, pur quando essa ritenga, presumibilmente a ragion veduta, che, nell’interesse pubblico, sia meglio derogarvi, assumendosene (come si è detto) la relativa responsabilità. Ed è il caso di osservare, a questo punto, per venire all’attualità, che proprio a causa della «costituzionalizzazione» delle direttive europee in materia di immigrazione, per effetto dell’articolo 117 della Costituzione, la magistratura si è ritenuta legittimata, in alcuni casi, a disapplicare direttamente le norme interne ritenute con esse in contrasto e, in altri casi, a sospenderne l’applicazione in attesa della risposta della Corte di giustizia europea al quesito sul come quelle direttive debbano essere interpretate, per poi verificarne la compatibilità o meno con le norme interne. Iniziative, queste, la prima delle quali è, peraltro, da ritenere assolutamente illegittima, giacché alla disapplicazione delle norme interne ritenute in contrasto con quelle europee può darsi luogo, in virtù del noto e pacifico principio della prevalenza di queste ultime sulle prime, soltanto quando le norme europee siano dotate di diretta efficacia nell’ordinamento interno; il che si verifica, ai sensi dell’articolo 288 del Tfue, per i regolamenti, ma non per le direttive. Nel caso, quindi, di ritenuto contrasto delle norme interne con queste ultime, il giudice non può disapplicarle, ma solo sollevare questione di legittimità costituzionale davanti alla Corte costituzionale, così come farebbe in qualsiasi altro caso di ritenuto contrasto tra una legge ordinaria e la Costituzione. E solo in vista di tale eventualità trova giustificazione l’altra iniziativa costituita dalla proposizione del quesito alla Corte di giustizia europea, giacché proprio dalla risposta a tale quesito potrebbe dipendere la riconoscibilità o meno del contrasto tra direttive e norme interne. Ben si comprende, quindi - e può condividersi - la ragione per la quale la Lega ha proposto, in Senato, che l’articolo 117 della Costituzione venga nuovamente modificato nel senso di rendere obbligatoria, per il legislatore ordinario, soltanto l’osservanza della Costituzione e non dei vincoli europei o internazionali. Il che, contrariamente a quanto sostenuto da taluni frettolosi e scandalizzati critici, lascerebbe intatto il principio di prevalenza del diritto dell’Unione su quello interno, attesa la sua già ricordata applicabilità soltanto nel caso in cui le norme europee abbiano - come continuerebbero ad avere - diretta efficacia nell’ordinamento interno. La proposta della Lega è stata, per ora, bloccata in commissione (a quanto è dato sapere) per la sua ritenuta eterogeneità rispetto al contenuto del disegno di legge sulla separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri, in cui avrebbe dovuto essere inserita. Ma questo non impedisce di sperare che sia ripresa al più presto, in altro modo e con miglior fortuna.
Marco Minniti (Ansa)
L’ex ministro: «Teniamo d’occhio la Cina su Taiwan. Roma deve rinsaldare i rapporti Usa-Europa e dialogare col Sud del mondo».
Attilio Fontana e Maurizio Belpietro
Nell’intervista con Maurizio Belpietro, il presidente della Lombardia avverte: «Non possiamo coprire 20 mila ettari di campi con pannelli solari. Dall’idroelettrico al geotermico fino ai piccoli reattori: la transizione va fatta con pragmatismo, non con imposizioni».
Nell’intervista con Maurizio Belpietro, il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana affronta il tema dell’energia partendo dalle concessioni idroelettriche. «Abbiamo posto fin da subito una condizione: una quota di energia deve essere destinata ai territori. Chi ospita dighe e centrali subisce disturbi e vincoli, è giusto che in cambio riceva benefici. Per questo prevediamo che una parte della produzione venga consegnata agli enti pubblici, da utilizzare per case di riposo, scuole, edifici comunali. È un modo per restituire qualcosa alle comunità».
Investimenti e controlli sulle concessioni. Belpietro incalza: quali investimenti saranno richiesti ai gestori? Fontana risponde: «Non solo manutenzione ordinaria, ma anche efficientamento. Oggi è possibile aumentare la produzione del 10-15% con nuove tecnologie. Dobbiamo evitare che si ripeta quello che è successo con le autostrade: concessioni date senza controlli e manutenzioni non rispettate. Per l’idroelettrico serve invece una vigilanza serrata, con obblighi precisi e verifiche puntuali. La gestione è più territoriale e diretta, ed è più semplice accorgersi se qualcosa non funziona».
