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2018-07-06
Piano di Macron per far cadere il governo
Ansa
Come diceva il vecchio Giulio Andreotti, a pensare male si fa peccato, ma quasi sempre ci si azzecca. Per questo vi racconto alcune indiscrezioni raccolte nei giorni scorsi e che riguardano il Pd e un suo futuro alla francese. Tutti si domandano che cosa pensino di fare i capi corrente per rianimare il morente partito della sinistra. Ieri ha provato a interrogarsi sul punto anche Paolo Mieli, che dalle pagine del Corriere della Sera ha tratteggiato le mosse dei compagni in vista delle europee del prossimo anno. In realtà non esiste alcun piano strategico, ma tante manovre messe a punto dai capi bastone del Nazareno nella speranza di resistere all'ondata turboleghista che li sta travolgendo. Il disegno più avanzato è riconducibile al solito Matteo Renzi il quale, nonostante le batoste, non si dà per vinto e sogna un ritorno in grande spolvero. L'ex presidente del Consiglio non si candida a ricostruire il Pd, ma a fondare il partito anti populista italiano, ovvero un movimento che si contrapponga alla Lega di Salvini. Pur usando un nome diverso, il senatore semplice di Scandicci ha in testa il partito della Nazione, ovvero un qualche cosa che vada oltre il Pd e riesca a inglobare Forza Italia. Con declinazioni leggermente diverse rispetto a quello di qualche anno fa, il piano è lo stesso vagheggiato ai tempi del patto del Nazareno: indurre Silvio Berlusconi a un'intesa e poi papparsi ciò che resta degli azzurri, mettendosi al centro della scena politica. Ovviamente il fronte a cui contrapporsi è il governo gialloblù e per raggiungere l'obiettivo Renzi è pronto a cercare alleati anche fuori dall'Italia. Non so se si tratti di una sua illusione, al momento non confortata da riscontri, o se ci siano stati incontri e incoraggiamenti, ma l'ex segretario mira a farsi sponsorizzare dal presidente francese. Per Renzi, Emmanuel Macron non è solo l'uomo che dalla sera alla mattina si è fatto un partito su misura per scalare l'Eliseo in barba ai vecchi schieramenti gollisti e socialisti (e dunque un esempio da imitare), ma è soprattutto l'arcinemico di Salvini e dunque da lui l'ex premier spera di trovare una sponda che lo aiuti a risalire sulla barca da cui gli italiani lo hanno cacciato il 4 dicembre di due anni fa, con il referendum costituzionale.
Tuttavia, ciò che Renzi non sa è che anche altri dentro il Pd si stanno muovendo e pure loro guardano a Parigi, nella convinzione che la riscossa non parta né da Firenze né da Bologna (già, perché ultimamente è segnalato un Romano Prodi in grande agitazione per ripiantare l'Ulivo), ma dalla capitale francese. L'uomo che dovrebbe far risorgere il Pd e segare l'albero su cui è seduta l'alleanza pentaleghista si chiama Enrico Letta, il quale da giorni sfoglia la margherita per decidere se scendere in pista o godersi i molteplici incarichi conquistati sulle rive della Senna. L'ex presidente del Consiglio, da quando è stato disarcionato e ha dovuto cedere la campanella a Renzi, è riparato in Francia, dove siede sulla poltrona di direttore dell'École des affaires internationales oltre a ricoprire l'incarico di presidente dell'Istituto Jacques Delors, un think tank fondato 20 anni fa dall'ex presidente europeo. Il nipotissimo (soprannome dovuto al fatto che il padre Giorgio è fratello del braccio destro di Silvio Berlusconi) a Parigi è di casa e ha rapporti eccellenti con la nomenklatura francese, tanto eccellenti che oltre a essere stato insignito della Legion d'onore, la più alta onorificenza concessa dalla République, è stato nominato nel Comité d'action publique 2022, una commissione governativa voluta dall'Eliseo per riformare lo stato e la pubblica amministrazione di Francia. Per non dire poi dell'incarico di consigliere di amministrazione di Amundi, la società di Crédit Agricole e Sociéte Générale per la gestione del risparmio (recentemente si è mangiata il ramo risparmi di Unicredit). Insomma, se c'è un politico che a Parigi piace, questo è Letta, che zitto zitto negli anni ha coltivato con scrupolo le sue relazioni, in particolare quelle francesi.
