2022-12-18
Prima che l’Europa ci metta il cappio usiamo il patrimonio contro il debito
L’Ue è pronta al ritorno all’austerità: dobbiamo anticiparla e dotarci di uno scudo. Immobili e municipalizzate devono essere valorizzati senza svendite per risanare i conti pubblici e liberare risorse per tagliare le tasse.I primi «pizzini» sono già arrivati. Da ultimo, le parole e le scelte dell’ineffabile Christine Lagarde. Ma, ben prima, non vanno sottovalutate alcune dichiarazioni del cerbero lettone Valdis Dombrovskis, e soprattutto la proposta presentata da Paolo Gentiloni di cosiddetta «riforma» del Patto di stabilità, che mantiene ferme le regole più assurde, quelle che non a caso erano state sterilizzate da tempo e comunque erano state sospese durante l’emergenza pandemica e quella energetica: 3% (rapporto deficit/Pil), 60% (rapporto debito/Pil), cioè esattamente i vecchi contestatissimi paletti che, se si aggiunge quanto era previsto alla lettera nel Fiscal compact, avrebbero addirittura dovuto portare (per la quota eccedente rispetto al 60%) al taglio di 1/20 del debito all’anno. Tradotto in soldoni: aumenti di tasse o tagli di spesa forzosi, comunque un percorso verso la recessione. Al massimo l’Ue - ecco la «novità» - sarebbe così magnanima da preparare per ogni Paese un’ipotesi eufemisticamente detta di «aggiustamento» spalmata su quattro anni. A quel punto, il Paese presenterebbe delle controdeduzioni, e alla fine si arriverebbe all’adozione di un «percorso» che potrebbe essere allungato fino a sette anni se il Paese si obbliga a mitiche «riforme».Con altri due inquietanti dettagli. Il primo: si adotterebbe sistematicamente un meccanismo di condizionalità: non ti sei comportato bene? E allora ti sospendo i fondi. Il secondo (quest’ultimo viene ammesso solo a mezza bocca): si faciliterebbe l’innesco di una procedura per debito eccessivo, il cui avvio diverrebbe perfino compatibile con un deficit al di sotto del 3%. Come dire: per quanti sacrifici tu faccia, non basteranno mai. Ecco perché l’Italia farebbe bene a giocare d’anticipo. Nella politica, come nella vita personale, se non si è soggetto delle decisioni, se ne diventa oggetto. E a quel punto, considerando i 2.700 miliardi di debito dell’Italia, i circa 300 miliardi l’anno (come media) di titoli da rinnovare, i circa 60 miliardi annui di interessi (per capirci: la vecchia Imu sulla prima casa valeva 4 miliardi: quindi è come se ogni anno gli interessi sul debito fossero pari a 15 tasse sulla prima abitazione!), il «programma» sarà scritto dal destino: un incombente rischio di pilota automatico. Tra l’altro, usciamo da anni in cui c’erano almeno tre megatrend oggettivamente favorevoli: per via di quantitative easing o di strumenti equivalenti, esisteva un ampio ombrello in termini di acquisto e garanzia per i nostri titoli; c’erano prezzi bassi dell’energia; c’erano tassi bassissimi. Come sappiamo, tutte e tre queste condizioni sono già venute meno. E senza l’ombrello della Bce (o con un ombrello più ristretto), realisticamente, gli investitori continueranno a comprare titoli italiani, ma richiederanno un risk premium maggiore, rendimenti più alti. Né ha rassicurato (anzi!) un altro annuncio estivo di Francoforte, relativo a un nuovo programma di acquisto di titoli dedicato a Paesi eventualmente in crisi: la realtà è che il suo aggancio a una serie di condizionalità ad altissima intensità politica rischia di creare un contesto potenzialmente ancora più pericoloso per l’Italia. Fra i criteri di cui la Bce dovrà tenere conto, nell’esaminare la condizione di un Paese, ci sono infatti: il rispetto dei parametri di bilancio fissati dall’Ue, l’assenza di gravi squilibri macroeconomici, l’attuazione di politiche macroeconomiche sostenibili e sane, la sostenibilità di bilancio. In altre parole, sarà sufficiente che un Paese sgarri rispetto ai parametri del Pnrr o non si adegui alle indicazioni di Bruxelles o sia sottoposto a una procedura per deficit, perché rischi di ritrovarsi fuori da quell’ombrello. E per chi sta fuori, c’è un altro ombrello? Sì, la sigla è Omt (Outright monetary transactions, un vecchio strumento), un piano di cosiddetto salvataggio dalle condizioni ancora più drastiche: roba da dire addio a qualunque sovranità. Contro tutto questo, è indifferibile rimettere sul tavolo un’operazione «patrimonio contro debito». Prima che il cappio si stringa, sarebbe il caso di passare al contrattacco. Serve una proposta che possa ridurre il debito, ma funga anche da grande scudo per l’Italia. Ovviamente senza svendite, sarebbe dunque necessaria la ripresa di un vero progetto di valorizzazione di alcuni asset pubblici. L’ideale (purtroppo non realizzabile) sarebbe