
Nel saggio di Tommaso Piffer i risultati di decenni di ricerca storica e giuridica con nuovi documenti sloveni: l’eccidio in cui i rossi trucidarono i partigiani della Osoppo logica conseguenza della linea politica filo titina del Pci.Nel 1944 Giovanni Comin si arruola con il nome di battaglia di Tigre in una formazione garibaldina sulle rive del Tagliamento. Catturato dai tedeschi, finisce su un treno diretto in un lager. A Udine si butta dai vagoni, trovando rifugio in una parrocchia. Al prete, vicino ai partigiani «bianchi» della Osoppo, dice di voler tornare a combattere. Il sacerdote, don Antonio Volpe, lo manda alle malghe di Porzûs, dove c’è Francesco De Gregori, zio dell’omonimo cantante. Il 7 febbraio 1945 Comin, ex partigiano garibaldino, tenta la fuga dall’assalto gappista alle malghe: muore colpito alle spalle da due partigiani garibaldini.A ricostruire in modo storiograficamente documentato ma accessibile ai non addetti ai lavori il più grave eccidio intra-partigiano della resistenza italiana (18 morti tra cui una donna) è il libro appena uscito Sangue sulla resistenza. Storia dell’eccidio di Porzûs (Mondadori, 264 pagine, 23 euro). L’autore, Tommaso Piffer, associato di Storia contemporanea a Udine, completa anni di ricerca sul tema (per la sua curatela uscì nel 2012, per il Mulino, Porzûs. Violenza e Resistenza sul confine orientale) grazie all’accesso a documentazione slovena inedita. Il testo ricostruisce con sicura bibliografico un punto della storia in cui la violenza del ’900 si è scaricata con impeto fratricida, toccando - come si legge nelle conclusioni - tre linee di faglia che hanno spaccato il «secolo breve» nel nostro Paese: quella tra fascismo e antifascismo, il dramma del confine con la Slovenia e quella tra comunismo e anticomunismo. Non si capisce lo sterminio delle malghe - avvolto in una nebbia di guerra fuori tempo massimo fino agli anni Novanta e alle parole di verità di Giorgio Napolitano - senza questo contesto.In Friuli si verifica infatti, per incrocio di storia e geografia, un fatto unico: la resistenza nasce, da parte rossa, con l’allora Partito comunista d’Italia che prende contatto con l’omologo sloveno per dar vita a nuclei combattenti. Si divarica così la tensione celata dalla «svolta di Salerno» (aprile ’44): da un lato i comunisti abbracciano la dimensione nazionale e il Cln, che consente loro di diventare forza popolare e poi parlamentare; dall’altro, non rinnegano la prospettiva rivoluzionaria. I titini però non hanno queste remore, anche perché Winston Churchill sceglie di appoggiarli al posto dei cetnici, e questo dà loro nuova linfa. Usare la fine della Seconda guerra mondiale per occupare territori italiani contesi significa, per i comunisti sloveni, allargare il potere del comunismo internazionale. E siccome Stalin aveva sancito che in ogni territorio potesse esistere solo un partito comunista, un nucleo armato di resistenti sotto il comando del Pcs significava che quella era, o sarebbe diventata, Slovenia.La posizione dei comunisti italiani e dei loro gruppi armati (brigate garibaldine e gruppi gappisti) diventa presto insostenibile: partecipare alla resistenza sotto gli sloveni significa non distinguere sul piano del nemico nazifascisti e partigiani non comunisti. Scrive Piffer che già «nell’agosto 1942 il Comintern stabilì che nella Venezia Giulia il Pcd’I fosse subordinato al Partito comunista sloveno sia nel campo politico sia in quello militare [...]. Di fatto, per il Comintern la Venezia Giulia non era più sotto la giurisdizione italiana». Figuriamoci nel 1944-45, quando il Pcd’i era divenuto Pci. Il partito non può che prendere tempo per celare l’indicibile: i partigiani del Cln combattono per liberare dai tedeschi e dai fascisti l’Italia, ma il Pcs lo fa per instaurare il socialismo. L’accordo prevede di trascurare, durante la guerra, il tema dei confini e, sul piano militare, di istituire un comitato di coordinamento che non escluda la cooperazione col Cln (cui Palmiro Togliatti ovviamente aderiva sul piano nazionale, pur avendo dato istruzione di favorire l’occupazione di Tito). Il Pci, inoltre, aumenta il suo raggio d’azione