Dunque, altro che Renzi: è proprio sul nipotissimo che Macron ha puntato le sue fiche. Alla roulette della politica italiana il presidente francese conta di vincere la posta più grossa, ossia far cadere il governo Conte e soprattutto Salvini, per poi sostituirli con un esecutivo guidato da un più affidabile Letta. Che, se fosse stato a Palazzo Chigi, certo mai avrebbe replicato colpo su colpo all'Eliseo come ha fatto il ministro dell'Interno nei giorni caldi della chiusura dei porti alle Ong. Né avrebbe costretto il toy boy di Brigitte a digerire il boccone amaro della Aquarius dirottata a Marsiglia e, quel che conta, dei profughi della Lifeline trasferiti in blocco da Malta a Parigi. No, certo: Letta sarebbe stato molto più accomodante di Salvini. È per questo che a Monsieur le président piace l'idea di un ritorno a Roma del Cincinnato pisano. Riuscirà a convincerlo? Dicono che in molti siano all'opera per fargli dire di sì, ma le pressioni più importanti siano proprio quelle di Macron, che così potrebbe fare il gallo in Europa. Vedremo.
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Scornato dalla linea italiana su immigrati e Unione europea, il presidente trama con pezzi del Pd per approfittare di eventuali fratture tra Lega e M5s. E rimettere in sella il filofrancese Enrico Letta. Come diceva il vecchio Giulio Andreotti, a pensare male si fa peccato, ma quasi sempre ci si azzecca. Per questo vi racconto alcune indiscrezioni raccolte nei giorni scorsi e che riguardano il Pd e un suo futuro alla francese. Tutti si domandano che cosa pensino di fare i capi corrente per rianimare il morente partito della sinistra. Ieri ha provato a interrogarsi sul punto anche Paolo Mieli, che dalle pagine del Corriere della Sera ha tratteggiato le mosse dei compagni in vista delle europee del prossimo anno. In realtà non esiste alcun piano strategico, ma tante manovre messe a punto dai capi bastone del Nazareno nella speranza di resistere all'ondata turboleghista che li sta travolgendo. Il disegno più avanzato è riconducibile al solito Matteo Renzi il quale, nonostante le batoste, non si dà per vinto e sogna un ritorno in grande spolvero. L'ex presidente del Consiglio non si candida a ricostruire il Pd, ma a fondare il partito anti populista italiano, ovvero un movimento che si contrapponga alla Lega di Salvini. Pur usando un nome diverso, il senatore semplice di Scandicci ha in testa il partito della Nazione, ovvero un qualche cosa che vada oltre il Pd e riesca a inglobare Forza Italia. Con declinazioni leggermente diverse rispetto a quello di qualche anno fa, il piano è lo stesso vagheggiato ai tempi del patto del Nazareno: indurre Silvio Berlusconi a un'intesa e poi papparsi ciò che resta degli azzurri, mettendosi al centro della scena politica. Ovviamente il fronte a cui contrapporsi è il governo gialloblù e per raggiungere l'obiettivo Renzi è pronto a cercare alleati anche fuori dall'Italia. Non so se si tratti di una sua illusione, al momento non confortata da riscontri, o se ci siano stati incontri e incoraggiamenti, ma l'ex segretario mira a farsi sponsorizzare dal presidente francese. Per Renzi, Emmanuel Macron non è solo l'uomo che dalla sera alla mattina si è fatto un partito su misura per scalare l'Eliseo in barba ai vecchi schieramenti gollisti e socialisti (e dunque un esempio da imitare), ma è soprattutto l'arcinemico di Salvini e dunque da lui l'ex premier spera di trovare una sponda che lo aiuti a risalire sulla