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2025-12-10
Espulsioni, controlli e Paesi sicuri: così cambiano le norme sui migranti
Cpr in Albania (Getty)
Grazie alle nuove procedure gli Stati membri potranno distinguere subito i casi più meritevoli di protezione internazionale da quelli manifestamente infondati. Vengono considerati sicuri anche Paesi che pur garantendo nel complesso la sicurezza ai propri cittadini presentano alcune circoscritte situazioni di criticità: Egitto e Bangladesh tra gli altri, ovvero i Paesi di provenienza dei migranti i cui trasferimenti in Albania sono stati bocciati da alcune decisioni della magistratura (in seguito a queste decisioni, le strutture ora sono state trasformate in Centri per i rimpatri, come quelli che sorgono in Italia).
In secondo luogo, il nuovo concetto di Paese sicuro permetterà di esaminare una domanda di protezione non necessariamente nello Stato membro di primo ingresso, ma in un Paese terzo dove il richiedente possa ottenere protezione effettiva in condizioni sicure, nel pieno rispetto dei diritti fondamentali: anche questo caso riguarda le strutture di Gjader e Shengjin. Il concetto di Paese terzo sicuro verrà applicato se esiste un accordo o un’intesa con un Paese extra-Ue che garantisca l’esame nel merito delle domande di asilo presentate da parte dei richiedenti interessati dall’accordo o intesa (questa possibilità non riguarda i minori non accompagnati). È prevista inoltre la possibilità di effettuare rimpatri anche verso Paesi terzi diversi da quelli di origine, e di utilizzare i return hub non solo come punti di arrivo ma anche come punti di transito. È stato inoltre evitato che fosse introdotto l’effetto sospensivo automatico delle decisioni di rimpatrio in caso di ricorso. La prossima settimana a Strasburgo inizieranno i triloghi, ovvero le interlocuzioni tra Parlamento europeo, Commissione e Consiglio. I centri in Albania torneranno a operare come strutture per l’espletamento delle procedure accelerate di frontiera solo quando i triloghi saranno portati a termine: sulla tempistica il Viminale non si sbilancia. «Quello che bisogna considerare», sottolinea alla Verità la deputata di Fratelli d’Italia Sara Kelany, responsabile immigrazione del partito, «è che il Consiglio europeo ha dato la misura di quanto le politiche migratorie del governo Meloni fossero lungimiranti e sul giusto binario. Abbiamo immaginato dei sistemi di gestione della immigrazione irregolare anche attraverso la esternalizzazione nei confronti di Paesi terzi che erano già inserite in un quadro normativo europeo. Ora la approvazione da parte del Consiglio europeo del regolamento sui Paesi sicuri consacra la coerenza delle nostre politiche. L’Europa», aggiunge la Kelany, «stila una lista di Paesi sicuri che comprende anche Bangladesh e Egitto, ovvero quei Paesi che la magistratura italiana, con delle sentenze fortemente ideologiche, aveva ritenuto non poter essere considerabili come sicuri. Due Paesi per noi tra i più sensibili in relazione al progetto Italia-Albania, bloccato da una interpretazione appunto ideologica della magistratura italiana. L’approvazione di questo regolamento comporta che oltre a funzionare come Cpr ordinari, i centri in Albania potranno tornare alle originarie funzioni previste, ovvero l’espletamento delle procedure accelerate di frontiera. Un migrante che proviene da un Paese sicuro può essere rimpatriato nel periodo brevissimo di 28 giorni. Tra l’altro», aggiunge ancora Sara Kelany, «attraverso questo regolamento si consacra un altro principio, ovvero la possibilità di effettuare rimpatri anche con accordi per l’espletamento delle pratiche con Paesi terzi non europei. Questo regolamento è una vittoria dell’Italia, perché disegna esattamente le politiche migratorie del governo Meloni». A chi gli chiede se i nuovi regolamenti consentiranno il ritorno alla funzione originaria dei centri in Albania, il ministro della Giustizia Carlo Nordio risponde così: «Certo. Naturalmente, la situazione in questo momento è ancora soggetta alla decisione finale del cosiddetto trilogo, ma è un eccellente viatico verso una soluzione definitiva, che porterà chiarezza sia dal punto di vista giurisprudenziale, sia dal punto di vista operativo. Siamo enormemente soddisfatti e siamo certi che entro pochissimo tempo questa, diciamo, confusione che c’era stata fino ad oggi nella giurisprudenza e nella gestione dei flussi migratori sarà definitivamente accertata proprio in ambito normativo, e quindi», conclude Nordio, «non ci sarà più spazio per esitazioni dal punto di vista giurisprudenziale». Per quel che riguarda gli hub nei Paesi terzi, non è escluso che più Paesi europei possano collaborare per realizzarne di nuovi, anche se la prospettiva, a quanto apprende la Verità da fonti bene informate, è che a questo punto possa essere la stessa Unione europea a farsi carico di realizzare altre strutture definendone nel dettaglio le normative per il loro funzionamento.
