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2025-10-07
Premier francese giù dopo 836 minuti. Ma l’Eliseo gli allunga la vita di 48 ore
Sébastien Lecornu (Ansa)
La maionese transalpina è impazzita. Per la terza volta nel giro di un anno, la Francia non ha più un governo. Salvo salvataggi in extremis. Il premier Sébastien Lecornu ha infatti gettato la spugna prima ancora di iniziare a governare, anche se ieri Macron gli ha concesso un altro giorno per delle «ultime consultazioni». Lecornu ha accettato, ma escludendo di poter essere lui il premier di un eventuale esecutivo per cui si trovasse la quadra (e non si capisce, a questo punto, a che titolo tenga le consultazioni). Il giovane macroniano si era preso una ventina di giorni per partorire un nuovo esecutivo, praticamente una fotocopia del precedente guidato da François Bayrou, ma gli sono bastate meno di 24 ore per mandare tutto all’aria. Lecornu ha spiegato i motivi della sua scelta ieri mattina, davanti ai giornalisti riuniti nel cortile di Palazzo Matignon, l’equivalente transalpino di Palazzo Chigi, e non ha risparmiato critiche ai partiti.
«Non sussistevano più le condizioni per poter esercitare le mie funzioni e consentire al governo di presentarsi domani all’Assemblea Nazionale» ha dichiarato Lecornu prima di criticare l’atteggiamento dei «partiti politici che a volte fingevano di non vedere il cambiamento, la rottura profonda» rappresentata dalla scelta «di non applicare l’articolo 49.3» che permette ai governi francesi di funzionare a colpi di fiducia.
A far precipitare la situazione sembra aver contribuito fortemente la nomina di Bruno Le Maire al ministero della Difesa. L’annuncio del nuovo incarico per colui che è stato, per anni, il ministro delle Finanze di Emmanuel Macron, è stato accolto come un lampo a ciel sereno soprattutto dalla destra moderata de Les Républicains (Lr). La conferma è arrivata dal leader del partito, nonché ministro dell’Interno uscente, Bruno Retailleau, che ieri al tg delle 13 di Tf1 ha dichiarato senza giri di parole: «Lecornu mi ha nascosto la nomina di Bruno Le Maire». Insomma, per Lr l’arrivo di Le Maire alla Difesa (ministero guidato fino a poche settimane fa proprio da Lecornu) è stato una sorta di pugnalata alle spalle che li ha fatti sentire come una stampella di soccorso di un nuovo governo troppo macronista per i loro gusti.
Il leader repubblicano ha anche detto che «bisogna che Macron prenda la parola» perché è l’unico che ha «il potere di sciogliere l’Assemblea nazionale o di nominare un altro governo». Il caos che regna nella politica d’Oltralpe non significa però, per Retailleau, che l’unica strada percorribile sia quella delle elezioni anticipate. Tuttavia, se Macron decidesse, una volta fallite le consultazioni supplementari, di sciogliere la Camera bassa del parlamento francese, per i Républicains non ci sarebbero problemi. Lo ha confermato alla radio France Inter il capogruppo Lr al parlamento Ue, François-Xavier Bellamy, secondo il quale «noi non abbiamo nulla da temere» nemmeno «uno scioglimento».
La fine anticipata della legislatura sembra essere qualcosa di ineluttabile. Per la leader del Rassemblement national (Rn), Marine Le Pen, le dimissioni di Lecornu sono state una «misura di saggezza». La stessa politica si è chiesta quanto Macron riuscirà ancora a «resistere allo scioglimento» che lei ha richiesto nuovamente. Lo stesso concetto è stato espresso anche dal suo collega di partito, Jordan Bardella, per il quale «è necessario che la Francia ritrovi un funzionamento democratico sano». Secondo il giovane capogruppo Rn al parlamento Ue, l’alternativa al voto anticipato sarebbe l’uscita di scena di Macron. Bardella ha ammesso, con lucidità, che «la mozione di destituzione» del presidente della Repubblica, presentata dalle sinistre «non ha alcuna possibilità di riuscita» e dunque Macron «non avrà altra scelta» se non quella di dimettersi, ha chiosato Bardella.
