
Mike Pompeo, con toni da Guerra fredda, ha accusato Xi Jinping: «Adepto di un regime». Poi schiaffo indiretto ad Angela Merkel: «Abbiamo un alleato molle che teme di perdere accesso al loro mercato». Washington ci tiene d'occhio sul 5G.In Mike Pompeo, segretario di Stato Usa, forma e sostanza coincidono. Le mosse e le parole lo connotano come un cowboy che non ha dubbi sulla guerra da combattere. Al forum di Bruxelles ha detto espressamente di voler rilanciare la partnership transatlantica in chiave anti Cina. L'obiettivo è definire un lasso di tempo al termine del quale tracciare una linea. E dire al resto del mondo che dovrà scegliere con chi stare. O con l'America o con Pechino. Non a caso l'Inghilterra guidata da Boris Johnson ha dato una fortissima sterzata alle relazioni sinoasiatiche, tanto da mettere al bando il 5G cinese e definire eventuali progetti di implementazione non strategici. Esattamente quanto il partner Usa si aspettava di sentire. Dichiarazioni che invece non sono arrivate in modo altrettanto netto da altri Paesi europei. Partecipando all'evento organizzato dal German marshall fund, Pompeo si è scagliato duramente nei confronti della Cina, menzionando a più riprese «una minaccia del Partito comunista cinese» e sottolineando che ad alimentare questo risveglio transatlantico, come lo ha definito, «avrebbe contribuito sicuramente anche la Cina stessa, nascondendo le informazioni sullo scoppio del Coronavirus». Salvo poi alzare i toni: «Abbiamo un alleato della Nato che non affronta il tema di Hong Kong come si dovrebbe perché teme che Pechino possa restringergli l'accesso al mercato cinese. Questo è il tipo di timidezza che porterebbe a fallimenti già sperimentati, e che non possiamo ripetere», ha detto riferendosi chiaramente alla Germania. E in una sola frase è riuscito a sintetizzare la battaglia sino americana e le tre strade su cui si muove. La prima strada è quella diplomatica. L'Fbi nelle ultime settimane mette nel mirino qualcosa come 5.000 cittadini cinesi presenti sul suolo americano. Una di queste, accusata di essere al servizio dell'intelligence di Pechino, si ripara dentro il consolato di San Francisco. In contemporanea il consolato di Houston in Texas viene chiuso con l'accusa di gestire attività ostili al Paese ospitante. Meno di 24 ore dopo, le autorità della Repubblica Popolare mettono al bando il consolato americano di Chengdu. Pure qui l'accusa è di svolgere attività di spionaggio. La reazione di Pompeo è fortissima. «Xi Jinping adepto di un regime», dichiara. E avviene poco prima dell'attacco alla Germania con le accuse di non rispettare gli accordi sulla spesa militare Nato, di gestire relazioni border line con la Russia e, soprattutto di essere troppo debole con la Cina. Un'accusa che riporta la diatriba al secondo pilastro delle tensioni la strada prettamente militare. Gli Usa sentono la necessità di rafforzare gli investimenti militari dentro la Nato e quindi al desco americano. Servono per fronteggiare l'avanzata navale di Pechino nell'area delle Filippine, ma anche per riportare i programmi militari del Vecchio Continente al livello degli anni Duemila. Ma è la terza strada di conflitto tra i due colossi a essere la più impegnativa e difficile da gestire per l'amministrazione di Donald Trump. Il soft power cinese è per gli americani troppo invasivo ed invadente. Ieri dopo una video conferenza con il tedesco Heiko Maas, il ministro degli esteri Wang Yi ha dato tutte le colpe agli americani, sostenendo che sia la Casa Bianca a voler disgregare lo sviluppo cinese. Il riferimento è netto e porta alle relazioni industriali ed economiche sempre più strette con Airbus, le imprese del nucleare europeo, i colossi dell'auto tedeschi. In un certo senso Wang Yi ha ragione. Gli americani nei prossimi mesi cercheranno di rompere o spezzare i legami tra i Paesi europei e il Dragone. Non solo in Germania, ma anche da noi. L'ambasciata Usa a Roma segue con molta apprensione tutti i dettagli che riguardano l'industria sensibile italiana. Quella dell'aerospazio, della cybersecurity e delle telecomunicazioni. Il soft power passa, infatti, da questi canali. A ottobre dello scorso anno, via Veneto diede una cena di gala in onore di Mike Pompeo, appena sbarcato a Roma per incontrare il governo e i vertici vaticani. Alla cena partecipò anche un pugno di manager. Spiccavano Alessandro Profumo, ad di Leonardo, e Marco Tronchetti Provera, vice presidente esecutivo di Pirelli. I due, parlando agli astanti, fecero cenni all'importanza degli investimenti americani in Italia, come a bilanciare l'espansione cinese. Pompeo al termine del giro di interventi riprese la parola e fece capire che gli investimenti non possono essere messi sul piatto della bilancia a pesare le relazioni atlantiche. Motivo per cui l'ambasciata ha appreso con una certa perplessità la volontà di Leonardo di assumere Filippo Maria Grasso. Bravissimo e conosciutissimo, ma estremamente legato al mondo cinese. Gli americani d'altronde stanno cercando di capire se la recente riorganizzazione dell'azienda e il relativo declassamento delle aerostrutture possa aver qualche significato o connessione con il progetto Comac, che avvicina gli stabilimenti di Pomigliano d'Arco al mondo di Pechino. Nel complesso, il premier Giuseppe Conte non solo non ha detto no al 5G cinese, ma ha permesso che nel recente dl Semplificazioni si inserisse un emendamento che impedisce ai Comuni di vietare le novità tecnologiche del 5G. l'opposto di quanto fatto da Londra. Finché non ci sarà una scelta di campo, gli americani continueranno a guardare con diffidenza ad alcune figure di spicco dei ministeri italiani o a scelte dubbie come quella di Michele Geraci che fece assumere dal Mise Lingjia Chen, una ventiseienne di Shanghai che non sapeva nemmeno l'italiano.
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