un’operazione capace di «cubare» diverse centinaia di miliardi, da impostare in un tempo ragionevole, e in grado di riportare il rapporto debito/Pil intorno al 100%. Servirebbe - in questo scenario - la valorizzazione e la messa sul mercato di quote di patrimonio pubblico, non solo immobiliare, attraverso un fondo, e l’uso di meccanismi che possano incoraggiare anche i piccoli risparmiatori, e non solo i grandi investitori. Le elaborazioni (di alcuni anni fa) non mancano: da quella di Paolo Savona e Antonio Rinaldi alla proposta di Rainer Masera, dalle ipotesi del compianto Francesco Forte a quelle di Carlo Pelanda. Purtroppo, dobbiamo rimpiangere di non averlo fatto negli anni passati: oggi le condizioni rendono tutto più difficile, e l’idea di arrivare in un colpo solo a quota 100% nel rapporto debito/Pil è pura illusione, ahinoi. Tuttavia - sia pure in modo assai più limitato, cioè non risolvendo i problemi una volta per tutti, ma almeno puntando su un effetto segnaletico, e cioè indicando ai mercati una direzione di marcia intelligente - si può comunque tentare di concepire un intervento capace di ridurre lo stock di debito, contenere il conto annuale degli interessi, alleggerire le tensioni sui mercati, e soprattutto offrire i margini per un’operazione costante (anno per anno) di riduzione della pressione fiscale. Intendiamoci: se è vero (ed è vero) che il nostro debito pubblico è altissimo, è pur vero che il nostro «patrimonio» complessivo, la nostra ricchezza privata, come Paese, è enorme, più o meno quattro volte superiore rispetto a quel debito (tra real estate e attività finanziarie, tutto considerato, si arriva infatti a circa 10.000 miliardi di euro). Per capirci, un’«azienda» così prospererebbe e godrebbe certamente di fiducia e credito bancario: ma le cose, quando si tratta del debito pubblico, sono come sappiamo soggette a criteri di valutazione diversi. E quindi il punto è proteggere il nostro risparmio privato; incanalarlo in modo sicuro e intelligente; per evitare che ad altri venga in mente di aggredirlo. Che cosa si può immaginare, dunque? 1 La prima ipotesi ha a che fare con l’immenso patrimonio immobiliare pubblico (stime del Mef di qualche anno fa indicavano un valore complessivo di 283 miliardi di euro). Conosco le obiezioni: non tutto questo patrimonio fa capo allo Stato (in buona parte è dei Comuni), ed esistono ulteriori difficoltà (vincoli rispetto al possibile mutamento della destinazione d’uso, necessità di ristrutturazioni eccetera). Tuttavia l’ipotesi seguente tiene conto di queste criticità. Si tratterebbe, da parte dello Stato (e, a cascata ma distintamente, da parte dei Comuni che volessero farlo), di cedere un portafoglio di immobili a un comparto di Cdp da dedicare specificamente alla valorizzazione delle proprietà immobiliari. Cdp dovrebbe finanziare l’acquisto attraverso un’emissione di obbligazioni: una quota trattenuta da sé stessa, e una quota da destinare sia ai risparmiatori retail sia agli investitori istituzionali. Per rivolgersi ai risparmiatori retail, li si potrebbe incoraggiare anche attraverso un trattamento fiscale vantaggioso. Successivamente, scatterebbe la valorizzazione del portafoglio real estate, e, nell’arco degli anni, sarebbero disponibili proventi sia per rimborsare risparmiatori e investitori sia per remunerare la quota trattenuta da Cdp stessa. Ecco una possibile variante: nulla vieta (la cosa avrebbe senso, in particolare, se indirizzata ai risparmiatori retail) di inserire nello «scatolone» da conferire a Cdp anche asset diversi: ad esempio, le municipalizzate. 2 La seconda ipotesi è per certi versi ancora più coraggiosa. Si tratterebbe - lo dico rozzamente - di «far ingrassare» Cdp (conferendole una significativa quantità di asset di varia natura) e poi di quotarne ad esempio il 40%, avendo come destinatarie le famiglie italiane. Questa mossa renderebbe ancora più esplicita l’intenzione di offrire una chance al risparmio italiano, di incoraggiare la scelta delle famiglie di incanalarlo in questo senso. 3 La terza ipotesi è una subordinata, nel caso in cui un Comune non voglia partecipare alla prima operazione e quindi non abbia intenzione di conferire a Cdp suoi asset immobiliari (diventando conseguentemente titolare di quote del fondo). Il governo potrebbe proporre al Comune un’alternativa, e cioè che il Comune emetta titoli usando i suoi immobili come garanzia, e ponendo le condizioni per raccogliere denaro e rinegoziare più favorevolmente i mutui già in essere. Si tratterebbe di un modo, per i Comuni, di ottimizzare il proprio debito utilizzando in modo intelligente il proprio patrimonio.
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