Anche l’esponente Lr David Lisnard, primo cittadino di Cannes nonché presidente dell’associazione dei sindaci francesi, ha chiesto le dimissioni del capo dello Stato transalpino. Una richiesta condivisa da Mathilde Panot, deputata dell’estrema sinistra de La France insoumise (Lfi) che ha evocato su X l’avvio di un «conto alla rovescia» per la fine del mandato di Macron. Il fondatore di Lfi, Jean-Luc Mélenchon, ha invece ricordato la mozione di destituzione del capo dello Stato, già firmata da più di cento deputati.
Va anche detto che, tra le sinistre, non tutti credono all’uscita di scena del presidente della Repubblica. È il caso degli ecologisti, guidati da Marine Tondelier; secondo la quale, Macron ha davanti a sé tre opzioni : «le dimissioni, lo scioglimento o la nomina di un primo ministro di sinistra». La stessa richiesta è stata avanzata da Pierre Jouvet, deputato socialista, che ha parlato della «nomina di un primo ministro proveniente dalla sinistra e dagli ecologisti». Anche Marion Maréchal non ha parlato delle dimissioni di Macron ma, piuttosto, della formazione di una «coalizione delle destre» nella prospettiva di un «ritorno alle urne».
Tutte ipotesi che verrebbero meno se Lecornu riuscisse a ritrovare una maggioranza entro domani.
Macron valuta soluzioni drastiche
Oltre che i conti pubblici e la pazienza dei cittadini, la grave crisi politica da cui Parigi non riesce a uscire mette a dura prova anche la fantasia degli analisti. Difficile, infatti, ipotizzare scenari diversi rispetto a quanto già fatto poche settimane fa. Qualora fallisse il tentativo in extremis con Sébastien Lecornu, che ha ottenuto 48 ore per delle «ultime consultazioni», le alternative sul tavolo di Emmanuel Macron sarebbero sempre quelle, con l’unica differenza che a ogni giro di giostra diventano tutte un po’ meno credibili e percorribili. Salvo forse una: le dimissioni del presidente stesso.
Un tempo era solo La France insoumise e la destra sovranista a chiedere questo passo di lato del presidente, mentre oggi sempre più esponenti dei Républicains cominciano ad aggiungersi al coro. Sarebbe un gesto clamoroso e che potrebbe essere risolutivo. Ma finora era ritenuto uno dei più improbabili. Non solo per fattori caratteriali e per il ben noto narcisismo di Macron, ma anche perché aprirebbe le porte a un possibile scenario da armageddon per l’establishment francese. La vittoria del candidato del Rassemblement national, quanto meno al primo turno, sarebbe infatti scontata in caso di nuove elezioni presidenziali. Certo, il sistema col doppio turno permette alle élite di sperare nell’ennesima riedizione del fronte repubblicano. Che tuttavia, col passare del tempo, appare sempre più simile alla linea Maginot, apparentemente incrollabile, ma nei fatti con sempre più crepe. Le pressioni sull’inquilino dell’Eliseo, in una parabola di impopolarità crescente, affinché tolga il disturbo sono forti. Finora sono andate a vuoto. Ieri, tuttavia, Le Parisien scriveva che, secondo fonti dell’Eliseo, il presidente sarebbe pronto a «prendersi le sue responsabilità» qualora le consultazioni andassero a vuoto. Una formula sibillina, tutta da indagare.
Un’altra possibilità, molto meno risolutiva, prevede la nomina di un nuovo premier, l’ennesimo. Le figure papabili, tuttavia, cominciano a scarseggiare. Un esponente di sinistra (il Partito socialista lo ha chiesto apertamente) o di destra avrebbe ben poche possibilità di superare le forche caudine dell’Aula. È vero, in Francia il primo ministro non è obbligato a presentarsi all’Assemblea nazionale per ottenere un voto di fiducia. Ma può essere chiamato a superare una «mozione di censura». Trovare l’incastro numerico e politico tra i quattro blocchi (sinistra, centro macroniano, destra moderata e destra sovranista) è quasi impossibile. Mancano anche all’orizzonte figure autorevoli super partes, o presunte tali, che possano ottenere consensi bipartisan. O forse i francesi sono semplicemente meno ingenui di noi e non si fanno abbindolare dal primo loden che passa.