grazie ai gappisti, élite militare e politica.Almeno fino all’agosto 1944, il delicatissimo equilibrio, forzato anche dalla presenza non sempre concorde di americani e inglesi, regge. Poi, gli sloveni alzano la posta. Il 28 dello stesso mese il comitato centrale del Pcs ordina di sciogliere il comitato paritetico sotto il cui ombrello combattono tutti gli antifascisti: o gli italiani accettano la confluenza sotto il IX Corpo, o saranno disarmati. L’obiettivo è esplicito e documentato dagli atti del comando sloveno: conquistare la Venezia-Giulia e mettere gli anglo-americani davanti al fatto compiuto. I garibaldini si barcamenano nell’ambiguità; chi finisce stritolato dalla nuova linea è la brigata Osoppo, costituita da partigiani cattolici e azionisti: tagliata fuori dai colloqui e minacciata dai rastrellamenti tedeschi, il 10 ottobre ’44 ripara alle malghe di Porzûs, un insieme di edifici usati per il pascolo estivo a 1.000 metri d’altezza e a tre chilometri dall’attuale confine con la Slovenia.La tensione, intanto, monta: il Pci italiano con Pietro Secchia non obietta all’inserimento definitivo della divisione Natisone sotto il IX Corpo sloveno, pur ribadendo la teorica linea dell’unità del fronte antifascista. Per l’Osoppo è una condanna: o con gli sloveni o «andrà a finire male», come viene spiegato da un sacerdote vicino alla resistenza. A inizio dicembre il IX Corpo esplicita il diritto di arrestare e disarmare, trattandoli da nemici, gli osovani. Nello stesso periodo il comando della Natisone accetta non solo di cacciare i partigiani non comunisti dalla zona contesa, ma stabilisce di ammazzare tutti gli osovani che non accetteranno di passare nelle sue fila. Secondo le drammatiche parole dell’ufficiale scozzese Thomas Macpherson, la brigata bianca ha sette nemici: i tedeschi, i russi, i repubblichini, gli sloveni, i garibaldini, le spie civili e l’inverno.Il 15 gennaio 1945 De Gregori e i suoi sono prigionieri in patria, rimangono in 20, asserragliati alle malghe: molti sono giovani e giovanissimi carabinieri meridionali. Grazie a documenti rinvenuti in una sede Anpi di Udine dopo la fine della guerra, oggi sappiamo che il 7 febbraio, sotto l’ordine implicito della Natisone e sotto la diretta supervisione della federazione udinese del Pci che aveva avviato l’azione il 24 gennaio, i Gap guidati da Mario Toffanin detto Giacca arrivano alle malghe per liquidare la Osoppo: «Vai, vai, e fai bene», sono le parole che il segretario del Pci locale Otello Modesti dice al gappista. A parte una fuga miracolosamente riuscita e una, quella del fratello di Pier Paolo Pasolini, tentata ma tragicamente interrotta, a Porzûs vengono ammazzati tutti, a piedi nudi e molti con le mani legate col fil di ferro. Riconoscerne alcuni sarà quasi impossibile: crani rotti, volti sfigurati dai colpi, mutilazioni. Per Toffanin l’operazione è un successo completo. Saranno gli Alleati a guastare i piani ai titini, ridando quelle terre all’Italia postbellica e spingendo la cortina di ferro più a Est.Il 21 giugno 1945 il comando della Osoppo celebra le esequie dei compagni trucidati e, 48 ore dopo, presenta denuncia al procuratore di Udine. Inizia una tormentata vicenda giudiziaria in varie sedi (Friuli, Lombardia, Veneto e Toscana) che vede il Pci schierare a difesa degli imputati l’ex presidente dell’Assemblea costituente, Umberto Terracini, mentre l’Anpi vede in atto una «provocazione ordita contro la resistenza friulana». L’accusa di attentato all’integrità dello Stato per gli assassini di Porzûs infatti investe politicamente tutto il comunismo italiano. Ma cadrà in giudizio, prima di essere resa impossibile da un’amnistia votata nel 1959. Restano le condanne per omicidio. Tutti i protagonisti di Porzûs sono oggi morti. Anche per questo, il libro di Piffer ha il respiro e l’autorevolezza per una parola di verità senza la quale non è possibile alcuna pacificazione della memoria. Ed è giusto dire che, nell’unica circostanza in cui il Pci ha avuto vero potere militare e politico, l’ha usato per favorire la rivoluzione colpendo soldati italiani, sottraendo territori italiani e tentando per decenni di coprirne le tracce.
