
Tutti ne parlano, ma non tutti ne conoscono le regole. Farina (quella 0), spessore, bordo, ingredienti e cottura: istruzioni per renderla più buona e anche più sana.Nella classifica dei 50 piatti più buoni al mondo, stilata lo scorso anno dalla Cnn, non stupisce che l'Italia fosse al secondo posto con la pizza napoletana. La quale, sempre nel 2017, è stata inserita dall'Unesco nei beni immateriali patrimonio dell'umanità, a conclusione dell'iter principiato da Luca Zaia quando era ministro delle Politiche agricole nel governo Berlusconi tra il 2008 e il 2011 (se lo ricordino gli antagonisti aggressivi di Napoli e dintorni, Roberto Saviano in primis, quando attaccano i leghisti «nemici del Sud»: fu proprio la Lega a tutelare la loro pizza...). Non che la pizza sia l'unica preparazione italiana degna di ovazione anche internazionale. Ma la sua capacità di attrarre trasversale entusiasmo ha qualcosa di magico. Come se quel tondo di pasta di farina, acqua e lievito, condito con tanti colori e sapori sia un piccolo disco volante che conduce papille gustative e stomaci in un meraviglioso viaggio verso la gioia. La pizza piace a tutti, italiani e stranieri, bambini e ottuagenari, uomini e donne e «nuovi sessi», vip e persone comuni, ricchi e poveri.Pasto completo (la Margherita e tante altre tradizionali fungono da primo, secondo e contorno insieme), la pizza è nutrizionalmente, ma anche concettualmente, una via di mezzo tra un'italianissima ciotola di pasta al pomodoro fumante e un panino farcito, quel «pane e companatico» che è un'altra consuetudine alimentare tricolore assai gettonata e amata. Nella sua solo apparente semplicità, la pizza primeggia nel settore dello street food, con le sue tante versioni regionali, come la pizza al taglio romana e quella fritta napoletana (che è una napoletana tonda piegata in due a pacchetto e fritta; un calzone un po' più grande e più piatto, venduto per le strade). E svetta anche nella ristorazione canonica: sia quella di lusso o di ricerca, dove si è recentemente fatta strada con le sue declinazioni gourmet, sia nelle pizzerie e nei ristoranti tradizionali, dove da sempre detiene lo scettro di «piatto popolare» dai numerosi arrangiamenti locali (c'è la pizza tonda e bassa romana; quella tonda alta e nel tegamino torinese; quella verace «con cornicione» napoletana; quella in due strati e farcita, il pizzolo siciliano).Il recente dibattito sulla salubrità di ciò che mangiamo ha naturalmente coinvolto anche la pizza. Quale farina è più adatta? La lievitazione deve essere lenta anzi lentissima o questo aspetto va giudicato solo in base al gusto? Fa ingrassare? Proviamo a rispondere. La moltiplicazione delle farine disponibili sui banchi dei supermercati e nelle cucine di alcuni pizzaioli rende il mangiatore di pizza sempre più confuso. Ci propongono impasti di farina di grano tenero 00, 0, 1, 2, integrale, di farina di grano duro, di grani cosiddetti antichi come il farro, di farine di legumi. Filo rosso di questa rivoluzione farinacea è il mantra secondo cui la farina industriale di grano tenero di tipo 00 sarebbe «veleno» e sarebbe responsabile dell'aumento dei celiaci e dei sensibili al glutine. La verità è che dove c'è un panificato tradizionale, c'è glutine.Le farine di grani antichi producono anch'esse glutine, che però può (ripetiamo: può) risultare più tollerato dai sensibili al glutine, ma non dai celiaci. Questi ultimi devono evitare i farinacei glutinosi e rivolgersi a farine di legumi o di altri cereali come il riso. Ma la vera pizza è glutinosa. Il disciplinare della pizza verace napoletana impone di usare proprio farina di grano tenero 00, cioè la più raffinata: «È consentita l'aggiunta di farina di grano tenero tipo 0 (Manitoba) in piccole percentuali (dal 5 al 20% massimo, in funzione delle temperature esterne)». Si conferma così la tradizione che vuole la farina di grano tenero per la panificazione e i dolci, la farina di grano duro per la pasta e alcune rare panificazioni particolari.La pizza tonda napoletana non deve essere alta come un pane. Il disciplinare indica lo spessore ideale in 0,4 centimetri e il cornicione, cioè il tipico bordo rigonfio, in uno al massimo due