Un ulteriore scenario prevede l’annuncio di una nuova dissoluzione dell’Assemblea nazionale, la seconda in poco più di un anno dopo quella decisa nel giugno 2024. Un po’ tutti i partiti la stanno chiedendo a gran voce. Ma non è chiaro cosa, dopo così pochi mesi, potrebbe rompere quella sorta di stallo alla messicana che si è venuto a creare fra i partiti.
C’è poi un’ulteriore, estrema ipotesi, che era circolata già alla vigilia della nomina di Sébastien Lecornu e che a maggior ragione potrebbe ritornare in auge oggi. Si tratta di quanto previsto dall’articolo 16 della Costituzione francese, che prefigura una sorta di stato d’emergenza. Nel caso, l’Eliseo assumerebbe sia il potere legislativo che quello esecutivo. Finora l’articolo è stato applicato solo da Charles De Gaulle, dopo il tentato putsch dei generali nel 1961. Si tratta di una misura estrema, prevista in molti ordinamenti, con la non trascurabile differenza che la Francia è l’unico Paese in cui è proprio la persona che assume i pieni poteri a conferirseli da sola. Qualche settimana fa, secondo i media francesi, Macron aveva avviato delle consultazioni con i giuristi per sapere se tale eventualità sia compatibile con lo scenario in essere. Per applicare l’articolo 16, il presidente della Repubblica deve giustificare «un’interruzione del regolare funzionamento dei poteri pubblici» o «una minaccia insurrezionale grave e immediata, suscettibile di mettere in discussione l’integrità del territorio, l’indipendenza della nazione o l’esecuzione degli impegni internazionali francesi». Ovviamente una crisi di governo, di suo, mal si presta a essere evocata come pretesto per questa sorta di colpo di mano, sia pur a norma di legge. Una serie di crisi una dopo l’altra, con lo spettro del default economico dietro l’angolo, le proteste nelle piazze e i venti di guerra nel mondo, forse sì. Chissà che non sia questa l’«assunzione di responsabilità» che ha in mente Macron.
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Caos Francia: la destra fa saltare Lecornu appena insediato. L’accusa: «Ci ha mentito sulle nomine». Indette altre consultazioni in extremis, però l’effimero primo ministro già si sfila: «In ogni caso non governerò io».Macron si dichiara pronto a «prendersi le proprie responsabilità» se il suo uomo fallisse ancora. Dimissioni o nuove elezioni politiche? L’ipotesi del «colpo di mano».Lo speciale contiene due articoli.La maionese transalpina è impazzita. Per la terza volta nel giro di un anno, la Francia non ha più un governo. Salvo salvataggi in extremis. Il premier Sébastien Lecornu ha infatti gettato la spugna prima ancora di iniziare a governare, anche se ieri Macron gli ha concesso un altro giorno per delle «ultime consultazioni». Lecornu ha accettato, ma escludendo di poter essere lui il premier di un eventuale esecutivo per cui si trovasse la quadra (e non si capisce, a questo punto, a che titolo tenga le consultazioni). Il giovane macroniano si era preso una ventina di giorni per partorire un nuovo esecutivo, praticamente una fotocopia del precedente guidato da François Bayrou, ma gli sono bastate meno di 24 ore per mandare tutto all’aria. Lecornu ha spiegato i motivi della sua scelta ieri mattina, davanti ai giornalisti riuniti nel cortile di Palazzo Matignon, l’equivalente transalpino di Palazzo Chigi, e non ha risparmiato critiche ai partiti.«Non sussistevano più le condizioni per poter esercitare le mie funzioni e consentire al governo di presentarsi domani all’Assemblea Nazionale» ha dichiarato Lecornu prima di criticare l’atteggiamento dei «partiti politici che a volte fingevano di non vedere il cambiamento, la rottura profonda» rappresentata dalla scelta «di non applicare l’articolo 49.3» che permette ai governi francesi di funzionare a colpi di fiducia.A far precipitare la situazione sembra aver contribuito fortemente la nomina di Bruno Le Maire al ministero della Difesa. L’annuncio del nuovo incarico per colui che è stato, per anni, il ministro delle Finanze di Emmanuel Macron, è stato accolto come un lampo a ciel sereno soprattutto dalla destra moderata de Les Républicains (Lr). La conferma è arrivata