Microcentrali e ostacoli ambientali. Sulla possibilità di nuove centrali idroelettriche, anche di piccola scala, il governatore è scettico: «In Svizzera realizzano microcentrali grandi come un container, che garantiscono energia a interi paesi. In Italia, invece, ogni progetto incontra l’opposizione degli ambientalisti. Anche piccole opere, che non avrebbero impatto significativo, vengono bloccate con motivazioni paradossali. Mi è capitato di vedere un’azienda agricola che voleva sfruttare un torrente: le è stato negato il permesso perché avrebbe potuto alterare di pochi gradi la temperatura dell’acqua. Così diventa impossibile innovare».
Fotovoltaico: rischi per l’agricoltura. Il presidente spiega poi i limiti del fotovoltaico in Lombardia: «Noi dobbiamo produrre una quota di energia pulita, ma qui le ore di sole sono meno che al Sud. Per rispettare i target europei dovremmo coprire 20 mila ettari di territorio con pannelli solari: un rischio enorme per l’agricoltura. Già si diffonde la voce che convenga affittare i terreni per il fotovoltaico invece che coltivarli. Ma così perdiamo produzione agricola e mettiamo a rischio interi settori».
Fontana racconta anche un episodio recente: «In provincia di Varese è stata presentata una richiesta per coprire 150 ettari di terreno agricolo con pannelli. Eppure noi avevamo chiesto che fossero privilegiate aree marginali: a ridosso delle autostrade, terreni abbandonati, non le campagne. Un magistrato ha stabilito che tutte le aree sono idonee, e questo rischia di creare un problema ambientale e sociale enorme». Mix energetico e nuove soluzioni. Per Fontana, la chiave è il mix: «Abbiamo chiesto al Politecnico di Milano di studiare un modello che non si basi solo sul fotovoltaico. Bisogna integrare geotermico, biomasse, biocarburanti, cippato. Ci sono molte fonti alternative che possono contribuire alla produzione pulita. E dobbiamo avere il coraggio di investire anche in quello che in Italia è stato troppo a lungo trascurato: il geotermico».
Il governatore cita una testimonianza ricevuta da un docente universitario: «Negli Stati Uniti interi quartieri sono riscaldati col geotermico. In Italia, invece, non si sviluppa perché – mi è stato detto – ci sono altri interessi che lo frenano. Io credo che il geotermico sia una risorsa pulita e inesauribile. In Lombardia siamo pronti a promuoverne l’uso, se il governo nazionale ci darà spazio».
Il nodo nucleare. Fontana non nasconde la sua posizione favorevole: «Credo nel nuovo nucleare. Certo, servono anni e investimenti, ma la tecnologia è molto diversa da quella del passato. Le paure di Chernobyl e Fukushima non sono più attuali: i piccoli reattori modulari sono più sicuri e sostenibili. In Lombardia abbiamo già firmato con l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica un accordo per sviluppare Dal confronto con Belpietro emerge un filo conduttore: Attilio Fontana chiede di mettere da parte l’ideologia e di affrontare la transizione energetica con pragmatismo. «Idroelettrico, fotovoltaico, geotermico, nucleare: non c’è una sola strada, serve un mix. Ma soprattutto servono regole chiare, benefici per i territori e scelte che non mettano a rischio la nostra agricoltura e la nostra economia. Solo così la transizione sarà sostenibile».
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Il presidente di Generalfinance e docente di Corporate Finance alla Bocconi Maurizio Dallocchio e il vicedirettore de la Verità Giuliano Zulin
Il panel dell’evento de La Verità, moderato dal vicedirettore Giuliano Zulin, ha affrontato il tema cruciale della finanza sostenibile con Maurizio Dallocchio, presidente di Generalfinance e docente di Corporate Finance alla Bocconi.
Dopo l’intervista di Maurizio Belpietro al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, Zulin ha chiamato sul palco Dallocchio per discutere di quante risorse servono per la transizione energetica e di come la finanza possa effettivamente sostenerla.
Il tema centrale, secondo Dallocchio, è la relazione tra rendimento e impegno ambientale. «Se un green bond ha un rendimento leggermente inferiore a un titolo normale, con un differenziale di circa 5 punti base, è insensato - ha osservato - chi vuole investire nell’ambiente deve essere disposto a un sacrificio più elevato, ma serve chiarezza su dove vengono investiti i soldi». Attualmente i green bond rappresentano circa il 25% delle emissioni, un livello ritenuto ragionevole, ma è necessario collegare in modo trasparente raccolta e utilizzo dei fondi, con progetti misurabili e verificabili.
