2023-05-28
I presidi si destano: il Pnrr a scuola non serve
Finalmente il sindacato dei dirigenti degli istituti dice l’ovvio: i soldi destinati all’istruzione hanno vincoli assurdi e diktat tecnologici che li rendono inutili, a fronte di carenze strutturali nelle classi e negli edifici.Meglio tardi che mai. In articulo mortis i presidi d’Italia danno segno di vita. Chiedono più autonomia nella gestione dei fondi del Pnrr riversati, a palate, nei bilanci delle loro scuole alla fine dell’estate scorsa: una pioggia di denaro legata a termini perentori, vincoli ferrei e rigide condizionalità, per «accelerare il processo di transizione digitale della scuola italiana e allinearlo alle priorità dell’Unione europea» (la quale, al solito, si piglia i soldi dalle nostre tasche e ce li restituisce sottoforma di elargizione ordinandoci come spenderli). Una manovra di magnitudine tale che l’ex ministro del governo Draghi, Patrizio Bianchi (per avventura direttore scientifico dell’Ifaib, Fondazione internazionale big data e intelligenza artificiale), l’ha definita «il più grande intervento trasformativo mai realizzato, con risorse e tempi certi». E sebbene qualcuno, anche dalle colonne di questo giornale, stesse cercando da tempo di suonare l’allarme, tutto procedeva secondo programma dentro i cubicoli della burocrazia, col favore del buio e all’insegna della fretta, giusto per non dare a nessuno - docenti, genitori, scolari - né il tempo né le informazioni necessarie per cogliere quale radicale metamorfosi della scuola stesse davvero bollendo in pentola. Della scuola intesa proprio in senso materiale: di mura, libri, penne, quaderni, didattica, persone in carne e ossa.Non ci voleva molto a capire che gli unici a trarre vantaggio dall’orgia tecnologica preconizzata dal Piano scuola 4.0 sono le lobby del digitale e i loro emissari, ingordi avventori di una nuova sterminata mangiatoia; non certo i docenti, endemicamente sottopagati, demansionati a facilitatori digitali prima di essere sostituiti dagli algoritmi; non certo gli scolari, condannati a rimbambirsi nell’eduverso, sottratti all’interazione con le cose e con i propri simili all’interno delle «nuove dimensioni di apprendimento ibrido con esperienza immersiva in realtà virtuali e fruizione a distanza di tutte le attività didattiche» (non si pensi nemmeno per un attimo che la Dad sia un’esperienza archiviata). Come se, venendo meno il caleidoscopio della classe, il corpo a corpo della lezione, il rapporto fisico tra chi insegna e chi impara, e dei discenti tra loro, non si disintegrasse tutto quel tessuto vitale e fecondo di cui l’apprendimento si nutre e si sostanzia. Ebbene, quei dirigenti che fino a ieri erano tutti presi ad abbuffarsi di mercanzia da catalogo, incuranti delle ricadute della propria marcia forzata al passo del Pnrr, d’improvviso oggi si svegliano e strillano: «Cosa se ne fa la scuola dei soldi per l’innovazione tecnologica se poi siamo costretti a insegnare in aule fatiscenti che cadono a pezzi?». E si lamentano delle «gabbie rigide», dei «perentori ultimatum». E si accorgono che «c’è incoerenza tra i bisogni effettivi delle scuole con le indicazioni previste per spendere i fondi». E concludono affermando che «la gestione dei fondi va rivista nei modi e nei tempi. Prima che sia troppo tardi», come indica l’allarme lanciato da Dirigentiscuola, il sindacato dei presidi.Uno che si domandasse cosa sia successo tra ieri e oggi, a giustificare la strana resipiscenza (considerato che da mesi sono in atto grandi manovre), dovrebbe andare a cercare tra le sparute notizie pubblicate in riferimento alla vicenda del liceo classico Albertelli di Roma, il cui consiglio di istituto, ai primi di maggio, ha avuto l’ardire - rara avis in un mare di conformismo e di obbedienza supina - di bocciare i progetti del Piano scuola 4.0. Si è sottolineato anzitutto il rischio che la scuola si trasformi in una sorta di sala giochi in cui le tempeste di immagini soppiantano lo studio delle leggi della realtà; poi, il fatto che le scuole già rigurgitano di attrezzature informatiche inutilizzate, e da rottamare; infine, la necessità di considerare i danni derivanti dall’abuso della tecnologia, quali risultano da una mole imponente di ricerche scientifiche (menzionata tra l’altro nell’allegato alla circolare ministeriale del 20 dicembre 2022) e pure dai rapporti Ocse-Pisa, che registrano una significativa regressione dei livelli di apprendimento in corrispondenza con la spinta alla digitalizzazione della didattica.«La proposta che abbiamo respinto», dicono tra le altre cose i rappresentanti dell’Albertelli, «serve a formare acritici operai del digitale, togliendo tempo e risorse dalle conoscenze fondamentali, e disinvestendo sulla necessità di dare la preparazione necessaria per affrontare gli studi che consentano di comprendere e costruire le tecnologie del futuro e la complessità del mondo». «Solo con più cultura si può usare la tecnologia per il bene comune e i mezzi tecnici possono restare tali e non trasformarsi in “fini”».E un semplice, lucidissimo, imprevisto è bastato a creare il panico, se, a ridosso della delibera, il presidente dell’Associazione nazionale presidi per il Lazio - come riportato da Repubblica - ha sentito l’impellenza di commentare: «Che importa il voto dell’organo collegiale?» agitando peraltro, abusivamente, lo spettro del commissariamento dell’istituto - alla faccia della tanto strombazzata conquista democratica dei decreti delegati; della altrettanto strombazzata autonomia scolastica; del principio costituzionale della libertà didattica. Tutti ferrivecchi, ai tempi del Pnrr.A quanto pare, però, qualcosa si è incrinato, se l’atteggiamento prevaricatore e intimidatorio della prima ora comincia a lasciare il posto alla cautela. A dimostrazione che non bisogna rassegnarsi a combattere i mostri, anche se sembrano invincibili. E che a volte basta un piccolo no per disturbare il manovratore e sparigliare le sue carte. Grazie liceo Albertelli, e grazie pure al tardivo guizzo dei presidi. Ora tocca a tutti noi.