2021-12-14
14 dicembre 1911: Amundsen e la conquista del Polo Sud
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Roald Amundsen (a destra) al Polo Sud il 14 dicembre 1911 (Getty Images)
L'ultimo continente inesplorato fu oggetto di una sfida tra il norvegese Roald Amundsen e il britannico Robert Falcon Scott. Due approcci molto diversi e un solo vincitore. In bilico tra il trionfo e la morte. Era il 14 dicembre 1911 quando la bandiera norvegese sventolò per prima al Polo Sud, frustata dal vento gelido dell’Antartide. Accanto a lui posavano due uomini, quasi irriconoscibili per l'abito fatto di pelli e pellicce che ne copriva integralmente le figure. L’ultima grande conquista geografica, che chiuse l’era delle esplorazioni cominciata alla fine del XV secolo, era compiuta. Il vincitore, uno dei due uomini ritratti nella fotografia, era un norvegese: Roald Engelbregt Gravning Amundsen, nato a Borge il 16 luglio 1872. La conquista dell’Antartide, un’area fino ad allora non definita e sconosciuta dal punto di vista geografico, era iniziata attorno al 1820, ma non si era mai conclusa per le difficoltà logistiche e ambientali che caratterizzarono le prime spedizioni. Solo alla fine del secolo XIX nacque la convinzione che il Polo Sud si trovasse all’interno di un continente vero e proprio e che fosse raggiungibile attraverso una rotta definita, tracciata per la prima volta dall’esploratore britannico Robert Falcon Scott, che nel 1902 giunse alla latitudine di 82°16’ S accompagnato da Ernest Shackleton il quale arrivò con la spedizione Nimrod a soli 160 chilometri dal Polo. Era il 9 gennaio 1909. Scott decise l’anno successivo di organizzare una seconda spedizione, nella comprensibile convinzione che la conquista dell’Antartide, dopo le fruttifere esperienze degli anni precedenti, fosse davvero possibile. Per questo motivo organizzò un corpo di esploratori, militari e scienziati in grande stile che venne ampiamente pubblicizzato dalla stampa internazionale, lasciando intendere che il Polo Sud sarebbe presto diventato un traguardo da aggiungere alla mappa dell’Impero britannico. Perché la spedizione potesse avere un successo ancora più altisonante decise di fare uso delle più avanzate tecnologie dell’epoca in termini di strumenti e materiali. Tra le meraviglie della spedizione «Terra Nova» (dal nome della nave che li avrebbe trasportati fino ai ghiacci dell’Antartide) figuravano le slitte dotate di motore a benzina, testate sul ghiaccio poco tempo prima della partenza. Il gruppo di esplorazione britannico salpò da Cardiff il 15 luglio 1910 salutato dai fiumi di inchiostro delle prime pagine dei giornali. La nave di Sua Maestà gettò l’ancora dopo un viaggio tormentato tra tempeste e incagliamento nei ghiacci con un ritardo di due settimane sulla tabella di marcia, fatto potenzialmente molto pericoloso per l’intera spedizione. Scott toccò il suolo antartico il 4 gennaio 1911 e con lui scesero i membri del team assieme a una scuderia di pony malesi che affiancarono i cani e le slitte a motore. Mentre tutto il mondo seguiva la spedizione di Scott, negli stessi mesi (senza eco da parte della stampa), un esploratore norvegese veterano della navigazione artica e del passaggio a Nord Ovest preparò una spedizione al Polo Sud dal carattere profondamente differente da quella britannica, che avrebbe seguito un percorso alternativo a quello stabilito dalle precedenti esplorazioni. Roald Amundsen avrebbe sin dalla tenera età essere il primo uomo a mettere piede al Polo Nord, ma le conquiste americane del 1909 infransero il sogno di una vita. In pochi mesi di preparazione decise di partecipare alla gara agli antipodi con la spedizione norvegese Fram, anche questa dal nome della nave a bordo della quale Amundsen e i suoi uomini salparono per fare tappa a Madeira, dove il comandante della spedizione rivelò agli uomini dell’equipaggio la vera destinazione fino ad allora tenuta nascosta. Nonostante il peso della sfida, nessuno si tirò indietro e Amundsen decise di avvisare il rivale Scott del suo tentativo. Il norvegese scelse la Baia delle Balene come campo base, una zona scartata da Shackleton durante il tentativo di due anni prima. Questa scelta, ben ponderata, diede circa 100 chilometri di vantaggio all’equipaggio norvegese. Lo spirito della spedizione Fram fu molto diverso da quello di Scott. Nato in sordina, il viaggio di Amundsen si basava su un principio che si rivelerà vincente: la natura ostile dell’Antartide poteva essere vinta soltanto con forze della natura stessa, umana e animale. Alla base dello sperato successo il capitano norvegese mise la perfetta preparazione atletica e tecnica dei suoi uomini così come quella dei cani da slitta, principale forza trattiva per uomini e rifornimenti, che Amundsen affidò all’esperienza di Sverre Hassel ed Helmer Hanssen, tra i migliori conduttori di cani della Scandinavia. Tutti gli uomini della spedizione antartica norvegese erano fisicamente preparatissimi, basti pensare