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Aumenta il numero delle nazioni in cui si potranno mandare gli stranieri irregolari che arrivano in Italia. Il modello Albania adesso può diventare realtà. Sara Kelany (Fdi): «Si tratta di una vittoria del governo Meloni».I nuovi regolamenti sull’immigrazione approvati l’altro ieri a Bruxelles dal Consiglio europeo Giustizia e Affari Interni avranno effetti positivi anche sui centri di Gjader e Shengjin in Albania che tanto hanno fatto discutere in questi ultimi mesi. Il primo regolamento riguarda la lista europea dei Paesi considerati sicuri, un elenco valido per tutti e che comporta che le domande di asilo verranno trattate in modo uniforme in tutti i Paesi europei. La lista comprende Bangladesh, Colombia, Egitto, India, Kosovo, Marocco e Tunisia oltre ai Paesi candidati all’adesione all’Ue, ovvero Albania, Bosnia ed Erzegovina, Georgia, Macedonia del Nord, Moldavia, Montenegro, Serbia e Turchia.Grazie alle nuove procedure gli Stati membri potranno distinguere subito i casi più meritevoli di protezione internazionale da quelli manifestamente infondati. Vengono considerati sicuri anche Paesi che pur garantendo nel complesso la sicurezza ai propri cittadini presentano alcune circoscritte situazioni di criticità: Egitto e Bangladesh tra gli altri, ovvero i Paesi di provenienza dei migranti i cui trasferimenti in Albania sono stati bocciati da alcune decisioni della magistratura (in seguito a queste decisioni, le strutture ora sono state trasformate in Centri per i rimpatri, come quelli che sorgono in Italia).In secondo luogo, il nuovo concetto di Paese sicuro permetterà di esaminare una domanda di protezione non necessariamente nello Stato membro di primo ingresso, ma in un Paese terzo dove il richiedente possa ottenere protezione effettiva in condizioni sicure, nel pieno rispetto dei diritti fondamentali: anche questo caso riguarda le strutture di Gjader e Shengjin. Il concetto di Paese terzo sicuro verrà applicato se esiste un accordo o un’intesa con un Paese extra-Ue che garantisca l’esame nel merito delle domande di asilo presentate da parte dei richiedenti interessati dall’accordo o intesa (questa possibilità non riguarda i minori non accompagnati). È prevista inoltre la possibilità di effettuare rimpatri anche verso Paesi terzi diversi da quelli di origine, e di utilizzare i return hub non solo come punti di arrivo ma anche come punti di transito. È stato inoltre evitato che fosse introdotto l’effetto sospensivo automatico delle decisioni di rimpatrio in caso di ricorso. La prossima settimana a Strasburgo inizieranno i triloghi, ovvero le interlocuzioni tra Parlamento europeo, Commissione e Consiglio. I centri in Albania torneranno a operare come strutture per l’espletamento delle procedure accelerate di frontiera solo quando i triloghi saranno portati a termine: sulla tempistica il Viminale non si sbilancia. «Quello che bisogna considerare», sottolinea alla Verità la deputata di Fratelli d’Italia Sara Kelany, responsabile immigrazione del partito, «è che il Consiglio europeo ha dato la misura di quanto le politiche migratorie del governo Meloni fossero lungimiranti e sul giusto binario. Abbiamo immaginato dei sistemi di gestione della immigrazione irregolare anche attraverso la esternalizzazione nei confronti di Paesi terzi che erano già inserite in un quadro normativo europeo. Ora la approvazione da parte del Consiglio europeo del regolamento sui Paesi sicuri consacra la coerenza delle nostre politiche. L’Europa», aggiunge la Kelany, «stila una lista di Paesi sicuri che comprende anche Bangladesh e Egitto, ovvero quei Paesi che la magistratura italiana, con delle sentenze fortemente ideologiche, aveva ritenuto non poter essere considerabili come sicuri. Due Paesi per noi tra i più sensibili in relazione al progetto Italia-Albania, bloccato da una interpretazione appunto ideologica della magistratura italiana. L’approvazione di questo regolamento comporta che oltre a funzionare come Cpr ordinari, i centri in Albania potranno tornare alle originarie funzioni previste, ovvero l’espletamento delle procedure accelerate di frontiera. Un migrante che proviene