Dallocchio ha sottolineato anche il ruolo dei regolamenti europei. «L’Europa regolamenta duramente, ma finisce per ridurre la possibilità di azione. La rigidità rischia di scoraggiare le imprese dal quotarsi in borsa, con conseguenze negative sugli investimenti green. Oggi il 70% dei cda delle banche è dedicato alla compliance e questo non va bene». Un altro nodo evidenziato riguarda la concentrazione dei mercati: gli emittenti privati si riducono, mentre grandi attori privati dominano la borsa, rendendo difficile per le imprese italiane ed europee accedere al capitale. Secondo Dallocchio, le aziende dovranno abituarsi a un mercato dove le banche offrono meno credito diretto e più strumenti di trading, seguendo il modello americano.
Infine, il confronto tra politica monetaria europea e americana ha messo in luce contraddizioni: «La Fed dice di non occuparsi di clima, la Bce lo inserisce nei suoi valori, ma non abbiamo visto un reale miglioramento della finanza green in Europa. La sensibilità verso gli investimenti sostenibili resta più personale che istituzionale». Il panel ha così evidenziato come la finanza sostenibile possa sostenere la transizione energetica solo se accompagnata da chiarezza, regole coerenti e attenzione al ritorno degli investimenti, evitando mode o vincoli eccessivi che rischiano di paralizzare il mercato.
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2025-09-15
Pichetto Fratin: «Auto elettriche, l’Ue sbaglia. Così scarica i costi sugli europei»
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Nell’intervista con Maurizio Belpietro, il ministro dell’Ambiente attacca Bruxelles: «Il vincolo del 2035 è una scelta ideologica, non scientifica». Sul tema bollette, precisa: «L’obiettivo è farle scendere, ma non esistono bacchette magiche. Non è che con un mio decreto domani la bolletta cala: questo accadeva solo in altri regimi. Noi stiamo lavorando per correggere il meccanismo che determina il prezzo dell’energia, perché ci sono anomalie evidenti».
Intervistato da Maurizio Belpietro, direttore de La Verità, il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Gilberto Pichetto Fratin non usa giri di parole: «Io non sono contro l’elettrico, sono convinto che il motore elettrico abbia un futuro enorme. Ma una cosa è credere in una tecnologia, un’altra è trasformarla in un’imposizione politica. Questo ha fatto l’Unione Europea con la scadenza del 2035». Secondo Pichetto Fratin, il vincolo fissato a Bruxelles non nasce da ragioni scientifiche: «È come se io oggi decidessi quale sarà la tecnologia del 2040. È un metodo sovietico, come le tavole di Leontief: la politica stabilisce dall’alto cosa succederà, ignorando il mercato e i progressi scientifici. Nessuno mi toglie dalla testa che Timmermans abbia imposto alle case automobilistiche europee – che all’epoca erano d’accordo – il vincolo del 2035. Ma oggi quelle stesse industrie si accorgono che non è più sostenibile».
Il motore elettrico: futuro sì, imposizioni no. Il ministro tiene a ribadire di non avere pregiudizi sulla tecnologia: «Il motore elettrico è il più semplice da costruire, ha sette-otto volte meno pezzi, si rompe raramente. Pensi al motore del frigorifero: quello di mia madre ha funzionato cinquant’anni senza mai guastarsi. È una tecnologia solida. Ma da questo a imporre a tutti gli europei di pagare la riconversione industriale delle case automobilistiche, ce ne corre». Colonnine e paradosso dell’uovo e della gallina. Belpietro chiede conto del tema infrastrutturale: perché le gare per le colonnine sono andate deserte? Pichetto Fratin replica: «Perché non c’è il mercato. Non ci sono abbastanza auto elettriche in circolazione, quindi nessuno vuole investire. È il classico paradosso: prima l’uovo o la gallina?». Il ministro racconta di aver tentato in tutti i modi: «Ho fatto bandi, ho ripetuto le gare, ho perfino chiesto a Rfi di partecipare. Alla fine ho dovuto riconvertire i 597 milioni di fondi europei destinati alle colonnine, dopo una lunga contrattazione con Bruxelles. Ma anche qui si vede l’assurdità: l’Unione Europea ci impone obiettivi, senza considerare che il mercato non risponde».
Prezzi eccessivi e mercato bloccato. Un altro nodo è il costo delle auto elettriche: «In Germania servono due o tre annualità di stipendio di un operaio per comprarne una. In Italia ce ne vogliono cinque. Non è un caso che fino a poco tempo fa fossero auto da direttori di giornale o grandi manager. Questo non è un mercato libero, è un’imposizione politica». L’errore: imporre il motore, non le emissioni. Per Pichetto Fratin, l’errore dell’Ue è stato vincolare la tecnologia, non il risultato: «Se l’obiettivo era emissione zero nel 2035, bastava dirlo. Ci sono già veicoli diesel a emissioni zero, ci sono biocarburanti, c’è il biometano. Ma Bruxelles ha deciso che l’unica via è l’elettrico. È qui l’errore: hanno trasformato una direttiva ambientale in un regalo alle case automobilistiche, scaricando il costo sugli europei».
