2021-09-01
Gli Usa mollano pure la retorica dei diritti
Antony Blinken (Getty Images)
Il Segretario di Stato Blinken annuncia la possibile collaborazione col regime islamista solo sulla base dei «nostri interessi nazionali vitali». Sconfessata in un colpo solo tutta la linea politica estera del presidente dem sulla difesa delle minoranze e dei valori democratici.Vi ricordate quando Joe Biden accusava Donald Trump di intendersela con i dittatori? Lo scorso ottobre, dopo che l'allora presidente americano aveva rivendicato la sua amicizia con il leader nordcoreano Kim Jong-un, Biden dichiarò: «È come dire che avevamo un buon rapporto con Hitler prima che, di fatto, invadesse il resto dell'Europa. Ma andiamo!». Tutto questo, mentre il mese prima Biden aveva definito Trump come «la marionetta di Putin». Del resto, Biden non lesinò critiche a tutti quei leader autoritari con cui riteneva che Trump fosse sceso indebitamente a patti: definì Erdogan un «autocrate» e Xi Jinping un «delinquente». Addirittura nell'ottobre del 2018 – prima cioè che la campagna elettorale iniziasse – sempre Biden sostenne che Trump «sembrava avere una storia d'amore con gli autocrati», accusandolo inoltre di «coccolare» i dittatori. Non è del resto un mistero che Biden abbia sempre sostenuto di voler condurre una politica estera fondata sul rispetto dei diritti umani e nel nome di un'alleanza tra le democrazie liberali contro i regimi autoritari (tutti auspici ancora presenti sul sito web della sua campagna elettorale).Peccato che, con la crisi afghana, l'attuale presidente abbia sostanzialmente sconfessato tutto questo. Per rendersene conto, basta dare un'occhiata al discorso che, l'altro ieri, ha tenuto il segretario di Stato americano, Antony Blinken, a conclusione del ritiro delle truppe statunitensi dall'Afghanistan. «Nelle ultime settimane», ha dichiarato, «ci siamo impegnati con i talebani per consentire le nostre operazioni di evacuazione. Andando avanti, qualsiasi impegno con un governo guidato dai talebani a Kabul sarà determinato da una sola cosa: i nostri interessi nazionali vitali». Lo stesso Biden, secondo anticipazioni diffuse dalla Casa Bianca, ha rivendicato il principio dell'interesse nazionale del suo discorso di ieri alla nazione. Insomma, se converrà agli interessi di Washington, l'attuale amministrazione americana si dice pronta a dialogare ufficialmente con i «barbuti». Il che, in un'ottica realista (alla Trump, per intenderci) avrebbe anche un senso (su queste basi del resto poggiava l'accordo di Doha). Il problema, però, oggi è Biden. Perché questo tipo di approccio smentisce evidentemente tutta la sua pregressa retorica sulla tutela dei diritti umani e dei valori democratici. Ed ecco quindi il paradosso. Da candidato, Biden criticava Trump per i suoi rapporti con Putin, Kim Jong-un ed Erdogan: leader certamente controversi, ma comunque a capo di Stati sovrani. Eppure oggi, quello stesso Biden apre concretamente al dialogo con un gruppo islamista che ha appena preso – armi in pugno – il potere in uno Stato fondamentalmente fallito. Tutto questo, fermo restando che il rapporto di Trump con i leader autoritari non è mai stato fondato sull'appeasement o sulle cambiali in bianco: sempre in pochi si ricordano, per esempio, che fu proprio l'allora presidente repubblicano a comminare, nel 2019, delle pesanti sanzioni contro il gasdotto Nord Stream 2 (infliggendo così un deciso schiaffo alla Russia). Così come sempre in pochi comprendono che l'America First non fosse affatto una dottrina isolazionista: davvero un presidente isolazionista si sarebbe preso la briga di mediare gli accordi di Abramo in Medio Oriente o di tenere una postura assertiva nell'indo-pacifico? E siamo realmente sicuri che lo stesso accordo di Doha si inserisse in una prospettiva isolazionista? Ora, è chiaro che il voltafaccia di Biden costituisca per lui un problema politico. Sul piano interno, dovrà adeguatamente spiegare le ragioni della propria inversione a quegli elettori che lo avevano votato per la sua politica estera valoriale. Sul piano internazionale, tale capriola minaccia seriamente di indebolire la Casa Bianca nel suo confronto con la Cina. Se Trump aveva infatti improntato tale confronto principalmente su fattori di realpolitik (a partire dal tema della reciprocità commerciale), Biden aveva finora prevalentemente puntato proprio sul dossier dei diritti umani (da Hong Kong allo Xinjiang). È quindi evidente che le recenti parole di Blinken peseranno come macigni sul futuro della strategia internazionale di Biden nell'indo-pacifico: perché quelle parole ne mettono per forza di cose a repentaglio la credibilità. L'altro aspetto problematico non riguarda invece direttamente l'attuale presidente, ma la copertura mediatica che riceve. Per mesi, frotte di giornalisti e analisti hanno celebrato Biden come colui che avrebbe finalmente ripristinato la credibilità americana a suon di diritti umani e difesa delle democrazie. Quelle stesse frotte che, per intenderci, prima lo avevano elogiato per aver definito Putin un «assassino» e che poi non hanno quasi battuto ciglio quando ha deciso di incontrare lo stesso Putin a Ginevra tra convenevoli e salamelecchi. Certo è che, davanti al voltafaccia afghano, anche i più accaniti sostenitori alla fine hanno dovuto prendere atto che il roboante Biden della campagna elettorale è ormai bello che archiviato. Doveva tutelare i diritti umani e invece si dice pronto al dialogo con i talebani in base all'interesse nazionale. Doveva rilanciare le relazioni transatlantiche e invece ha sbattuto la porta in faccia agli europei sulla proroga del ritiro. Doveva far tornare l'America ad essere rispettata nel mondo e invece ha attuato un piano di evacuazione ai limiti dell'assurdo, trasmettendo a livello internazionale un'immagine disastrosa (per inciso, ci sono ancora alcune centinaia di cittadini americani in Afghanistan che non è ben chiaro come faranno ritorno a casa). Qualcuno ha sbagliato le sue previsioni, insomma. E farebbe forse bene ad ammetterlo.