dal leader del partito, nonché ministro dell’Interno uscente, Bruno Retailleau, che ieri al tg delle 13 di Tf1 ha dichiarato senza giri di parole: «Lecornu mi ha nascosto la nomina di Bruno Le Maire». Insomma, per Lr l’arrivo di Le Maire alla Difesa (ministero guidato fino a poche settimane fa proprio da Lecornu) è stato una sorta di pugnalata alle spalle che li ha fatti sentire come una stampella di soccorso di un nuovo governo troppo macronista per i loro gusti.Il leader repubblicano ha anche detto che «bisogna che Macron prenda la parola» perché è l’unico che ha «il potere di sciogliere l’Assemblea nazionale o di nominare un altro governo». Il caos che regna nella politica d’Oltralpe non significa però, per Retailleau, che l’unica strada percorribile sia quella delle elezioni anticipate. Tuttavia, se Macron decidesse, una volta fallite le consultazioni supplementari, di sciogliere la Camera bassa del parlamento francese, per i Républicains non ci sarebbero problemi. Lo ha confermato alla radio France Inter il capogruppo Lr al parlamento Ue, François-Xavier Bellamy, secondo il quale «noi non abbiamo nulla da temere» nemmeno «uno scioglimento».La fine anticipata della legislatura sembra essere qualcosa di ineluttabile. Per la leader del Rassemblement national (Rn), Marine Le Pen, le dimissioni di Lecornu sono state una «misura di saggezza». La stessa politica si è chiesta quanto Macron riuscirà ancora a «resistere allo scioglimento» che lei ha richiesto nuovamente. Lo stesso concetto è stato espresso anche dal suo collega di partito, Jordan Bardella, per il quale «è necessario che la Francia ritrovi un funzionamento democratico sano». Secondo il giovane capogruppo Rn al parlamento Ue, l’alternativa al voto anticipato sarebbe l’uscita di scena di Macron. Bardella ha ammesso, con lucidità, che «la mozione di destituzione» del presidente della Repubblica, presentata dalle sinistre «non ha alcuna possibilità di riuscita» e dunque Macron «non avrà altra scelta» se non quella di dimettersi, ha chiosato Bardella.Anche l’esponente Lr David Lisnard, primo cittadino di Cannes nonché presidente dell’associazione dei sindaci francesi, ha chiesto le dimissioni del capo dello Stato transalpino. Una richiesta condivisa da Mathilde Panot, deputata dell’estrema sinistra de La France insoumise (Lfi) che ha evocato su X l’avvio di un «conto alla rovescia» per la fine del mandato di Macron. Il fondatore di Lfi, Jean-Luc Mélenchon, ha invece ricordato la mozione di destituzione del capo dello Stato, già firmata da più di cento deputati.Va anche detto che, tra le sinistre, non tutti credono all’uscita di scena del presidente della Repubblica. È il caso degli ecologisti, guidati da Marine Tondelier; secondo la quale, Macron ha davanti a sé tre opzioni : «le dimissioni, lo scioglimento o la nomina di un primo ministro di sinistra». La stessa richiesta è stata avanzata da Pierre Jouvet, deputato socialista, che ha parlato della «nomina di un primo ministro proveniente dalla sinistra e dagli ecologisti». Anche Marion Maréchal non ha parlato delle dimissioni di Macron ma, piuttosto, della formazione di una «coalizione delle destre» nella prospettiva di un «ritorno alle urne».Tutte ipotesi che verrebbero meno se Lecornu riuscisse a ritrovare una maggioranza entro domani.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/premier-francese-giu-836-minuti-2674160643.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="macron-valuta-soluzioni-drastiche" data-post-id="2674160643" data-published-at="1759818183" data-use-pagination="False"> Macron valuta soluzioni drastiche Oltre che i conti pubblici e la pazienza dei cittadini, la grave crisi politica da cui Parigi non riesce a uscire mette a dura prova anche la fantasia degli analisti. Difficile, infatti, ipotizzare scenari diversi rispetto a quanto già fatto poche settimane fa. Qualora fallisse il tentativo in extremis con Sébastien Lecornu, che ha ottenuto 48 ore per delle «ultime consultazioni», le alternative sul tavolo di Emmanuel Macron sarebbero sempre quelle, con l’unica differenza che a ogni giro di giostra diventano tutte un po’ meno credibili