barca da cui gli italiani lo hanno cacciato il 4 dicembre di due anni fa, con il referendum costituzionale. Tuttavia, ciò che Renzi non sa è che anche altri dentro il Pd si stanno muovendo e pure loro guardano a Parigi, nella convinzione che la riscossa non parta né da Firenze né da Bologna (già, perché ultimamente è segnalato un Romano Prodi in grande agitazione per ripiantare l'Ulivo), ma dalla capitale francese. L'uomo che dovrebbe far risorgere il Pd e segare l'albero su cui è seduta l'alleanza pentaleghista si chiama Enrico Letta, il quale da giorni sfoglia la margherita per decidere se scendere in pista o godersi i molteplici incarichi conquistati sulle rive della Senna. L'ex presidente del Consiglio, da quando è stato disarcionato e ha dovuto cedere la campanella a Renzi, è riparato in Francia, dove siede sulla poltrona di direttore dell'École des affaires internationales oltre a ricoprire l'incarico di presidente dell'Istituto Jacques Delors, un think tank fondato 20 anni fa dall'ex presidente europeo. Il nipotissimo (soprannome dovuto al fatto che il padre Giorgio è fratello del braccio destro di Silvio Berlusconi) a Parigi è di casa e ha rapporti eccellenti con la nomenklatura francese, tanto eccellenti che oltre a essere stato insignito della Legion d'onore, la più alta onorificenza concessa dalla République, è stato nominato nel Comité d'action publique 2022, una commissione governativa voluta dall'Eliseo per riformare lo stato e la pubblica amministrazione di Francia. Per non dire poi dell'incarico di consigliere di amministrazione di Amundi, la società di Crédit Agricole e Sociéte Générale per la gestione del risparmio (recentemente si è mangiata il ramo risparmi di Unicredit). Insomma, se c'è un politico che a Parigi piace, questo è Letta, che zitto zitto negli anni ha coltivato con scrupolo le sue relazioni, in particolare quelle francesi. Dunque, altro che Renzi: è proprio sul nipotissimo che Macron ha puntato le sue fiche. Alla roulette della politica italiana il presidente francese conta di vincere la posta più grossa, ossia far cadere il governo Conte e soprattutto Salvini, per poi sostituirli con un esecutivo guidato da un più affidabile Letta. Che, se fosse stato a Palazzo Chigi, certo mai avrebbe replicato colpo su colpo all'Eliseo come ha fatto il ministro dell'Interno nei giorni caldi della chiusura dei porti alle Ong. Né avrebbe costretto il toy boy di Brigitte a digerire il boccone amaro della Aquarius dirottata a Marsiglia e, quel che conta, dei profughi della Lifeline trasferiti in blocco da Malta a Parigi. No, certo: Letta sarebbe stato molto più accomodante di Salvini. È per questo che a Monsieur le président piace l'idea di un ritorno a Roma del Cincinnato pisano. Riuscirà a convincerlo? Dicono che in molti siano all'opera per fargli dire di sì, ma le pressioni più importanti siano proprio quelle di Macron, che così potrebbe fare il gallo in Europa. Vedremo.
La risposta alla scoppiettante Atreju è stata una grigia assemblea piddina
Il tema di quest’anno, Angeli e Demoni, ha guidato il percorso visivo e narrativo dell’evento. Il manifesto ufficiale, firmato dal torinese Antonio Lapone, omaggia la Torino magica ed esoterica e il fumetto franco-belga. Nel visual, una cosplayer attraversa il confine tra luce e oscurità, tra bene e male, tra simboli antichi e cultura pop moderna, sfogliando un fumetto da cui si sprigiona luce bianca: un ponte tra tradizione e innovazione, tra arte e narrazione.