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Nonostante i dazi e un rafforzamento dell’euro, a settembre è boom di esportazioni negli Stati Uniti rispetto allo scorso anno, meglio di Francia (+8%) e Germania (+11%). Confimprenditori: «I rischi non arrivano da Washington ma dalle politiche miopi europee».
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Parla Gaetano Trivelli, uno dei leader del team Recap, il gruppo che dà la caccia ai trafficanti che cercano di fuggire dalla legge.
        Nicolas Maduro e Hugo Chavez nel 2012. Maduro è stato ministro degli Esteri dal 2006 al 2013 (Ansa)
    
Su un testo riservato appare il nome del partito creato da Grillo. Dietro a questi finanziamenti una vera internazionale di sinistra.
        Un disegno che ricostruisce i 16 mulini in serie del sito industriale di Barbegal, nel Sud della Francia (Getty Images)
    
Nel 1937 l’archeologo francese Fernand Benoit fece una scoperta clamorosa. Durante gli scavi archeologici nei pressi dell’acquedotto romano di Arles, la sua città, riportò alla luce un sito straordinario. Lungo un crinale ripido e roccioso, scoprì quello che probabilmente è stato il primo impianto industriale della storia, un complesso che anticipò di oltre un millennio la prima rivoluzione industriale, quella della forza idraulica.
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Situato a circa 8 km a nord di Arelate (odierna Arles), il sito archeologico di Barbegal ha riportato alla luce una fabbrica per la macinazione del grano che, secondo gli studiosi, era in grado di servire una popolazione di circa 25.000 persone. Ma la vera meraviglia è la tecnica applicata allo stabilimento, dove le macine erano mosse da 16 mulini ad acqua in serie. Il sito di Barbegal, costruito si ritiene attorno al 2° secolo dC, si trova ai piedi di una collina rocciosa piuttosto ripida, con un gradiente del 30% circa. Le grandi ruote erano disposte all’esterno degli edifici di fabbrica centrali, 8 per lato. Erano alimentate da due acquedotti che convergevano in un canale la cui portata era regolata da chiuse che permettevano di controllare il flusso idraulico.
Gli studi sui resti degli edifici, i cui muri perimetrali sono oggi ben visibili, hanno stabilito che l’impianto ha funzionato per almeno un secolo. La datazione è stata resa possibile dall’analisi dei resti delle ruote e dei canali di legno che portavano l’acqua alle pale. Anche questi ultimi erano stati perfettamente studiati, con la possibilità di regolarne l’inclinazione per ottimizzare la forza idraulica sulle ruote. La fabbrica era lunga 61 metri e larga 20, con una scala di passaggio tra un mulino e l’altro che la attraversava nel mezzo. Secondo le ipotesi a cui gli archeologi sono giunti studiando i resti dei mulini, il complesso di Barbegal avrebbe funzionato ciclicamente, con un’interruzione tra la fine dell’estate e l’autunno. Il fatto che questo periodo coincidesse con le partenze delle navi mercantili, ha fatto ritenere possibile che la produzione dei 16 mulini fosse dedicata alle derrate alimentari per i naviganti, che in quel periodo rifornivano le navi con scorte di pane a lunga conservazione per affrontare i lunghi mesi della navigazione commerciale.
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