centimetri. Per ottenere questo risultato, la farina bianca è perfetta. Via via che aumenta il numero della farina utilizzata (più è alto, più è basso il suo grado di raffinazione), l'impasto si fa più contratto e perché cresca bisogna farlo lievitare più tempo e idratarlo di più.Le voci sperimentali che si oppongono all'utilizzo della farina di grano tenero 00 sono molte. Gabriele Bonci, il guru della pizza al taglio romana, alta e piena di alveoli, che da sempre viene venduta nella Capitale dalle pizzerie al taglio e dai fornai, nei suoi impasti utilizza soltanto farina di farro, in mescole di integrale e 2.Ma per gli impasti amatoriali fatti in casa (come spiega nel libro Il gioco della pizza, imperdibile per i pizzomani) consiglia di utilizzare farina di grano tenero 0, proprio perché il pizzaiolo inesperto rischia di ritrovarsi con un impasto che somiglia più a un mattone che a un bel pezzo di pizza al taglio romana. Una pizza che, anche nella versione di Bonci, esubera parecchio dallo spessore di 0,4 centimetri.Anche Davide Oldani, che nasce panificatore come Bonci, aborrisce la farina raffinata. Ma anche qui parliamo di pizza al trancio, non di pizza tonda. Per le pizze di «nuova generazione» di Angelo Iezzi e dei già citati Bonci, Oldani e seguaci, è perciò fondamentale una lenta lievitazione: se la pizza napoletana lievita circa sei ore e poi si inforna, queste (anche in virtù del fatto che sono lavorate con minore lievito di birra o addirittura con la pasta madre) sopperiscono alla minore quantità di agente lievitante con un tempo di lievitazione prolungato e solitamente svolto in frigorifero, affinché sia lento ma continuo. Questo tipo di pizza, anche se mangiata in quantità da golosoni, non appesantisce la digestione. Certo, non bisogna esagerare: la pizza è un pasto completo e il consumo massimo consigliato è quello massimo di due volte a settimana.Tuttavia, se si è a dieta, si possono usare trucchetti come mangiare tranci più piccoli oppure, evitare di mangiare il bordo. Altro compromesso tra gola e linea può essere quello di optare per gusti meno calorici: scegliere una marinara, con pomodoro, origano, aglio e olio, per esempio, vuol dire risparmiare tutte le calorie della mozzarella su una margherita. Una pizza margherita solitamente pesa sui 300 grammi. Poiché contiene, in media, 270 calorie ogni cento grammi, mangiandola si incamerano quasi 900 calorie. Stabilendo che il fabbisogno energetico medio di una donna adulta, di media altezza, che non sia a dieta e faccia movimento, è di 1600 calorie, una margherita ne copre praticamente la metà. Conviene tenerlo sempre a mente.Se è giusto e doveroso considerare gli effetti della pizza sulla silohuette, vale la pena ricordare anche gli effetti benefici che può produrre. Di recente, la pizza Pascalina è stata ufficialmente certificata dai ricercatori dell'Istituto per la lotta ai tumori Pascale di Napoli come cibo che permette di «vivere bene e più a lungo». Secondo gli studiosi dell'istituto, la pizza che riduce il rischio di malattie cardiovascolari e l'insorgenza di alcuni tumori gastrointestinali (tra cui quelli al colon) è fatta così: farina di frumento, friarielli campani a crudo, pomodorini di Corbara o San Marzano, olive di Caiazzo, olio extra vergine d'oliva del Cilento, aglio e peperoncino.
Nadia e Aimo Moroni
Prima puntata sulla vita di un gigante della cucina italiana, morto un mese fa a 91 anni. È da mamma Nunzia che apprende l’arte di riconoscere a occhio una gallina di qualità. Poi il lavoro a Milano, all’inizio come ambulante e successivamente come lavapiatti.
È mancato serenamente a 91 anni il mese scorso. Aimo Moroni si era ritirato oramai da un po’ di tempo dalla prima linea dei fornelli del locale da lui fondato nel 1962 con la sua Nadia, ovvero «Il luogo di Aimo e Nadia», ora affidato nelle salde mani della figlia Stefania e dei due bravi eredi Fabio Pisani e Alessandro Negrini, ma l’eredità che ha lasciato e la storia, per certi versi unica, del suo impegno e della passione dedicata a valorizzare la cucina italiana, i suoi prodotti e quel mondo di artigiani che, silenziosi, hanno sempre operato dietro le quinte, merita adeguato onore.