Bruxelles e la vicepresidente Ribera. Belpietro ricorda le dichiarazioni della vicepresidente Teresa Ribera. Il ministro risponde: «La Ribera è una che ascolta, devo riconoscerlo. Ma resta molto ideologica. E la Commissione Europea è un rassemblement, non un vero governo: dentro c’è di tutto. In Spagna, per esempio, la Ribera è stata protagonista delle scelte che hanno portato al blackout, puntando solo sulle rinnovabili senza un mix energetico». La critica alla Germania. Il ministro non risparmia critiche alla Germania: «Prima chiudono le centrali nucleari, poi riaprono quelle a carbone, la fonte più inquinante. È pura ipocrisia. Noi in Italia abbiamo smesso col carbone, ma a Berlino per compiacere i Verdi hanno abbandonato il nucleare e sono tornati indietro di decenni».
Obiettivi 2040: «Irrealistici per l’Italia». Si arriva quindi alla trattativa sul nuovo target europeo: riduzione del 90% delle emissioni entro il 2040. Pichetto Fratin è netto: «È un obiettivo irraggiungibile per l’Italia. I Paesi del Nord hanno territori sterminati e pochi abitanti. Noi abbiamo centomila borghi, due catene montuose, il mare, la Pianura Padana che soffre già l’inquinamento. Imporre le stesse regole a tutti è sbagliato. L’Italia rischia di non farcela e di pagare un prezzo altissimo». Il ruolo del gas e le prospettive future. Il ministro difende il gas come energia di transizione: «È il combustibile fossile meno dannoso, e ci accompagnerà per decenni. Prima di poterlo sostituire servirà il nucleare di quarta generazione, o magari la fusione. Nel frattempo il gas resta la garanzia di stabilità energetica». Conclusione: pragmatismo contro ideologia. Nelle battute finali dell’intervista con Belpietro, Pichetto Fratin riassume la sua posizione: «Ridurre le emissioni è un obiettivo giusto. Ma un conto è farlo con scienza e tecnologia, un altro è imporre scadenze irrealistiche che distruggono l’economia reale. Qui non si tratta di ambiente: si tratta di ideologia. E i costi ricadono sempre sugli europei.»
Il ministro aggiunge: «Oggi produciamo in Italia circa 260 TWh. Il resto lo importiamo, soprattutto dalla Francia, poi da Montenegro e altri paesi. Se vogliamo davvero dare una risposta a questo fabbisogno crescente, non c’è alternativa: bisogna guardare al nucleare. Non quello di ieri, ma un nuovo nucleare. Io sono convinto che la strada siano i piccoli reattori modulari, anche se aspettiamo i fatti concreti. È lì che dobbiamo guardare». Pichetto Fratin chiarisce: «Il nucleare non è un’alternativa alle altre fonti: non sostituisce l’eolico, non sostituisce il fotovoltaico, né il geotermico. Ma è un tassello indispensabile in un mix equilibrato. Senza, non potremo mai reggere i consumi futuri». Gas liquido e rapporti con gli Stati Uniti. Il discorso scivola poi sul gas: «Abbiamo firmato un accordo standard con gli Stati Uniti per l’importazione di Gnl, ma oggi non abbiamo ancora i rigassificatori sufficienti per rispettarlo. Oggi la nostra capacità di importazione è di circa 28 miliardi di metri cubi l’anno, mentre l’impegno arriverebbe a 60. Negli Usa i liquefattori sono in costruzione: servirà almeno un anno o due. E, comunque, non è lo Stato a comprare: sono gli operatori, come Eni, che decidono in base al prezzo. Non è un obbligo politico, è mercato». Bollette e prezzi dell’energia. Sul tema bollette, il ministro precisa: «L’obiettivo è farle scendere, ma non esistono bacchette magiche. Non è che con un mio decreto domani la bolletta cala: questo accadeva solo in altri regimi. Noi stiamo lavorando per correggere il meccanismo che determina il prezzo dell’energia, perché ci sono anomalie evidenti. A breve uscirà un decreto con alcuni interventi puntuali. Ma la verità è che per avere bollette davvero più basse bisogna avere energia a un costo molto più basso. E i francesi, grazie al nucleare, ce l’hanno a prezzi molto inferiori ai nostri».
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