Fumettisti e illustratori sono stati il cuore pulsante dell’Oval: oltre 40 autori, tra cui il cinese Liang Azha e Lorenzo Pastrovicchio della scuderia Disney, hanno accolto il pubblico tra sketch e disegni personalizzati, conferenze e presentazioni. Primo Nero, fenomeno virale del web con oltre 400.000 follower, ha presentato il suo debutto editoriale con L’Inkredibile Primo Nero Show, mentre Sbam! e altre case editrici hanno ospitato esposizioni, reading e performance di autori come Giorgio Sommacal, Claudio Taurisano e Vince Ricotta, che ha anche suonato dal vivo.
Il cosplay ha confermato la sua centralità: più di 120 partecipanti si sono sfidati nella tappa italiana del Nordic Cosplay Championship, con Carlo Visintini vincitore e qualificato per la finale in Svezia. Parallelamente, il propmaking ha permesso di scoprire il lavoro artigianale dietro armi, elmi e oggetti scenici, rivelando la complessità della costruzione dei personaggi.
La musica ha attraversato generazioni e stili. La Battle of the Bands ha offerto uno spazio alle band emergenti, mentre le icone delle sigle tv, Giorgio Vanni e Cristina D’Avena, hanno trasformato l’Oval in un grande palco popolare, richiamando migliaia di fan. Non è mancato il K-pop, con workshop, esibizioni e karaoke coreano, che ha coinvolto i più giovani in una dimensione interattiva e partecipativa. La manifestazione ha integrato anche dimensioni educative e culturali. Il Dipartimento di Matematica dell’Università di Torino ha esplorato il ruolo della matematica nei fumetti, mostrando come concetti scientifici possano dialogare con la narrazione visiva. Lo chef Carlo Mele, alias Ojisan, ha illustrato la relazione tra cibo e animazione giapponese, trasformando piatti iconici degli anime in esperienze reali. Il pubblico ha potuto immergersi nella magia del Villaggio di Natale, quest’anno allestito nella Casa del Grinch, tra laboratori creativi, truccabimbi e la Christmas Elf Dance, mentre l’area games e l’area videogames hanno offerto tornei, postazioni libere e spazi dedicati a giochi indipendenti, modellismo e miniature, garantendo una partecipazione attiva e immersiva a tutte le età.
Con 28.000 visitatori in due giorni, Xmas Comics & Games conferma la propria crescita come festival della cultura pop, capace di unire creatività, spettacolo e narrazione, senza dimenticare la componente sociale e educativa. Tra fumetti, cosplay, musica e gioco, Torino è diventata il punto d’incontro per chi vuole vivere in prima persona il racconto pop contemporaneo, dove ogni linguaggio si intreccia e dialoga con gli altri, trasformando la fiera in una grande esperienza culturale condivisa.
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i,Hamza Abdi Barre (Getty Images)
La Somalia è intrappolata in una spirale di instabilità sempre più profonda: un’insurrezione jihadista in crescita, un apparato di sicurezza inefficiente, una leadership politica divisa e la competizione tra potenze vicine che alimenta rivalità interne. Il controllo effettivo del governo federale si riduce ormai alla capitale e a poche località satelliti, una sorta di isola amministrativa circondata da gruppi armati e clan in competizione. L’esercito nazionale, logorato, frammentato e privo di una catena di comando solida, non è in grado di garantire la sicurezza nemmeno sulle principali rotte commerciali che costeggiano il Paese. In queste condizioni, il collasso dell’autorità centrale e la caduta di Mogadiscio nelle mani di gruppi ostili rappresentano scenari sempre meno remoti, con ripercussioni dirette sulla navigazione internazionale e sulla sicurezza regionale.
La pirateria somala, un tempo contenuta da pattugliamenti congiunti e operazioni navali multilaterali, è oggi alimentata anche dal radicamento di milizie jihadiste che controllano vaste aree dell’entroterra. Questi gruppi, dopo anni di scontri contro il governo federale e di brevi avanzate respinte con l’aiuto delle forze speciali straniere, hanno recuperato terreno e consolidato le proprie basi logistiche proprio lungo i corridoi costieri. Da qui hanno intensificato sequestri, assalti e sabotaggi, colpendo infrastrutture critiche e perfino centri governativi di intelligence. L’attacco del 2025 contro una sede dei servizi somali, che portò alla liberazione di decine di detenuti, diede il segnale dell’audacia crescente di questi movimenti.