e percorribili. Salvo forse una: le dimissioni del presidente stesso.Un tempo era solo La France insoumise e la destra sovranista a chiedere questo passo di lato del presidente, mentre oggi sempre più esponenti dei Républicains cominciano ad aggiungersi al coro. Sarebbe un gesto clamoroso e che potrebbe essere risolutivo. Ma finora era ritenuto uno dei più improbabili. Non solo per fattori caratteriali e per il ben noto narcisismo di Macron, ma anche perché aprirebbe le porte a un possibile scenario da armageddon per l’establishment francese. La vittoria del candidato del Rassemblement national, quanto meno al primo turno, sarebbe infatti scontata in caso di nuove elezioni presidenziali. Certo, il sistema col doppio turno permette alle élite di sperare nell’ennesima riedizione del fronte repubblicano. Che tuttavia, col passare del tempo, appare sempre più simile alla linea Maginot, apparentemente incrollabile, ma nei fatti con sempre più crepe. Le pressioni sull’inquilino dell’Eliseo, in una parabola di impopolarità crescente, affinché tolga il disturbo sono forti. Finora sono andate a vuoto. Ieri, tuttavia, Le Parisien scriveva che, secondo fonti dell’Eliseo, il presidente sarebbe pronto a «prendersi le sue responsabilità» qualora le consultazioni andassero a vuoto. Una formula sibillina, tutta da indagare.Un’altra possibilità, molto meno risolutiva, prevede la nomina di un nuovo premier, l’ennesimo. Le figure papabili, tuttavia, cominciano a scarseggiare. Un esponente di sinistra (il Partito socialista lo ha chiesto apertamente) o di destra avrebbe ben poche possibilità di superare le forche caudine dell’Aula. È vero, in Francia il primo ministro non è obbligato a presentarsi all’Assemblea nazionale per ottenere un voto di fiducia. Ma può essere chiamato a superare una «mozione di censura». Trovare l’incastro numerico e politico tra i quattro blocchi (sinistra, centro macroniano, destra moderata e destra sovranista) è quasi impossibile. Mancano anche all’orizzonte figure autorevoli super partes, o presunte tali, che possano ottenere consensi bipartisan. O forse i francesi sono semplicemente meno ingenui di noi e non si fanno abbindolare dal primo loden che passa.Un ulteriore scenario prevede l’annuncio di una nuova dissoluzione dell’Assemblea nazionale, la seconda in poco più di un anno dopo quella decisa nel giugno 2024. Un po’ tutti i partiti la stanno chiedendo a gran voce. Ma non è chiaro cosa, dopo così pochi mesi, potrebbe rompere quella sorta di stallo alla messicana che si è venuto a creare fra i partiti.C’è poi un’ulteriore, estrema ipotesi, che era circolata già alla vigilia della nomina di Sébastien Lecornu e che a maggior ragione potrebbe ritornare in auge oggi. Si tratta di quanto previsto dall’articolo 16 della Costituzione francese, che prefigura una sorta di stato d’emergenza. Nel caso, l’Eliseo assumerebbe sia il potere legislativo che quello esecutivo. Finora l’articolo è stato applicato solo da Charles De Gaulle, dopo il tentato putsch dei generali nel 1961. Si tratta di una misura estrema, prevista in molti ordinamenti, con la non trascurabile differenza che la Francia è l’unico Paese in cui è proprio la persona che assume i pieni poteri a conferirseli da sola. Qualche settimana fa, secondo i media francesi, Macron aveva avviato delle consultazioni con i giuristi per sapere se tale eventualità sia compatibile con lo scenario in essere. Per applicare l’articolo 16, il presidente della Repubblica deve giustificare «un’interruzione del regolare funzionamento dei poteri pubblici» o «una minaccia insurrezionale grave e immediata, suscettibile di mettere in discussione l’integrità del territorio, l’indipendenza della nazione o l’esecuzione degli impegni internazionali francesi». Ovviamente una crisi di governo, di suo, mal si presta a essere evocata come pretesto per questa sorta di colpo di mano, sia pur a norma di legge. Una serie di crisi una dopo l’altra, con lo spettro del default economico dietro l’angolo, le proteste nelle piazze e i venti di guerra nel mondo, forse sì. Chissà che non sia questa l’«assunzione di responsabilità» che ha in mente Macron.