da un Paese sicuro può essere rimpatriato nel periodo brevissimo di 28 giorni. Tra l’altro», aggiunge ancora Sara Kelany, «attraverso questo regolamento si consacra un altro principio, ovvero la possibilità di effettuare rimpatri anche con accordi per l’espletamento delle pratiche con Paesi terzi non europei. Questo regolamento è una vittoria dell’Italia, perché disegna esattamente le politiche migratorie del governo Meloni». A chi gli chiede se i nuovi regolamenti consentiranno il ritorno alla funzione originaria dei centri in Albania, il ministro della Giustizia Carlo Nordio risponde così: «Certo. Naturalmente, la situazione in questo momento è ancora soggetta alla decisione finale del cosiddetto trilogo, ma è un eccellente viatico verso una soluzione definitiva, che porterà chiarezza sia dal punto di vista giurisprudenziale, sia dal punto di vista operativo. Siamo enormemente soddisfatti e siamo certi che entro pochissimo tempo questa, diciamo, confusione che c’era stata fino ad oggi nella giurisprudenza e nella gestione dei flussi migratori sarà definitivamente accertata proprio in ambito normativo, e quindi», conclude Nordio, «non ci sarà più spazio per esitazioni dal punto di vista giurisprudenziale». Per quel che riguarda gli hub nei Paesi terzi, non è escluso che più Paesi europei possano collaborare per realizzarne di nuovi, anche se la prospettiva, a quanto apprende la Verità da fonti bene informate, è che a questo punto possa essere la stessa Unione europea a farsi carico di realizzare altre strutture definendone nel dettaglio le normative per il loro funzionamento.
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Attualmente gli Stati Uniti mantengono 84.000 militari in Europa, dislocati in circa cinquanta basi. I principali snodi si trovano in Germania, Italia e Regno Unito, mentre la Francia non ospita alcuna base americana permanente. Il quartier generale del comando statunitense in Europa è situato a Stoccarda, da dove viene coordinata una forza che, secondo un rapporto del Congresso, risulta «strettamente integrata nelle attività e negli obiettivi della Nato».
Sul piano strategico-nucleare, sei basi Nato, distribuite in cinque Paesi membri – Belgio, Germania, Italia, Paesi Bassi e Turchia – custodiscono circa 100 ordigni nucleari statunitensi. Si tratta delle bombe tattiche B61, concepite esclusivamente per l’impiego da parte di bombardieri o caccia americani o alleati certificati. Dalla sua istituzione nel 1949, con il Trattato di Washington, la Nato è stata il perno della sicurezza americana in Europa, come ricorda il Center for Strategic and International Studies. L’articolo 5 garantisce che un attacco contro uno solo dei membri venga considerato un’aggressione contro tutti, estendendo di fatto l’ombrello militare statunitense all’intero continente.
Questo impianto, rimasto sostanzialmente invariato dalla fine della Seconda guerra mondiale, oggi appare messo in discussione. Il discorso del vicepresidente J.D. Vance alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, i segnali di dialogo tra Donald Trump e Vladimir Putin sull’Ucraina e la diffusione di una dottrina strategica definita «aggressiva» da più capitali europee hanno alimentato il timore di un possibile ridimensionamento dell’impegno americano.
Sul fronte finanziario, Washington ha alzato ulteriormente l’asticella chiedendo agli alleati di destinare il 5% del Pil alla difesa. Un obiettivo giudicato irrealistico nel breve termine dalla maggior parte degli Stati membri. Nel 2014, solo tre Paesi – Stati Uniti, Regno Unito e Grecia – avevano raggiunto la soglia minima del 2%. Oggi 23 Paesi Nato superano quel livello, e 16 di essi lo hanno fatto soltanto dopo il 2022, sotto la spinta del conflitto ucraino. La guerra in Ucraina resta infatti il contesto determinante. La Russia controlla quasi il 20% del territorio ucraino. Già dopo l’annessione della Crimea nel 2014, la Nato aveva rafforzato il fianco orientale schierando quattro gruppi di battaglia nei Paesi baltici (Estonia, Lettonia, Lituania) e in Polonia. Dopo il 24 febbraio 2022, altri quattro battlegroup sono stati dispiegati in Bulgaria, Ungheria, Romania e Slovacchia.