Le debolezze dell’apparato statale restano uno dei fattori decisivi. Nonostante due decenni di aiuti, investimenti e programmi di addestramento militare, le forze somale non riescono a condurre operazioni continuative contro reti criminali e gruppi jihadisti. Il consumo interno di risorse, la corruzione diffusa, i legami di fedeltà clanici e la dipendenza dall’Agenzia dell’Unione africana per il supporto alla sicurezza hanno sgretolato ogni tentativo di riforma. Nel frattempo, l’interferenza politica nella gestione della missione internazionale ha sfiancato i donatori, ridotto il coordinamento e lasciato presagire un imminente disimpegno. A questo si aggiungono le tensioni istituzionali: modifiche costituzionali controverse, una mappa federale contestata e tentativi percepiti come manovre per prolungare la permanenza al potere della leadership attuale hanno spaccato la classe politica e paralizzato qualsiasi risposta comune alla minaccia emergente. Mentre i vertici si dividono, le bande armate osservano, consolidano il controllo del territorio e preparano nuovi colpi contro la navigazione e le città costiere. Sul piano internazionale cresce il numero di governi che, temendo un collasso definitivo del sistema federale, sondano discretamente la possibilità di una trattativa con i gruppi armati. Ma l’ipotesi di una Mogadiscio conquistata da milizie che già controllano ampie aree della costa solleva timori concreti: un ritorno alla pirateria sistemica, attacchi oltre confine e una spirale di conflitti locali che coinvolgerebbe l’intero Corno d’Africa.
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Il presidente eletto del Cile José Antonio Kast e sua moglie Maria Pia Adriasola (Ansa)
Un elemento significativo di queste elezioni presidenziali è stata l’elevata affluenza alle urne, che si è rivelata in aumento del 38% rispetto al 2021. Quelle di ieri sono infatti state le prime elezioni tenute dopo che, nel 2022, è stato introdotto il voto obbligatorio. La vittoria di Kast ha fatto da contraltare alla crisi della sinistra cilena. Il presidente uscente, Gabriel Boric, aveva vinto quattro anni fa, facendo leva soprattutto sull’impopolarità dell’amministrazione di centrodestra, guidata da Sebastián Piñera. Tuttavia, a partire dal 2023, gli indici di gradimento di Boric sono iniziati a crollare. E questo ha danneggiato senza dubbio la Jara, che è stata ministro del Lavoro fino allo scorso aprile. Certo, Kast si accinge a governare a fronte di un Congresso diviso: il che potrebbe rappresentare un problema per alcune delle sue proposte più incisive. Resta tuttavia il fatto che la sua vittoria ha avuto dei numeri assai significativi.
«La vittoria di Kast in Cile segue una serie di elezioni in America Latina che negli ultimi anni hanno spostato la regione verso destra, tra cui quelle in Argentina, Ecuador, Costa Rica ed El Salvador», ha riferito la Bbc. Lo spostamento a destra dell’America Latina è una buona notizia per la Casa Bianca. Ricordiamo che, alcuni giorni fa, Washington a pubblicato la sua nuova strategia di sicurezza nazionale: un documento alla cui base si registra il rilancio della Dottrina Monroe. Per Trump, l’obiettivo, da questo punto di vista, è duplice. Innanzitutto, punta a contrastare il fenomeno dell’immigrazione irregolare. In secondo luogo, mira ad arginare l’influenza geopolitica della Cina sull’Emisfero occidentale. Vale a tal proposito la pena di ricordare che Boric, negli ultimi anni, ha notevolmente avvicinato Santiago a Pechino. Una linea che, di certo, a Washington non è stata apprezzata.
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