Il ministro ha ricordato che il concorrente europeo Fcas (Future combat aircraft system) avanza a ritmo troppo lento per disaccordi tra Airbus (Francia-Germania) e Dassault (Francia) riguardanti i diritti e la titolarità delle tecnologie. «È fallito il programma franco-tedesco […], probabilmente la Germania potrebbe entrare a far parte in futuro di questo progetto [...]. Abbiamo avuto richieste da Canada, Arabia Saudita, e penso che l’Australia possa essere interessata. Più nazioni salgono più aumenta la massa critica che puoi investire e meno costerà ogni esemplare». Tutto vero, rimangono però perplessità su un possibile coinvolgimento dei sauditi per due ragioni. La prima: l’Arabia sta incrementando i rapporti industriali militari con la Cina, che così avrebbe accesso ai segreti del nuovo caccia. La seconda: l’Arabia Saudita aveva finanziato anche altri progetti e tra questi persino uno con la Turchia, nazione che, dopo essere stata espulsa dal programma F-35 durante il primo mandato presidenziale di Trump a causa dell’acquisto dei missili russi S-400, ora sta cercando di rientrarci trovando aperture dalla Casa Bianca. Anche perché lo stesso Trump ha risposto in modo possibilista alla richiesta di Riad di poter acquisire lo stesso caccia nonostante gli avvertimenti del Pentagono sulla presenza cinese.
Per l’Italia, sede della fabbrica Faco di Cameri (Novara) che gli F-35 li assembla, con la previsione di costruire parti del Gcap a Torino Caselle (dove oggi si fanno quelle degli Eurofighter Typhoon), significherebbe creare una ricaduta industriale per qualche decennio. Ma dall’altra parte delle Alpi la situazione Fcas è complicata: un incontro sul futuro caccia che si sarebbe dovuto tenere in ottobre è stato rinviato per i troppi ostacoli insorti nella proprietà intellettuale del progetto. Se dovesse fallire, Berlino potrebbe essere colpita molto più duramente di Parigi. Questo perché la Francia, con Dassault, avrebbe la capacità tecnica di portare avanti da sola il programma, come del resto ha fatto 30 anni fa abbandonando l’Eurofighter per fare il Rafale. Ma l’impegno finanziario sarebbe enorme. Non a caso il Ceo di Dassault, Eric Trappier, ha insistito sul fatto che, se l’azienda non verrà nominata «leader indiscusso» del programma, lo Fcas potrebbe fallire. Il vantaggio su Airbus è evidente: Dassault potrebbe aggiornare ancora i Rafale passando dalla versione F5 a una possibile F6 e farli durare fino al 2060, ovvero due decenni dalla prevista entrata in servizio del nostro Gcap. Ma se Berlino dovesse abbandonare il progetto, non è scontata l’adesione al Gcap come partner industriale, mentre resterebbe un possibile cliente. Non a caso i tedeschi avrebbero già chiesto di poter assumere lo status di osservatori del programma. Senza Fcas anche la Spagna si troverebbe davanti decisioni difficili: in agosto Madrid aveva dichiarato che non avrebbe acquistato gli F-35 ma gli Eurofighter Typhoon e poi i caccia Fcas. Un mese dopo il primo ministro Pedro Sánchez espresse solidarietà alla Germania in relazione alla controversia tra Airbus e Dassault. Dove però hanno le idee chiare: sarebbe un suicidio industriale condividere la tecnologia e l’esperienza maturata con i Rafale, creata da zero con soldi francesi, impiegata con l’aviazione francese e già esportata con successo in India, Grecia ed Emirati arabi.