Queste forze contano complessivamente circa 10.000 soldati, tra cui 770 militari francesi – 550 in Romania e 220 in Estonia – e si aggiungono al vasto sistema di basi navali, aeree e terrestri già presenti sul continente. Nonostante questi numeri, la capacità reale dell’Europa rimane limitata. Come osserva Camille Grand, ex vicesegretario generale della Nato, molti eserciti europei, protetti per decenni dall’ombrello americano e frenati da bilanci contenuti, si sono trasformati in «eserciti bonsai»: strutture ridotte, con capacità parziali ma prive di profondità operativa. I dati confermano il quadro: 12 Paesi europei non dispongono di carri armati, mentre 14 Stati non possiedono aerei da combattimento. In molti casi, i mezzi disponibili non sono sufficientemente moderni o pronti all’impiego.
La dipendenza diventa totale nelle capacità strategiche. Intelligence, sorveglianza e ricognizione, così come droni, satelliti, aerei da rifornimento e da trasporto, restano largamente insufficienti senza il supporto statunitense. L’operazione francese in Mali nel 2013 richiese l’intervento di aerei americani per il rifornimento in volo, mentre durante la guerra in Libia nel 2011 le scorte di bombe a guida laser si esaurirono rapidamente. Secondo le stime del Bruegel Institute, riprese da Le Figaro, per garantire una sicurezza credibile senza l’appoggio degli Stati Uniti l’Europa dovrebbe investire almeno 250 miliardi di euro all’anno. Una cifra che fotografa con precisione il divario accumulato e pone una domanda politica inevitabile: il Vecchio Continente è disposto a sostenere un simile sforzo, o continuerà ad affidare la propria difesa a un alleato sempre meno disposto a farsene carico?
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(Totaleu)
Lo ha detto il Ministro per gli Affari europei in un’intervista margine degli Ecr Study Days a Roma.
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Ed è quel che ha pensato il gran capo della Fifa, l’imbarazzante Infantino, dopo aver intestato a Trump un neonato riconoscimento Fifa. Solo che stavolta lo show diventa un caso diplomatico e rischia di diventare imbarazzante e difficile da gestire perché, come dicevamo, la partita celebrativa dell’orgoglio Lgbtq+ sarà Egitto contro Iran, due Paesi dove gay, lesbiche e trans finiscono in carcere o addirittura condannate a morte.
Ora, delle due l’una: o censuri chi non si adegua a certe regole oppure imporre le proprie regole diventa ingerenza negli affari altrui. E non si può. Com’è noto il match del 26 giugno a Seattle, una delle città in cui la cultura Lgbtq+ è più radicata, era stata scelto da tempo come pride match, visto che si giocherà di venerdì, alle porte del nel weekend dell’orgoglio gay. Diciamo che la sorte ha deciso di farsi beffa di Infantino e del politically correct. Infatti le due nazioni hanno immediatamente protestato: che c’entriamo noi con queste convenzioni occidentali? Del resto la protesta ha un senso: se nessuno boicotta gli Stati dove l’omosessualità è reato, perché poi dovrebbero partecipare ad un rito occidentale? Per loro la scelta è «inappropriata e politicamente connotata». Così Iran ed Egitto hanno presentato un’obiezione formale, tant’è che Mehdi Taj, presidente della Federcalcio iraniana, ha spiegato la posizione del governo iraniano e della sua federazione: «Sia noi che l’Egitto abbiamo protestato. È stata una decisione irragionevole che sembrava favorire un gruppo particolare. Affronteremo sicuramente la questione». Se le Federcalcio di Iran ed Egitto non hanno intenzione di cedere a una pressione internazionale che ingerisce negli affari interni, nemmeno la Fifa ha intenzione di fare marcia indietro. Secondo Eric Wahl, membro del Pride match advisory committee, «La partita Egitto-Iran a Seattle in giugno capita proprio come pride match, e credo che sia un bene, in realtà. Persone Lgbtq+ esistono ovunque. Qui a Seattle tutti sono liberi di essere se stessi». Certo, lì a Seattle sarà così ma il rischio che la Fifa non considera è quello di esporre gli atleti egiziani e soprattutto iraniani a ritorsioni interne. Andremo al Var? Meglio di no, perché altrimenti dovremmo rivedere certi errori macroscopici su altri diritti dei quali nessun pride si era occupato organizzando partite ad hoc. Per esempio sui diritti dei lavoratori; eppure non pochi operai nei cantieri degli stadi ci hanno lasciato le penne. Ma evidentemente la fretta di rispettare i tempi di consegna fa chiudere entrambi gli occhi. Oppure degli operai non importa nulla. E qui tutto il mondo è Paese.
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