Più che a Kiev, il vertice Nato è servito agli Usa per riarmare il Continente

Il vertice Nato di Washington è servito più alla Nato stessa che all’Ucraina. Ha ricompattato l’Alleanza, cristallizzando la guida americana, con una sostanziale differenza rispetto ai decenni in cui l’ombrello a stelle e strisce schermava l’Europa dai sovietici: stavolta, il Vecchio continente ha accettato gli oneri economici della difesa. In termini di contributo monetario al Patto atlantico, oltre che di impulso all’industria (va letto in questa chiave l’accordo sulla produzione di missili a lungo raggio tra Roma, Parigi, Berlino e Varsavia). Così, risorge il blocco occidentale, che dalla fine della Guerra fredda si era andato sfilacciando.
Su questo grande ritorno è arrivato uno storico suggello militare: il dispiegamento, a partire dal 2026 in Germania, e probabilmente anche in Italia, di ipersonici americani capaci di colpire la Russia. La Casa Bianca, nel frattempo, ha posizionato «ulteriore difesa aerea, sostegno e altri supporti bellici» nei due Paesi alleati. E il nostro esecutivo ha autorizzato l’installazione di missili a cortissimo raggio: supporteranno la brigata Usa a Vicenza, ma legalmente non insisteranno sul nostro territorio.
Cosa significa? Corazzare l’Europa, fin qui esposta alle minacce balistiche di Mosca e condizionata dalla penuria di contraeree. In fondo l’Italia, pur nella «fierezza» manifestata da Giorgia Meloni per il contributo alla protezione dei cieli ucraini, ha dovuto inventarsi un gioco delle tre carte - metti qui, sposta da là - per mandare i Samp/T al fronte, senza rimanere scoperta.
I solenni proclami in favore di Kiev sembrano esser stati funzionali, più che alla causa di Volodymyr Zelensky, al riarmo dei partner europei nella Nato e al suo definitivo rilancio, dopo la crisi di legittimazione politica. Al di là della retorica, infatti, i segnali alla resistenza restano ambigui.
Cominciamo dalla questione dell’adesione all’Alleanza: un processo «irreversibile», sì. Gli ucraini, però, speravano di fissare una tempistica. E non sono stati accontentati. Persino sugli F-16, la svolta è stata parziale. Intanto, i jet saranno di stanza in Ucraina: l’Occidente vuole scongiurare il rischio di raid russi in aeroporti di Stati Nato. Inoltre, in un’intervista sulla Stampa, il generale statunitense Philip Mark Breedlove ha sottolineato che i caccia non potranno essere determinanti se non a primavera 2025, in un contesto in cui - lo certifica il New York Times - le forze di Kiev non sarebbero in grado di organizzare una controffensiva prima della fine di quest’anno.
La più grossa delusione, comunque, Zelensky l’ha ricevuta in materia di regole d’ingaggio. Lui chiedeva che fossero rimossi tutti i limiti all’uso delle armi occidentali contro la Russia; i partner gli hanno risposto picche. Conoscevamo i timori di Washington ed eravamo al corrente dei paletti messi dagli italiani. Non a caso, ieri, la Meloni e il presidente ucraino hanno discusso di «difesa aerea» e ricostruzione, ma non di forniture dal potenziale offensivo: parliamo dei famigerati missili a lunga gittata, nella cui consegna, si era ipotizzato, Roma era stata già coinvolta. Dopodiché, pesa l’ennesima frenata del cancelliere tedesco, Olaf Scholz, spesso corteggiato per i Taurus: «Nessuno ha intenzione di cambiare le attuali linee guida», ha tagliato corto lui, «e questo per una buona ragione». Ossia, «evitare che la guerra si trasformi in un conflitto tra Russia e Nato». La stessa posizione l’ha espressa, smentendo clamorosamente il neopremier, Keir Starmer, il ministero della Difesa britannico. Secondo il Telegraph, che ha deplorato la «fase diplomatica imbarazzante» per la Downing Street laburista, il dicastero ha ribadito che la resistenza non ha il permesso di scagliare gli Storm shadow all’interno della Federazione. La politica del governo «non è cambiata», hanno concluso i funzionari inglesi.
Infine, c’è il capitolo finanziario. La Nato si sarebbe impegnata a erogare 40 miliardi di aiuti entro il 2025. Nondimeno, se la partecipazione dei singoli membri dovrà essere proporzionale al loro Pil, sorgono dubbi sull’entità della somma che verrà raccolta: l’Italia, ad esempio, dovrebbe versare 4 miliardi, ma si è resa disponibile a donarne solo 1,7. È stato archiviato, invece, l’ambizioso progetto del segretario uscente, Jens Stoltenberg: trasformare il ricco finanziamento in una dotazione annuale permanente e obbligatoria. Guido Crosetto aveva bocciato la proposta durante la ministeriale di metà giugno. E ora è tornato a invocare lo scorporo degli investimenti per la difesa dai parametri sottoposti ai vincoli del Patto di stabilità nell’Ue.
Joe Biden ha celebrato il successo del vertice, perché «l’Ucraina è ancora in piedi e la Nato è ancora in piedi, più forte e più grande». Non ha torto, purché si riconosca che - con un pizzico di cinismo - la principale preoccupazione dell’Alleanza, prima ancora che far vincere a Kiev la guerra, è tutelare sé stessa. Forse, in prospettiva di una folle guerra con la Russia. Forse, per ritornare protagonista, anche nel Mediterraneo, come auspichiamo noi. E magari, per inviare un messaggio al Dragone, solito convitato di pietra, col quale si stanno acuendo le tensioni. La Cina ci osserva. E noi parliamo la lingua della deterrenza.