Franz Botrè (nel riquadro) e Francesco Florio
Il direttore di «Arbiter» Franz Botrè: «Il trofeo “Su misura” celebra la maestria artigiana e la bellezza del “fatto bene”. Il tema di quest’anno, Winter elegance, grazie alla partnership di Loro Piana porterà lo stile alle Olimpiadi».
C’è un’Italia che continua a credere nella bellezza del tempo speso bene, nel valore dei gesti sapienti e nella perfezione di un punto cucito a mano. È l’Italia della sartoria, un’eccellenza che Arbiter celebra da sempre come forma d’arte, cultura e stile di vita. In questo spirito nasce il «Su misura - Trofeo Arbiter», il premio ideato da Franz Botrè, direttore della storica rivista, giunto alla quinta edizione, vinta quest’anno da Francesco Florio della Sartoria Florio di Parigi mentre Hanna Bond, dell’atelier Norton & Sons di Londra, si è aggiudicata lo Spillo d’Oro, assegnato dagli studenti del Master in fashion & luxury management dell’università Bocconi. Un appuntamento, quello del trofeo, che riunisce i migliori maestri sarti italiani e internazionali, protagonisti di una competizione che è prima di tutto un omaggio al mestiere, alla passione e alla capacità di trasformare il tessuto in emozione. Il tema scelto per questa edizione, «Winter elegance», richiama l’eleganza invernale e rende tributo ai prossimi Giochi olimpici di Milano-Cortina 2026, unendo sport, stile e territorio in un’unica narrazione di eccellenza. A firmare la partnership, un nome che è sinonimo di qualità assoluta: Loro Piana, simbolo di lusso discreto e artigianalità senza tempo. Con Franz Botrè abbiamo parlato delle origini del premio, del significato profondo della sartoria su misura e di come, in un mondo dominato dalla velocità, l’abito del sarto resti l’emblema di un’eleganza autentica e duratura.
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A rischiare di cadere nella trappola dei «nuovi» vizi anche i bambini di dieci anni.
Dopo quattro anni dalla precedente edizione, che si era tenuta in forma ridotta a causa della pandemia Covid, si è svolta a Roma la VII Conferenza nazionale sulle dipendenze, che ha visto la numerosa partecipazione dei soggetti, pubblici e privati del terzo settore, che operano nel campo non solo delle tossicodipendenze da stupefacenti, ma anche nel campo di quelle che potremmo definire le «nuove dipendenze»: da condotte e comportamenti, legate all’abuso di internet, con giochi online (gaming), gioco d’azzardo patologico (gambling), che richiedono un’attenzione speciale per i comportamenti a rischio dei giovani e giovanissimi (10/13 anni!). In ordine alla tossicodipendenza, il messaggio unanime degli operatori sul campo è stato molto chiaro e forte: non esistono droghe leggere!
Messi in campo dell’esecutivo 165 milioni nella lotta agli stupefacenti. Meloni: «È una sfida prioritaria e un lavoro di squadra». Tra le misure varate, pure la possibilità di destinare l’8 per mille alle attività di prevenzione e recupero dei tossicodipendenti.
Il governo raddoppia sforzi e risorse nella lotta contro le dipendenze. «Dal 2024 al 2025 l’investimento economico è raddoppiato, toccando quota 165 milioni di euro» ha spiegato il premier Giorgia Meloni in occasione dell’apertura dei lavori del VII Conferenza nazionale sulle dipendenze organizzata dal Dipartimento delle politiche contro la droga e le altre dipendenze. Alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, a cui Meloni ha rivolto i suoi sentiti ringraziamenti, il premier ha spiegato che quella contro le dipendenze è una sfida che lo Stato italiano considera prioritaria». Lo dimostra il fatto che «in questi tre anni non ci siamo limitati a stanziare più risorse, ci siamo preoccupati di costruire un nuovo metodo di lavoro fondato sul confronto e sulla condivisione delle responsabilità. Lo abbiamo fatto perché siamo consapevoli che il lavoro riesce solo se è di squadra».