al campione di sci nordico Olav Bjalaand che Amundsen volle fortemente con sé. I concorrenti inglesi erano agli antipodi dello spirito dei norvegesi: avevano le motoslitte, un gran numero di uomini, vettovagliamenti ricercati ed i pony. Ma nessuno di loro era così preparato fisicamente come i norvegesi. La storia darà ragione a questi ultimi. Amundsen lasciò la baia il 10 febbraio 1911 con provviste semplici ed abbondanti per uomini e cani, consistenti in oltre 30 tonnellate e mezzo di carne di foca da distribuire lungo il percorso segnato per il viaggio di ritorno. Durante la sosta al campo base, perfettamente attrezzato anche per gli esperimenti scientifici, le temperature scesero fino a punte di 60°C sotto zero. Un primo tentativo di movimento fu abortito per il deteriorarsi delle condizioni meteorologiche ed Amundsen decise di rientrare al campo base per preservare soprattutto i cani. In questa occasione vi fu l’abbandono di un membro della spedizione, Hyalmer Johansen, che criticò aspramente i piani del capitano il quale, giunto a quel punto della spedizione, non poteva tollerare dissensi. Johansen, pentito della scelta una volta rientrato in patria, si suiciderà nel 1913. La seconda partenza, con 50 cani e le slitte, fu quella definitiva. In condizioni ottimali la carovana di cinque uomini, i cani e le provviste, riuscì a muoversi addirittura in anticipo sulla già durissima tabella di marcia. Il 17 novembre il gruppo di Amundsen si trovò ai piedi della catena montuosa che li separava dalla vasta pianura del Polo Sud. Le alture da affrontare, tra mille insidie, bufere e crepacci, raggiungevano altitudini superiori ai 4.000 metri. Il gruppo di esploratori norvegesi raggiunse una quarta di 3,250 metri di quota non senza incidenti, come lo scivolamento in un crepaccio di uno dei membri della spedizione, fortunosamente salvato dai compagni. Per valicare la catena montuosa antartica ci vollero giorni, ma la tempra di Amundsen ed i suoi ebbe la meglio sul mare di ghiaccio. Il 14 dicembre 1911 la storia della conquista dell’ Antartide fu scritta. Rimasti con soli 18 cani, comunque sufficienti per trainare slitte e rifornimenti, la bandiera norvegese fu piantata in onore del re Haakon VII. Il viaggio di ritorno raddoppiò quella che era stata di per sé un’impresa titanica, portata a termine dai norvegesi in maniera impeccabile, grazie anche ai numerosi depositi lasciati durante il cammino e ai paletti di segnalazione piantati durante il viaggio di andata. Nessuno seppe che il Polo Sud era stato conquistato. Soltanto il 7 marzo 1912 Amundsen telegrafò la notizia dalla Tanzania, facendo esplodere di gioia la Norvegia e il resto del mondo. Mentre l’esploratore norvegese con i suoi quattro compagni compiva l’ultima grande esplorazione geografica, la spedizione di Robert Falcon Scott mutò in tragedia. Come già accennato, la tecnologia portata sul pack dalla spedizione britannica risolse in un fallimento, con le motoslitte fuori uso per il numero di ottani della benzina troppo basso per le temperature polari ed i pony malesi falcidiati dal gelo e dalle fatiche della soma. Per di più nessuno dei membri della spedizione era fisicamente preparato ad affrontare un clima estremo quanto lo erano i norvegesi. Il gruppo capitanato da Scott raggiunse il Polo Sud soltanto 33 giorni dopo che Amundsen ebbe piantata la bandiera norvegese, la quale sventolando si parò dinnanzi agli occhi degli inglesi come il peggiore degli incubi. La sfida era persa, ed il morale piombò rapidamente a terra. Quasi 900 chilometri di inferno bianco attendevano quegli uomini ormai stremati e demotivati. Un incubo che non avrà termine, preludio alla tragedia finale, complice un peggioramento delle condizioni atmosferiche già proibitive. Il 19 gennaio 1912 lo straziante viaggio di rientro ebbe inizio. Il primo a morire fu Edgar Evans, colto da sfinimento fisico e ferito alla testa in seguito alla caduta in un crepaccio. La morte lo colse ai piedi del ghiacciaio Beardmore, quando mancavano ancora quasi 700 chilometri di marcia. Ad aggravare la già compromessa situazione, una serie di errori da parte degli uomini di supporto si tradussero nel mancato rendez-vous con la squadra di soccorso inglese. Il secondo ad essere inghiottito dal sudario di ghiaccio fu Lawrence Oates, il più critico nei confronti dei metodi di Scott. Giunti all’ultimo campo investito dalla tormenta Oates (che aveva subito l’amputazione parziale di un piede per congelamento) sparì volontariamente nella tempesta ed il suo corpo non fu mai ritrovato. La stessa tragica sorte toccò a tutti gli altri membri della spedizione britannica. Il 29 marzo 1912 Robert Falcon Scott scrisse le ultime parole - di addio - sul suo diario. I corpi degli ultimi tre membri della spedizione saranno ritrovati il 12 novembre successivo da una squadra di ricerca. Si trovavano a sole 11 miglia dal campo base e da quella salvezza che il Polo Sud, già violato da Amundsen, non volle concedere ancora una volta.