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Guido Crosetto (Ansa)
Tornando alla leva, «mi consente», aggiunge Crosetto, «di avere un bacino formato che, in caso di crisi o anche calamità naturali, sia già pronto per intervenire e non sono solo professionalità militari. Non c’è una sola soluzione, vanno cambiati anche i requisiti: per la parte combat, ad esempio, servono requisiti fisici diversi rispetto alla parte cyber. Si tratta di un cambio di regole epocale, che dobbiamo condividere con il Parlamento». Crosetto immagina in sostanza un bacino di «riservisti» pronti a intervenire in caso ovviamente di un conflitto, ma anche di catastrofi naturali o comunque situazioni di emergenza. Va precisato che, per procedere con questo disegno, occorre prima di tutto superare la legge 244 del 2012, che ha ridotto il personale militare delle forze armate da 190.000 a 150.000 unità e il personale civile da 30.000 a 20.000. «La 244 va buttata via», sottolinea per l’appunto Crosetto, «perché costruita in tempi diversi e vanno aumentate le forze armate, la qualità, utilizzando professionalità che si trovano nel mercato».
Il progetto di Crosetto sembra in contrasto con quanto proposto pochi giorni fa dal leader della Lega e vicepremier Matteo Salvini: «Sulla leva», ha detto Salvini, «ci sono proposte della Lega ferme da anni, non per fare il militare come me nel '95. Io dico sei mesi per tutti, ragazzi e ragazze, non per imparare a sparare ma per il pronto soccorso, la protezione civile, il salvataggio in mare, lo spegnimento degli incendi, il volontariato e la donazione del sangue. Sei mesi dedicati alla comunità per tutte le ragazze e i ragazzi che siano una grande forma di educazione civica. Non lo farei volontario ma per tutti». Intanto, Crosetto lancia sul tavolo un altro tema: «Serve aumentare le forze armate professionali», dice il ministro della Difesa, «e in questo senso ho detto più volte che l’operazione Strade sicure andava lentamente riaffidata alle forze di polizia». Su questo punto è prevedibile un attrito con Salvini, considerato che la Lega ha più volte sottolineato di immaginare che le spese militari vadano anche in direzione della sicurezza interna. L’operazione Strade sicure è il più chiaro esempio dell’utilizzo delle forze armate per la sicurezza interna. Condotta dall’Esercito italiano ininterrottamente dal 4 agosto 2008, l’operazione Strade sicure viene messa in campo attraverso l’impiego di un contingente di personale militare delle Forze armate che agisce con le funzioni di agente di pubblica sicurezza a difesa della collettività, in concorso alle Forze di Polizia, per il presidio del territorio e delle principali aree metropolitane e la vigilanza dei punti sensibili. Tale operazione, che coinvolge circa 6.600 militari, è, a tutt'oggi, l’impegno più oneroso della Forza armata in termini di uomini, mezzi e materiali.
Alle parole, come sempre, seguiranno i fatti: vedremo quale sarà il punto di equilibrio che verrà raggiunto nel centrodestra su questi aspetti. Sul versante delle opposizioni, il M5s chiede maggiore trasparenza: «Abbiamo sottoposto al ministro Crosetto un problema di democrazia e trasparenza», scrivono in una nota i capigruppo pentastellati nelle commissioni Difesa di Camera e Senato, Arnaldo Lomuti e Bruno Marton, «il problema della segretezza dei target capacitivi concordati con la Nato sulla base dei quali la Difesa porta avanti la sua corsa al riarmo. Non è corretto che la Nato chieda al nostro Paese di spendere cifre folli senza che il Parlamento, che dovrebbe controllare queste spese, conosca quali siano le esigenze che motivano e guidano queste richieste. Il ministro ha risposto, in buona sostanza, che l’accesso a queste informazioni è impossibile e che quelle date dalla Difesa sono più che sufficienti. Non per noi».
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Ecco #DimmiLaVerità del 5 dicembre 2025. Il senatore Gianluca Cantalamessa della Lega commenta il caso dossieraggi e l'intervista della Verità alla pm Anna Gallucci.